lunedì 24 giugno 2013

«Conoscenza superiore»

«In Rete, come nella realtà, è impossibile essere competenti su tutto, però la Rete consente a gruppi con conoscenze e interessi simili dislocati nel mondo di mettersi in contatto e di formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto in tempi molto brevi, condividendo esperienze e fatti». Bene, direi che Wikipedia possa offrirsi come un buon esempio di questa «conoscenza superiore», ma Gianroberto Casaleggio (suo il virgolettato, dall’intervista che ha concesso a Serena Danna, pubblicata sull’ultimo numero de La Lettura) ritiene impropria la definizione che Wikipedia dà di «democrazia digitale», e ne dà un’altra che assicura essere quella giusta. Pazienza, la Rete darà prova della sua «conoscenza superiore» in altra occasione, stavolta si è fatta cogliere in disaccordo con  Gianroberto Casaleggio.
Ordunque, cos’è la «democrazia digitale»? «La forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari», come recita Wikipedia? No, per Gianroberto Casaleggio, «non è relativa soltanto alle consultazioni popolari». E allora sarà il caso di ridefinire il concetto di democrazia diretta. Non è una forma di governo? Nei modi in cui si attua sarà diversa da tutte le altre, ma al pari di ogni forma di governo non ha per fine il governo degli uomini e delle cose? Oltre a quella della consultazione popolare, dunque, quale altra funzione è data alla democrazia digitale? In altri termini: quale altro fine vuole avere di là dal farsi mezzo per superare la democrazia rappresentativa con la diretta e permanente partecipazione popolare al governo della cosa pubblica? Non c’è bisogno di star troppo a spremerci le meningi: «formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto». La creazione di un pensiero unico.
«È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata»: si tratta di «un progetto politico» che va al di là dalla «sola soluzione di problemi contingenti». Il fine? «Il cittadino deve diventare istituzione». Come? «Web e realtà sono destinati a fondersi» in una «realtà aumentata» che probabilmente solleverà l’individuo dalla seccatura di avere opinioni personali e dunque potenzialmente erronee: un’«aggregazione di intelligenze a livello planetario» lo trasformerà in un neurone che pulsa in un enorme cervellone. Per chi adora le costruzioni paranoiche, non c’è dubbio, può risultare estremamente eccitante. Certo, occorre fare i conti con la realtà diminuita in cui viviamo, ma «si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete», «Internet diventerà come l’aria» e sarà impossibile vivere in apnea.
Sarà che siamo degli inguaribili romanticