Si ebbe
chiara la certezza che Luigi De Magistris non avrebbe combinato un cazzo come
sindaco di Napoli quando lo si vide con una bandana arancione in testa agitarsi
come un ossesso sotto crepitanti
fuochi d’artificio
sul palco allestito in Piazza del Municipio per festeggiare la sua
vittoria nel ballottaggio con Gianni Lettieri. La sobrietà di Ignazio Marino non
consente ovviamente di esser sicuri che sarà un buon sindaco, tanto meno che riuscirà a
risolvere i tanti problemi di Roma, però è un buon viatico.
lunedì 10 giugno 2013
venerdì 7 giugno 2013
Eccheccazzo!
Non so a
voi, ma a me Filippo Facci piace tanto, d’altronde mi pare di averlo già detto
in due o tre occasioni. Innanzitutto, condivido sei volte su sette ciò che
scrive. Poi, trovo che lo scriva in modo assai brillante. In più, cosa alla
quale personalmente do enorme importanza, penso abbia la rara virtù di non
cedere mai alla tentazione di fare il ruffiano col lettore, un vizio che è così
comune in chi vive di ciò che scrive, ma che ritengo insopportabile. Per tutto
questo, e per quell’id cui non so dare un nome, e che a torto o a ragione mi
sembra di poter presumere, lo trovo assai simpatico anche sul piano umano.
Ciò
detto, occorre dire che nessuno è perfetto, e anche a lui, volendo, si può
trovare qualche difetto. Il peggiore, a mio parere, è la sua insana passione per
Richard Wagner, ma qui siamo in tema di gusti, e i gusti sono gusti, e insomma
si può chiudere un occhio. Volentieri lo chiudo anche sul fatto che talvolta si
conceda pose da vanesio, perché in fondo, via, manco è un difetto: ci casca pure
chi non può permetterselo. La cosa che più mi dà fastidio, invece, è che scriva
su Libero, un giornalaccio che m’imbarazza tenere in mano anche per i due
minuti che servono a leggere il suo Appunto quotidiano. Anche su questo,
tuttavia, riesco a chiudere un occhio: quando sei fuori dal mainstream,
difficilmente ti assumono a la Repubblica o al Corriere della Sera. D’altra
parte, anche scrivendo per Libero, Filippo Facci non ha mai esitato a prendere
posizioni che avrebbero fatto storcere il muso al lettore-tipo di quella
testata, ed è infatti accaduto che qualche muso si sia storto, in passato, ma
senza ch’egli abbia ceduto un millimetro, saldo nel pie’ come Siegmund quando
palleggia la lancia.
Poi, certo, il pie’ è pur sempre pie’, e capita che possa
pestare una merda.
Come si possa scrivere un corsivo sul presidenzialismo, sul rischio che il populismo lo possa trasformare in un serio pericolo per la democrazia, sull’immaturità degli italiani che ciclicamente si fanno abbindolare dal primo arruffapopolo che passa, come si possa citare Craxi, Di Pietro, Grillo, riuscendo a non nominare Berlusconi, né a sfiorarlo neppure in ellissi
– beh, con tutta la stima, tutta l’ammirazione e tutta la simpatia, non si capisce, e onestamente fa girare le palle.
Perché si parla di presidenzialismo? Perché Berlusconi pensa di poter salvare il culo rifugiandosi al Quirinale. E tu, biondo eroe senza paura e senza macchia, riesci a tenerlo fuori dal tuo corsivo? Eccheccazzo!
giovedì 6 giugno 2013
Appunti
È da
tempo che mi chiedo cosa riesca a trattenere un paese dalla rivolta per accontentarsi
del mugugno, tutt’al più dell’urlo. Non di un paese normale, dico, ma di un
paese come il nostro, che ha sempre guardato con sospetto alla coerenza tra il
dire e il fare. Sì, è vero, qualcuno spara, ma a cazzo di cane, e qualcun altro
si dà fuoco, ma brilla giusto per due ore sulla homepage dei siti d’informazione, ripuliscono
l’asfalto e la parola passa allo psichiatra.
Poi, sì, ci sono cortei, si grida, si schiuma, parte qualche manganellata,
qualche poliziotto riporta una contusione, ma insomma si tratta di robetta,
tanto per scaricare un poco i nervi. Meglio così, ovviamente, perché la
violenza è sempre brutta brutta brutta, lo dicono un po’
tutti, e si sa come s’inizia e non si sa come
si finisce. E poi autorizza alla repressione e alla restrizione delle libertà
civili, e poi apre la via alle soluzioni autoritarie, cui finiscono per dare il
maggior sostegno proprio quelli che hanno fatto più casino.
Perché tanti poveri
e nessuna rivoluzione? Perché tanti arrabbiati e le pallottole viaggiano solo in
busta? Ogni puntata di Piazza Pulita o di Servizio Pubblico o di Report sembra dover fare da innesco, e tutt’al più si risolve in una figura di merda di Di Pietro o nella scoperta che la Santanché forse è lesbica. Perché gli straccioni insultano Franceschini che cena pacificamente e non devastano il ristorante?
Scarto
le ipotesi che mi paiono ridicole – quella di Grillo, per esempio, che continua
a millantare: «Se non scoppia la violenza, è perché c’è il M5S» – e dando uno
sguardo al passato, passando in rassegna i pochissimi episodi che nel corso dei
secoli hanno visto le nostre piazze riempirsi di esasperati più o meno
organizzati, quasi sempre nient’affatto organizzati, non riesco a trovare un’altra
risposta: la rivolta non ci è congeniale e comunque non siamo esasperati al
punto giusto. Probabilmente la violenza scoppierà se e quando alla maggioranza
degli italiani che sono con un piede o entrambi nell’indigenza mancherà il
denaro per ricaricare il cellulare o per tentare la botta di culo al Gratta&Vinci
e al Superenalotto. Se e quando scoppierà, comunque, quasi certamente non avrà
profilo insurrezionale: stingerà nel vandalismo, nel saccheggio, nella rabbia
che s’accanirà sui simboli, cose e persone che delle cause potranno dirsi al
massimo espressione. Non sono ancora nelle condizioni di poter meditare
pubblicamente su quello che ci attende, tanto meno per guardare nelle viscere della carogna e trarne aruspici, mi prende una specie di pudicizia e mi limito a vergare appunti.
mercoledì 5 giugno 2013
[...]
Ho
smesso di seguire Pierluigi Battista su Twitter, ho cominciato ad evitare i suoi articoli, cambio
canale quando è ospite di un talk show. Sennò divento grillino, e chi mi conosce sa cosa io pensi di Grillo. Non che fosse ’sto tabernacolo di intelligenza e simpatia, prima, ma da quando gli è morta la moglie, sarà mera coincidenza, sarà che il lutto gli ha tolto la scorza, pare si compiaccia a fare lo stronzo. L’impressione è che il suo referente sia il cinismo della residua classe media che non è stata ancora sensibilmente toccata dalla crisi economica e coltiva la certezza che
possa farla franca
appiattendosi sugli interessi di chi ne ha tratto vantaggio. Più lo guardo, più lo sento, più lo leggo, e più mi pare stia tra Roberto
D’Agostino e Giuliano Ferrara, terza posizione tra due modi uguali e diversi di parassitare il marcio. Ovviamente è probabile ch’io sia in errore, e chissà che personcina deliziosa sia. Ma il fastidio che mi ha cominciato a dare è diventato enorme.
domenica 2 giugno 2013
Per salvare Beatriz
Un
quarto dei feti anencefali muore in utero o nel venire alla luce, altri due quarti
muoiono entro le prime 6-24 ore dopo il parto e non si ha notizia, dalla notte
dei tempi a oggi, di un anencefalo che sia vissuto più di una settimana.
Parliamo di una malformazione data dall’assenza di gran parte della massa
cerebrale, spesso perfino dei nuclei della base, talvolta addirittura del
mesencefalo e del bulbo spinale, condizioni che realizzano, pur nella enorme differenza del substrato organico, un quadro clinico analogo, ma assai
più grave, a quello che si osserva nella cosiddetta morte cerebrale, che da
almeno una dozzina d’anni la Chiesa cattolica si è persuasa ad equiparare alla morte
di fatto.
Ce n’è abbastanza per affermare che l’interruzione di gravidanza non è omicidio quando il feto è
anencefalo? Anche recependo integralmente la logica sulla quale regge la
dottrina cattolica, dove sarebbero gli estremi per poter parlare di persona, o
di coscienza, nel caso di un feto anencefalo? È pur vero che, in caso di
conflitto tra la vita della gravida e quella del feto, la morale cristiana fa fermo divieto di ogni discriminazione di valore, e tuttavia un’eccezione
è contemplata proprio quando non vi sia alcuna possibilità di salvare la vita del
feto e il protrarsi della gravidanza metta in serio pericolo la vita
della gravida. Proprio come nel caso della gravidanza di Beatriz.
Bene, non le
hanno concesso di abortire. Hanno deciso di farle un taglio cesareo a 25
settimane, che nella stragrande maggioranza dei casi porta alla morte del feto
estratto prematuramente, anche quando non sia malformato, anche quando la gravida goda di ottima salute. In pratica, si è
trattato dell’aborto di un feto che non avrebbe avuto alcuna speranza di
sopravvivere, anche se fosse venuto alla luce al termine della gravidanza, ma a
questo aborto si doveva dare la parvenza di un parto, per salvare il mero
involucro formale della morale cattolica e forse, chissà, visto che il caso
aveva già sollevato un bel polverone, per non trovarsi il cadavere di Beatriz sul
groppone. È che aveva chiesto di poter abortire, non poteva tornare buona come santa.
sabato 1 giugno 2013
Non hanno paura di niente
[Allego in coda
a questo post quanto andrebbe bene qui in premessa, ma appesantirebbe troppo il testo: si tratta
della risposta che ho dato l’anno scorso a chi mi muoveva l’accusa di essere un
malpensante. Mi è stata mossa anche oggi, ma il tono era
piacevolmente ironico, per ciò che ho scritto nel post precedente a questo, col quale sollevavo
il sospetto che il ddl oggi annunciato dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del
finanziamento dei movimenti e partiti politici» – anche così com’è in bozza, anche senza gli immancabili
emendamenti che vi apporterà il Parlamento – sia una solenne presa per il culo. Riproporre oggi quel post ha il fine eminentemente pratico di risparmiarmi ogni risposta a chi volesse sollevare nella pagina dei commenti l’obiezione che la mia riflessione sia viziata da un pregiudizio ostile a questo governo, ai partiti che lo appoggiano, ecc. E dunque...]
Il ddl approvato
ieri dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del
finanziamento dei movimenti e partiti politici» è disonesto fin dal primo comma
del primo articolo: «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». In
realtà, almeno formalmente, il finanziamento pubblico dei partiti è già stato
abolito nel 1993, grazie a un referendum che raccolse il 90,3% dei consensi a
favore dell’abolizione. Referendum tradito pochi mesi dopo, con una legge che
disponeva un «contributo per le spese elettorali» (legge 515/1993). «Un rimborso di questo tipo –
disse uno dei suoi promotori (gli venisse un cancro in culo, se è ancora vivo) – ha
una sua autonoma ragion d’essere e non deve trasformarsi, né si trasformerà, in
una nuova forma di finanziamento dei partiti come tali». A chi avesse sollevato
il sospetto che fosse un modo per far rientrare dalla finestra ciò che era
stato appena cacciato dalla porta, si sarebbe detto: «Via, che malpensante».
E
dunque a quale «finanziamento pubblico dei partiti» fa riferimento, il ddl del
governo Letta? A un finanziamento che sostanzialmente non è mai stato abolito e
che anche stavolta si fa finta di cacciare dalla porta, provvedendo per tempo a
spalancargli la finestra, con la più che implicita ammissione che si tratta della replica di una truffa. Un sospetto da malpensante? La logica interna al sistema dei partiti, per come è strutturato in Italia, impone lo scetticismo come un dovere. E in questo caso –
vedremo – non mancano elementi per dargli legittimità di metodo, riavendone in cambio prove ampiamente argomentate: siamo dinanzi agli stessi luridi parassiti di vent’anni fa, sono solo cambiati i volti, e ci rifilano lo stesso trucco, ma gli hanno trovato un altro nome, stavolta è «contribuzione volontaria privata». Bugia enorme, tanto più sfacciata quanto più si procede nella lettura del ddl, che «assicura, in favore dei partiti e dei movimenti politici […] la
disponibilità, in almeno ciascun capoluogo di provincia, di idonei locali per
lo svolgimento delle attività politiche, nonché per la tenuta di riunioni,
assemblee e manifestazioni pubbliche» (art. 5), dando loro il
«diritto ad accedere, al di fuori dei periodi della campagna
elettorale […] a spazi televisivi messi a disposizione a titolo gratuito dalla
concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo» (art. 6). In pratica, logistica e comunicazione sono a carico dello Stato, con quanto si troverà modo di spremere facendo la cresta su queste voci e quelle che senza dubbio saranno aggiunte con gli immancabili emendamenti (energia elettrica, telefonia, posta, ecc.). Oltre al contributo del duexmille e a quello volontario dei privati, che potranno in buona misura detrarlo in sede di dichiarazione dei redditi, e quindi a ulteriore carico dello Stato, i partiti trovano modo di concedersi a gratis tutto ciò che prima pesava sui loro bilanci per almeno un terzo delle spese.
Poi, il punto più ambiguo, quello del duexmille: «Ciascun
contribuente può destinare il duexmille della propria imposta sul reddito a
favore di un partito o movimento politico» (art. 4, comma 1) e «le destinazioni
[…] sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede
di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda
recante l’elenco dei soggetti aventi diritto» (art. 4, comma 2), in barba alla
segretezza del voto o delle preferenze politiche, che pure viene promessa, ma
senza alcuna spiegazione su come la promessa possa essere mantenuta.
Si parla di un tetto massimo di 61 milioni di euro, ma stranamente il dato non è specificato nella bozza del ddl, che pure gronda di numeri con encomiabile spreco di virgole. Ma poi c’è
il bello: «In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili […] è
destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse» (art.
4, comma 3), e qui siamo a una variante bastarda di ciò che correntemente
avviene con l’ottoxmille.
Bastasse, ma non basta. Tutto, ammesso rimanesse come è sulla carta, entrerebbe a pieno regime fra tre o quattro anni, e nel frattempo il denaro pubblico ai partiti non diminuirebbe, anzi,
c’è l’opportunità che possa quasi raddoppiare. Insomma, anche volendo tener da parte il pregiudizio che ci istiga a tener presente che merde siano, questi boiardi della partitocrazia italiana mostrano una incredibile faccia tosta. Si stanno dividendo i compiti:
c’è chi lamenta che un centinaio di dipendenti e funzionari di partito potrebbero essere licenziati (e non si capisce perché dovrebbero muoverci a compassione più degli altri licenziati nel settore pubblico e in quello privato) e
c’è chi invece annuncia che il ddl sarà una rivoluzione. Non hanno paura di niente.
«Pensar male» e «pensar bene» (Malvino, 18.4.2012)
L’implicazione d’ordine
morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante»,
cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli
altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una
cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline
a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i
comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti,
non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso
fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il
«bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda
inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio
«pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene»)
si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto
regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente
buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio
«pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che
difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere
confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che
sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto
che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori
dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è
male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri
termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel
«malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono»
può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto.
(Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto
che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico
che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza
difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il
«benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un
involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure
interne.) Ciò
premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia
i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso,
adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito
morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente
buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di
qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico
applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o
esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico,
sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma
o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non
mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si
appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere,
sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette
ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie
argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che
pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è
solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del
«malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di
categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume
al «pensare».
venerdì 31 maggio 2013
Ci staranno mica pigliando per il culo?
A
quanto assomma la quota annuale dell’8xmille che per quasi l’80% va alla Chiesa cattolica, per poco più del 10% va
allo Stato, e per il resto è destinato a Chiesa valdese, Unione delle comunità
ebraiche, Chiesa evangelica luterana, Unione delle chiese cristiane avventiste
del settimo giorno e Assemblea di Dio? Circa un miliardo e 200 milioni di euro.
Faccio male i conti o il 2xmille che il ddl del governo Letta destina al
finanziamento dei partiti assommerebbe a circa 300 milioni? E attualmente a
quanto assomma il denaro che viene destinato ai partiti con la formula del
rimborso elettorale? Quest’anno al Pd andrebbero 45 milioni, al M5S ne
andrebbero 42, al Pdl 38… Insomma, per farla breve, il totale sarebbe di circa
160 milioni di euro. Che ovviamente vengono dalle tasche dei contribuenti. Ed è
dalle tasche dei contribuenti che verrebbero i 300 milioni destinati ai partiti
con la formula del 2xmille: 140 milioni in più di come è stato fino ad ora.
Sicuramente
avrò sbagliato a fare i conti, altrimenti non si capisce in cosa consisterebbe
l’annunciata stretta di cinghia: ci staranno mica – per l’ennesima volta –
pigliando per il culo?
giovedì 30 maggio 2013
Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo
Nel
corso dell’intervista concessa a Gianluigi Nuzzi, e andata in onda ieri (La7,
29.5.2013), Luigi Bisignani ha detto: «Sa chi mi presentò Mauro Moretti?
Lorenzo Necci». Non è la prima volta che lo dice: «Moretti mi fu presentato da
Necci» (la Repubblica, 21.6.2011). Moretti ne ha dato conferma, collocando temporalmente quel primo incontro al periodo in cui Necci era a capo delle
Ferrovie dello Stato (1989-1996): «Ho conosciuto Bisignani all’epoca di Necci»
(La Stampa, 21.6.2011). Dove avvenne l’incontro sarebbe questione irrilevante,
se non fosse che diciassette anni fa, intervistato da Giuseppe D’Avanzo,
Giuliano Ferrara diede Bisignani come «presenza fissa in casa Necci» (la
Repubblica, 18.9.1996), mentre già da mesi rilanciava «il sussurro che
personaggi quali Antonio Maccanico, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi,
Lorenzo Necci, Enrico Cuccia siano affratellati dalla squadra e dal compasso»
(Il Foglio, 6.2.1996). Particolarmente stizzita fu la reazione di Bisignani all’insinuazione
che a casa Necci fosse operativa una centrale massonica e che egli ne fosse
membro.
«Frequentatore né fisso né saltuario di casa Necci». «Meno ancora ho frequentato sedi e società delle Ferrovie dello Stato». E allora dove avvenne quell’incontro? Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo.
Misteri dei potenti
La
mania di Alfano per gli oroscopi, monsignor Fisichella che ospita complotti a
casa sua, Statera e Moretti due stronzi ingrati, sì, sì, tutto molto, molto
interessante. Ma erano gocce di sudore o di saliva, quelle che imperlavano il mento
di Bisignani intervistato da Nuzzi, ieri sera? È la cosa che mi ha più colpito dell’intervista,
e ancor più mi ha colpito che pareva non gli dessero fastidio, stavano lì, quasi ne grondava e non se ne tergeva, come una bavetta cui sembrava abituato. Misteri dei potenti, così uguali alle meravigliose stranezze della fauna esotica. Così umane, quasi troppo umane, invece, le cicatrici di Nuzzi.
mercoledì 29 maggio 2013
Da mucca assassina a pecorella smarrita
Tre o
quattro secoli fa l’Europa vedeva scorrere un fiume di sangue nella contesa tra
cattolici e protestanti sul tema della Grazia. Difficile fare un conto di
quanti si sgozzarono a vicenda nel questionare, su un ramo di quel fiume, se per
essere degni d’essere in comunione con Cristo fosse necessaria o meno l’assoluzione, previa la confessione dei propri peccati a
un ministro del culto.
Bene, tornando ai funerali di don Gallo, vedendo
Vladimir Luxuria esser presa da un prepotente quanto estemporaneo bisogno di
eucaristia, estemporaneo il tanto da escludere si fosse confessata prima, vedendo il cardinal Angelo Bagnasco soddisfare prontamente quell’urgenza, senza porsi
alcun problema se la figliuola fosse in regola con quanto prescrive il
Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 1385 (che riprende fedelmente quanto
prescritto al punto 630 del Catechismo Maggiore di Pio X), possiamo dire che
tutto quel sangue è scorso inutilmente: confessione e assoluzione sono ormai superflue,
comunque non indispensabili per accostarsi all’eucaristia. E di ciò possiamo
essere praticamente sicuri, perché non hanno avuto da ridire nemmeno i più
zelanti tra i cattolici tradizionalisti, che solitamente gridano allo scandalo
pure se la cotta dell’officiante è troppo lunga o è troppo corta, o se i grani
d’incenso nel turibolo non crepitano come si deve, o un bemolle del canto
gregoriano è troppo molle.
Ne
avevamo già avuto il sospetto quando vedemmo Silvio Berlusconi, a bocca aperta
e ad occhi chiusi, papparsi l’ostia ai funerali di Bettino Craxi, prima, e a
quelli di Raimondo Vianello, poi, però commettemmo l’ingenuità di credere che
si fosse chiuso un occhio per i favori che aveva concesso al Vaticano, d’altronde
erano i tempi in cui gli si scusavano anche i «porcoddio». Con l’eucaristia
concessa a Vladimir Luxuria, però, occorre rettificare: alla persona che gode
di notorietà, anche se pubblico peccatore, soprattutto se pubblico peccatore, una
cialda di frumento non si nega mai. D’altra parte non costa che pochi
centesimi, ma il ritorno d’immagine misericordiosa presso il pubblico che
simpatizza per il beneficato è immenso.
Ieri c’era Ratzinger, e tornava comodo
mostrarsi benevoli col puttaniere in odor di mafia che si offriva come defensor fidei. Oggi c’è
Bergoglio, e torna comodo lisciare il pelo alla transgender comunista che d’un
tratto pare aver scoperto la dimensione mistica. Da mucca assassina a pecorella smarrita, un apologo edificante, no? In modo diverso, certo, e in tempi diversi, ma tornano utili entrambi se in posa da resipiscenti, e allora non è il caso di star lì a sottilizzare, in fondo la dottrina è roba da ragazzini che preparano il corso per la prima comunione. Poi, diciamocela tutta, chi se ne fotte dei peccati di Berlusconi e di Luxuria? Sono più eccitanti i peccati dei ragazzini, via, è a loro che bisogna insegnare che non ci si può accostare al corpo e al sangue di Gesù senza essere passati prima per il confessionale.
martedì 28 maggio 2013
Il dramma della sodomia nella Diocesi di Roma
Quello che
terremoto, maremoto e disastro nucleare in Giappone erano punizioni divine. Che
Adamo ed Eva sono davvero esistiti, e pure il paradiso terrestre, naturalmente.
Quello che le teorie di Darwin sono tutte stronzate. E che la morte cerebrale è
ancora vita. Che il crollo dell’Impero Romano è tutta colpa dei froci. Sì,
insomma, il professor Roberto De Mattei. Bene, occorre esprimergli solidarietà,
perché è stato fatto oggetto di censura: il Tribunale Ordinario di Roma ha
oscurato una pagina del suo sito. Non quella in cui c’è scritto che Giordano
Bruno «fu giustamente arrestato, processato e condannato», né quella in cui c’è
scritto che «l’evoluzionismo è privo di ogni connotazione scientifica», e
nemmeno quella in cui si legge che il riconoscimento della parità di diritti per
i gay è espressione di una «deriva anti-umana». No, gli hanno oscurato una
pagina dalla quale si levava alto il lamento per «il dramma della sodomia nella
diocesi di Roma». È che faceva nomi e cognomi, qualcuno si sarà sentito
diffamato o si sarà sentito bruciare la coda di paglia. Boh, va’ a capire, in
fondo il professore ha scelto
per il suo sito
un nome che è tutto un programma:
Corrispondenza romana, lo stesso che dava il titolo all’agenzia del famigerato monsignor
Umberto Benigni, quello cui Pio X diede mandato di stanare i subdoli modernisti
che come zecche infestavano il ventre molle del Vaticano, giusto un secolo fa. Nobile
intenzione, dunque, quella della denuncia della lobby gay che devasta - pardon, devasterebbe - la Curia
romana, ma senza avere prove sarebbe stato meglio evitare di far nomi e cognomi.
Ecco perché, oscurando quelli, ho deciso di pubblicare qui quell’articolo, che
ritengo estremamente divertente. Se contenga fatti veri, a questo punto, è questione
del tutto irrilevante. L’importante è il divertimento.
IL
DRAMMA DELLA SODOMIA NELLA DIOCESI DI ROMA
Uno dei problemi che Papa Francesco dovrà affrontare è quello dell’immoralità dilagante del clero che dalla periferia della cristianità giunge al cuore della Curia romana. La stampa laicista mette l’accento sul fenomeno della pedofilia, fingendo di ignorare che questo male affonda le sue radici nella piaga ben più vasta e ramificata della sodomia.
Due sacerdoti, l’italiano don XXXX XXXXXXX XXXX XX XXXXXX, che nel dicembre 2011 ha dato alle stampe la sua opera X XXXXXX XX XXXX XXXXX, e il polacco don XXXXXX XXX, docente della XXXXXXXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXX XX di XXXXXXX, che nell’estate del 2012 ha pubblicato XXX XX XXXX XXXXX XX XXXXXXXX, hanno recentemente sollevato il dibattito sull’esistenza di una vera e propria lobby omosessuale che esercita, in maniera sempre più coercitiva, una forte influenza dentro la Chiesa, anche ai livelli più alti delle responsabilità ecclesiastiche. La piaga di quella che è stata definita omoeresia, omomafia, omosessualizzazione della Chiesa, è ormai nota e il problema comincia ad essere affrontato da diversi siti cattolici e da studiosi come lo psicologo XXXXXXX XXXXXXXXXX nella sua opera XXXXXXXXXXXXX X XXXXXXXXX XXXXX XXXXXX, in cui l’articolo di don XXX è riportato integralmente in appendice.
Lo scenario è nauseante, fatto di potenti intrecci che coinvolgono prelati e sacerdoti di dubbi costumi, seminari, abbazie, monasteri, dove è pacificamente praticata una vita sessuale tendente all’effeminatezza. In queste istituzioni, talvolta storiche, gli elementi sani rischiano di esser stritolati.
In questa situazione di drammatico degrado ecclesiale arrivano sempre più numerose le segnalazioni di seminari e case di formazioni dove si diffondono pratiche sessuali in grave e aperto conflitto con l’etica cattolica, tollerate se non favorite o perfino talora sollecitate dai superiori. Una fotografia della generale corruzione del clero ce la dà la diocesi di Roma, se è vero essa è immagine della Chiesa nella sua universalità. Il XXXXXXX XXXXXXXX XX XXX XXXXXXX sembra voler dare di sé l’immagine di persona inflessibile su certi fenomeni, ma di fatto poi, stando a quanto narrano e documentano numerosi sacerdoti e seminaristi, le punizioni esemplari ricadano solo sui deboli, mentre i potenti godono di una impunità ai più alti livelli. In un suo editoriale del 14 gennaio 2013, il direttore della XXXXX XXXXXXX XXXXXXXXXX, XXXXXXXX XXXXXXX, solleva un quesito rimasto senza risposta: «Tutti ricordiamo anche l’inchiesta del settimanale Panorama nel luglio 2010 sulle notti brave di alcuni preti gay a Roma. Fu un’inchiesta che generò giustamente scandalo e il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX, il cardinale XXXXXXXX XXXXXXX fece affermazioni durissime contro questi sacerdoti, invitandoli a uscire allo scoperto e abbandonare il sacerdozio: eppure non se ne è saputo più niente, non ci sono state sanzioni di alcun genere sebbene alcuni dei responsabili fossero identificabili».
XXXX XX XXXXXX nel suo libro, che a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione non è stato mai smentito, ricorda, da parte sua, una denuncia, da lui presentata contro la palese immoralità del parroco di una importante basilica romana. Il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX reagì dichiarando XXXX XX XXXXXX persona non gradita nell’ambito pastorale romano e lasciando che il prete immorale rimanesse al suo posto. Episodio che il sacerdote ha nuovamente riferito di recente in un’intervista in cui dichiara, tra l’altro, che «nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista».
Anche il sacerdote polacco XXXXXXX XXX è dello stesso avviso del confratello italiano ed a conferma di certe dinamiche scrive nel suo articolo: «Quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all’ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose». Se questi fatti, diversi dei quali resi pubblici e ancora in attesa di smentita fossero veri, la situazione ecclesiastica di Roma e delle diocesi italiane è a dir poco spaventosa.
Quel che più impressiona è che tutti, pur sapendo, tacciono, persino dinanzi a una denuncia, giungendo all’aberrazione di punire l’innocente proteggendo il colpevole. Ma se Roma è paradigma della Chiesa universale, a Roma una realtà è più di ogni altra cartina di tornasole, l’XXXX XXXXXXXX XXXXXXXXX, conosciuto per essere il più antico e prestigioso Istituto di formazione sacerdotale dell’Urbe e dell’orbe, l’unico dipendente direttamente dalla Santa Sede che provvede alla nomina del suo rettore. Già negli anni ‘70 il periodico XX XXXXXXXX pubblicò un dossier sulla generale immoralità regnante in questo Istituto; dossier che costò la testa dell’allora rettore fatto vescovo. Sostituito il rettore e placate sul momento le acque, tutto tornò però presto tale e quale a prima.
L’ultimo tentativo di moralizzazione fu fatto nei primi anni 2000 con il rettorato di uno spigoloso sacerdote marchigiano, ora in servizio presso la Santa Sede, che cercò di portare un po’ d’ordine e decenza. Si dimise dopo meno di due anni, su pressione di certi ambienti curiali che non tolleravano il suo desiderio di far pulizia. La situazione, ad oggi, non sembra cambiata.
Questo Istituto è un paradigma perfetto: una facciata di aulica nobiltà fatta di secolari tradizioni e un dietro le quinte fatto di notti brave dei seminaristi che, una volta liberi e dismesso il clergyman d’ordinanza, possono entrare e uscire a tutte le ore del giorno e della notte. Quindi incontri particolari tra seminaristi, ma anche tra prelati più o meno potenti in cerca di compagnia. Amicizie molto intime tra alunni, sia seminaristi che sacerdoti, sono all’ordine del giorno fino alla costituzione di vere e proprie coppiette omosex, il tutto senza troppo bisogno di nascondere. All’interno di questo blasonatissimo seminario basta avere un po’ di confidenza con qualche seminarista per sapere chi è “fidanzato” con chi e quali siano i nomignoli al femminile con cui è chiamato questo o quel seminarista, questo o quel sacerdote.
Per giustificare questo stato di depravazione, chi governa questo microcosmo seminariale invoca il principio dell’autoformazione della Pastores dabo vobis (n. 69) e del Direttorio su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, stravolti però in senso tutto quanto liberal. Il documento Orientamenti e norme per i seminari (n. 73) riconosce sì come necessaria al processo formativo la capacità all’autoformazione del candidato al sacerdozio, ma non declinata secondo una prassi libertaria che finisce col farsi poi de facto libertina.
Se poi si considera che questo ambíto istituto è una vera e propria “fabbrica” di vescovi, nunzi apostolici e cardinali, come non rabbrividire? Si dirà: è un caso isolato dovuto a particolarissime condizioni. In realtà è molto di più: è un paradigma. Si tratta infatti del più antico e titolato istituto, direttamente dipendente dalla Santa Sede, preposto alla formazione sacerdotale. Non vogliamo generalizzare, ma viene da chiedersi: se tanta è la sporcizia nel collegio la cui direzione dipende immediatamente dalla Prima Sede, cosa accadrà negli altri dipendenti dalle sedi secondarie? Quella sporcizia denunciata dal cardinale Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 sommerge la Roma dei seminari e dei collegi, a partire proprio dal più prestigioso ed esclusivo. Preghiamo dunque perché il nuovo Papa trovi la forza di iniziare la pulizia morale che tutti invocano dalla diocesi di cui, fin dal giorno della sua elezione, si è proclamato con fierezza vescovo.
Anche depurato, sono certo che l’articolo non perda efficacia. Se anche così meriti di essere oscurato, sono ansioso di sapere il perché.
Uno dei problemi che Papa Francesco dovrà affrontare è quello dell’immoralità dilagante del clero che dalla periferia della cristianità giunge al cuore della Curia romana. La stampa laicista mette l’accento sul fenomeno della pedofilia, fingendo di ignorare che questo male affonda le sue radici nella piaga ben più vasta e ramificata della sodomia.
Due sacerdoti, l’italiano don XXXX XXXXXXX XXXX XX XXXXXX, che nel dicembre 2011 ha dato alle stampe la sua opera X XXXXXX XX XXXX XXXXX, e il polacco don XXXXXX XXX, docente della XXXXXXXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXX XX di XXXXXXX, che nell’estate del 2012 ha pubblicato XXX XX XXXX XXXXX XX XXXXXXXX, hanno recentemente sollevato il dibattito sull’esistenza di una vera e propria lobby omosessuale che esercita, in maniera sempre più coercitiva, una forte influenza dentro la Chiesa, anche ai livelli più alti delle responsabilità ecclesiastiche. La piaga di quella che è stata definita omoeresia, omomafia, omosessualizzazione della Chiesa, è ormai nota e il problema comincia ad essere affrontato da diversi siti cattolici e da studiosi come lo psicologo XXXXXXX XXXXXXXXXX nella sua opera XXXXXXXXXXXXX X XXXXXXXXX XXXXX XXXXXX, in cui l’articolo di don XXX è riportato integralmente in appendice.
Lo scenario è nauseante, fatto di potenti intrecci che coinvolgono prelati e sacerdoti di dubbi costumi, seminari, abbazie, monasteri, dove è pacificamente praticata una vita sessuale tendente all’effeminatezza. In queste istituzioni, talvolta storiche, gli elementi sani rischiano di esser stritolati.
In questa situazione di drammatico degrado ecclesiale arrivano sempre più numerose le segnalazioni di seminari e case di formazioni dove si diffondono pratiche sessuali in grave e aperto conflitto con l’etica cattolica, tollerate se non favorite o perfino talora sollecitate dai superiori. Una fotografia della generale corruzione del clero ce la dà la diocesi di Roma, se è vero essa è immagine della Chiesa nella sua universalità. Il XXXXXXX XXXXXXXX XX XXX XXXXXXX sembra voler dare di sé l’immagine di persona inflessibile su certi fenomeni, ma di fatto poi, stando a quanto narrano e documentano numerosi sacerdoti e seminaristi, le punizioni esemplari ricadano solo sui deboli, mentre i potenti godono di una impunità ai più alti livelli. In un suo editoriale del 14 gennaio 2013, il direttore della XXXXX XXXXXXX XXXXXXXXXX, XXXXXXXX XXXXXXX, solleva un quesito rimasto senza risposta: «Tutti ricordiamo anche l’inchiesta del settimanale Panorama nel luglio 2010 sulle notti brave di alcuni preti gay a Roma. Fu un’inchiesta che generò giustamente scandalo e il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX, il cardinale XXXXXXXX XXXXXXX fece affermazioni durissime contro questi sacerdoti, invitandoli a uscire allo scoperto e abbandonare il sacerdozio: eppure non se ne è saputo più niente, non ci sono state sanzioni di alcun genere sebbene alcuni dei responsabili fossero identificabili».
XXXX XX XXXXXX nel suo libro, che a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione non è stato mai smentito, ricorda, da parte sua, una denuncia, da lui presentata contro la palese immoralità del parroco di una importante basilica romana. Il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX reagì dichiarando XXXX XX XXXXXX persona non gradita nell’ambito pastorale romano e lasciando che il prete immorale rimanesse al suo posto. Episodio che il sacerdote ha nuovamente riferito di recente in un’intervista in cui dichiara, tra l’altro, che «nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista».
Anche il sacerdote polacco XXXXXXX XXX è dello stesso avviso del confratello italiano ed a conferma di certe dinamiche scrive nel suo articolo: «Quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all’ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose». Se questi fatti, diversi dei quali resi pubblici e ancora in attesa di smentita fossero veri, la situazione ecclesiastica di Roma e delle diocesi italiane è a dir poco spaventosa.
Quel che più impressiona è che tutti, pur sapendo, tacciono, persino dinanzi a una denuncia, giungendo all’aberrazione di punire l’innocente proteggendo il colpevole. Ma se Roma è paradigma della Chiesa universale, a Roma una realtà è più di ogni altra cartina di tornasole, l’XXXX XXXXXXXX XXXXXXXXX, conosciuto per essere il più antico e prestigioso Istituto di formazione sacerdotale dell’Urbe e dell’orbe, l’unico dipendente direttamente dalla Santa Sede che provvede alla nomina del suo rettore. Già negli anni ‘70 il periodico XX XXXXXXXX pubblicò un dossier sulla generale immoralità regnante in questo Istituto; dossier che costò la testa dell’allora rettore fatto vescovo. Sostituito il rettore e placate sul momento le acque, tutto tornò però presto tale e quale a prima.
L’ultimo tentativo di moralizzazione fu fatto nei primi anni 2000 con il rettorato di uno spigoloso sacerdote marchigiano, ora in servizio presso la Santa Sede, che cercò di portare un po’ d’ordine e decenza. Si dimise dopo meno di due anni, su pressione di certi ambienti curiali che non tolleravano il suo desiderio di far pulizia. La situazione, ad oggi, non sembra cambiata.
Questo Istituto è un paradigma perfetto: una facciata di aulica nobiltà fatta di secolari tradizioni e un dietro le quinte fatto di notti brave dei seminaristi che, una volta liberi e dismesso il clergyman d’ordinanza, possono entrare e uscire a tutte le ore del giorno e della notte. Quindi incontri particolari tra seminaristi, ma anche tra prelati più o meno potenti in cerca di compagnia. Amicizie molto intime tra alunni, sia seminaristi che sacerdoti, sono all’ordine del giorno fino alla costituzione di vere e proprie coppiette omosex, il tutto senza troppo bisogno di nascondere. All’interno di questo blasonatissimo seminario basta avere un po’ di confidenza con qualche seminarista per sapere chi è “fidanzato” con chi e quali siano i nomignoli al femminile con cui è chiamato questo o quel seminarista, questo o quel sacerdote.
Per giustificare questo stato di depravazione, chi governa questo microcosmo seminariale invoca il principio dell’autoformazione della Pastores dabo vobis (n. 69) e del Direttorio su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, stravolti però in senso tutto quanto liberal. Il documento Orientamenti e norme per i seminari (n. 73) riconosce sì come necessaria al processo formativo la capacità all’autoformazione del candidato al sacerdozio, ma non declinata secondo una prassi libertaria che finisce col farsi poi de facto libertina.
Se poi si considera che questo ambíto istituto è una vera e propria “fabbrica” di vescovi, nunzi apostolici e cardinali, come non rabbrividire? Si dirà: è un caso isolato dovuto a particolarissime condizioni. In realtà è molto di più: è un paradigma. Si tratta infatti del più antico e titolato istituto, direttamente dipendente dalla Santa Sede, preposto alla formazione sacerdotale. Non vogliamo generalizzare, ma viene da chiedersi: se tanta è la sporcizia nel collegio la cui direzione dipende immediatamente dalla Prima Sede, cosa accadrà negli altri dipendenti dalle sedi secondarie? Quella sporcizia denunciata dal cardinale Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 sommerge la Roma dei seminari e dei collegi, a partire proprio dal più prestigioso ed esclusivo. Preghiamo dunque perché il nuovo Papa trovi la forza di iniziare la pulizia morale che tutti invocano dalla diocesi di cui, fin dal giorno della sua elezione, si è proclamato con fierezza vescovo.
Anche depurato, sono certo che l’articolo non perda efficacia. Se anche così meriti di essere oscurato, sono ansioso di sapere il perché.
[...]
Non so
se rammentate la scena del giorno in cui il dottor Guido Tersilli prende servizio
da volontario in ospedale (Il medico della mutua – Luigi Zampa, 1969). Trova colleghi
che hanno intuizione, e presto avranno prova, del suo cinismo e della sua
spregiudicatezza. Non sono troppo diversi da lui, ma fiutano il pericolo di un
concorrente dalle qualità superiori, e il loro disprezzo sostanzialmente è
invidia.
lunedì 27 maggio 2013
La lectio magistralis della perpetua
La
signora Liliana Zaccarelli meriterebbe il titolo di Dottore della Chiesa,
perché con poche parole è stata in grado di illustrare la dottrina dei carismi assai
meglio di Isidoro di Siviglia, che nel commentare 1 Cor 12, 7 («A ciascuno è
data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune»)
scriveva: «Questo avviene affinché venga favorita l’umiltà e ogni membro del
corpo svolga il suo compito ammirando i doni dell’altro. In tal modo tutti i
doni diventano comuni e le membra sono l’uno necessario per l’altro» (Sententiarum
libri tres, II), che – mi auguro converrete – è un modo assai legnoso per dire
che nella Chiesa ciascuno è chiamato a una funzione, secondando la propria indole e le proprie capacità, e tutte sono necessarie, e tutte vengono premiate, tutte sfruttate a pieno anche quando in apparenza sembrano sacrificate.
Tutti i cretini che hanno contestato il cardinal Bagnasco
– non meno cretini di quanti hanno tirato fuori dai loro cassetti i coccodrilli più critici –
si son mai chiesti perché don Gallo non abbia mai subìto una sanzione ecclesiastica per le sue sparate? Era necessario. Era necessario proprio a quella Chiesa che non piaceva affatto a quanti don Gallo piaceva tanto. E lo sapeva, per questo esagerava.
Sapeva
che il suo cappellaccio da anarchico
bilanciava il camauro foderato in zibellino. Che i suoi drogati e le sue puttane, il suo sigaro e il suo Bella ciao, i Moni Ovadia, gli Shel Shapiro, i Vladimir Luxuria e i Gino Paoli
– tutto il cast chiamato a recitare nel film della sua vita, vip e comparse – altro non era che il controcanto dei pedofili coperti per decenni e decenni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dei mafiosi che fino a ieri usavano lo Ior per riciclare i proventi del loro narcotraffico, dei finanzieri e degli immobiliaristi che non hanno mai smesso di fare affari con la Propaganda Fide, della nobiltà nera romana che ogni domenica mattina assiste alla messa in latino. Tutti, simpatizzanti ed antipatizzanti quando era in vita, non hanno mai capito un cazzo di don Gallo: recitava la sua parte, era la spalla del cardinal Siri, che a sua volta gli faceva da spalla. E a loro, non a caso subito zittiti, la signora
Liliana Zaccarelli ha impartito una lectio magistralis da rimeditare.
sabato 25 maggio 2013
Soldi, trasparenza e carisma
Si sa
ancora poco della riforma del finanziamento pubblico ai partiti che il governo
Letta intende promuovere, ma quel poco non piace a Grillo e a Pannella. Si
tratterebbe – pare – di consentire il finanziamento da parte dei privati
cittadini con un meccanismo analogo a quello del 5xmille, limitando l’intervento
dello Stato all’assistenza in termini di strutture e servizi (spazi tv e radio,
affissioni, costi di spedizione, ecc.), il tutto in regime di estrema
trasparenza dei rendiconto e di controllo dei meccanismi interni ai partiti,
per evitare ogni gestione padronale delle risorse. Boh, chissà se sarà
possibile, e come, poi non dimentichiamo che in Italia ogni riforma nasce zoppa
e col verme dentro, però lo stesso non si capisce il no di Grillo e di Pannella.
Cioè si capisce bene solo se si conviene sul dato, peraltro di pacifica
evidenza, che la leadership carismatica non regge senza il controllo pieno ed
autocratico delle risorse finanziarie. La trasparenza sulle entrate e sulle
uscite va bene come slogan contro la partitocrazia, ma di fatto un movimento
politico a guida carismatica senza gestione proprietaria della cassa è una
contraddizione in termini, sia che il denaro pubblico sia rifiutato di fatto,
com’è nel caso di Grillo, sia che lo sia solo a chiacchiere, com’è nel caso di
Pannella. Ecco perché li troviamo insieme a dire no, sebbene il primo, col 25%
dei consensi elettorali, intaschi meno – praticamente niente – rispetto al
secondo, che ne raccoglie solo lo 0,2%. Ma ne riparleremo, perché in questione è la natura dello statuto di un partito.
venerdì 24 maggio 2013
[...]
Sì, ho capito che a Bologna si vota. Ho capito pure su cosa si vota. Quello che non ho capito è perché si vota.
Sappiamo che la fisiognomica...
Sappiamo
che la fisiognomica è disciplina pseudoscientifica, tuttavia bisogna ammettere
che non è facile resistere agli odiosi pregiudizi che ci ha ficcato in testa
per secoli e secoli. Lo dico con un certo orgoglio: a me non costa alcuna
fatica. Così, dinanzi ai tratti che per due millenni, da Polemo di Laodicea a
Cesare Lombroso, sono stati sempre attribuiti al coglione, io non ho cedimenti:
distolgo lo sguardo e porgo l’orecchio, fuggo la suggestione e mi concentro su
ciò che dice.
Beppe
Severgnini, per esempio: «Ingrid Loyau-Kennett, 48 anni, due figli, ex
insegnante e capo scout, […] è scesa dal bus quando ha visto un corpo in mezzo
alla strada: pensava ci fosse stato un incidente. Poi ha capito: una persona
era stata uccisa. Anzi, macellata. La donna non ha esitato ad avvicinarsi agli
assassini. “Meglio che le armi fossero puntate verso una persona come me, e non
verso i bambini che cominciavano a uscire da scuola”». E qui si chiede: «Perché
l’ha fatto? Capiva quanto stava accadendo?».
Cazzarola – dico – la signora è stata limpida come il cristallo.
Ha detto che è scesa dall’autobus perché pensava si trattasse di un incidente:
è capo scout, così strano che l’abbia fatto? Solo dopo ha capito cosa stesse accadendo, e lì ha
pensato bene di fare la sola cosa che fosse in suo potere, cioè impedire che gli
assassini puntassero verso la scuola, distraendoli. «Ammirevole, certamente –
concede Beppe Severgnini – ma la domanda resta: perché l’ha fatto, Ingrid? Aveva
capito quanto stava accadendo? O una parte del cervello le suggeriva: “Ehi, è
solo un film”?».
Ecco, è
qui che la fisiognomica mostra tutta intera la sua irrilevanza. Perché domande
del genere può porsele anche un coglione senza tutto quell’esagerato
prognatismo.
Come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte
Ho
scritto che le idee di Dominique Venner «non erano poi tanto diverse da quelle
che in Italia hanno trovato megafono ne Il Foglio di Giuliano Ferrara», ma forse sarebbe stato meglio accostare brani tratti da
dominiquevenner.fr e da ilfoglio.it, evitando ogni commento. Poco male, perché a
conferma di quanto affermavo torna utile Giulio Meotti, che maltratta Dominique
Venner come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte (Il Foglio,
23.5.2013).
Nulla, infatti, gli è rimproverato del suo dna: «la destra di Venner
ha avuto premonizioni giuste, dal tracollo della natalità in Europa alla
rampante islamizzazione delle sue principali città», e si tratta di «una destra
che vive di risentimenti anche fondati», perché chi può negare «la
decomposizione dell’Europa sotto la minaccia dell’islamizzazione e gli eccessi
del postmoderno fra cui il matrimonio gay»? E allora? Cos’è che fa la
differenza tra le battaglie culturali di Venner e quelle de Il Foglio? Ovvio,
Venner si è suicidato, e il suo suicidio le dichiara perdenti.
Sta di fatto che
si tratta delle stesse piccole grandi pugne che esaltano Il Foglio, e dunque
come la mettiamo? «Venner faceva parte di una destra torva, non tanto politicamente
scorretta, quanto, piuttosto, cupa», «una destra che si nutre di immagini
fosche», insomma, non s’è mai visto Venner tenere un dibattito pubblico su un
palco pieno di mutande appese a un filo, né improvvisarsi rapper, né
gorgheggiare arie del Rigoletto con una parrucca rossa in testa, e sì che la «destra
segnata dalla lettura dei testi situazionisti della scuola di Guy Debord» era
la sua, mica quella di Ferrara.
La sua, ahilui, era «una destra inservibile e
nutrita di paure», mica quella servile e nutrita di denaro pubblico de Il Foglio. Il suo, ahilui, era «un pensiero marginale e scorbutico», mica centrale e accattivante come quello di Ferrara.
Poi, diciamola tutta, «Venner ha rivolto l’arma contro se stesso, mentre il
killer norvegese [Ander Breivik] ha decapitato la futura classe dirigente
laburista di Oslo» (sottinteso: «almeno»).
giovedì 23 maggio 2013
Panorama, 14 dicembre 1967
Al momento ritengo inutile parlare di questo pontificato: leggo, annoto, scuoto la testa. Quante volte la Chiesa ci è sembrata pronta alla riforma? Quante volte pareva volesse stupirci?
[...]
Giusto
sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente
discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla
Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50
(nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così
recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà
fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza
all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo
dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare
all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in
buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro
Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non
solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione
dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione,
come diritto costituzionale, quello della resistenza e della
ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo
periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere
trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale
che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici
e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere
riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però
è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di
resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto
un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente
espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni
cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le
libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e
l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un
dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse
dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della
collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una
conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente
preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della
violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla
Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato
la Repubblica».
Ora,
ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non
era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza
all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero
responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri
termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una
sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei
rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il
concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro
Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato
nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto
nell’interesse della collettività». Non è difficile
cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel
comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della
Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità
materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni
grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa
possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie
implicazioni.
Le
esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma
si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il
cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario
che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto
del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere
giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il
diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere
giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di
cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura
il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte
ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […]
Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami
tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so
concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio
modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il
cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai
diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […]
Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera
in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella
Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla
Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla
Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche
necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al
diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi
necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza
sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la
possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la
possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino
avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro
i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non
fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti
questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente,
noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra
che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne
chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà
della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere,
potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate
applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine
sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a
salvaguardare».
La
Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi la
vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a
prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non
stupisce, dunque, giusto sessantasei
anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La
violenza non è, non può mai essere di sinistra» – la Repubblica,
23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al
balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il
sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è
il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi
il massimo di radicalità si può esprimere solo con la
nonviolenza – diceva Fausto
Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della
politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004).
Quell’«oggi» ci aveva tanto intenerito: era
una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della
violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo
dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura
necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la
violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico
era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I
poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti
garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava
di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di
resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di
sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è
inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto
di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E
come?
La
legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al
mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal
basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo
indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché
espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori
e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel
secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la
convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche
sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo
caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum:
tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso,
lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo
che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a
quella altrui.
Non è
difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla
legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio.
Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica,
l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il
vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione
di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario
adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per
consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È
per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né
è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più
forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole,
premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo
capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un
lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto
intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in
apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello
di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo
è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro,
la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto
che la democrazia è stata tradita.
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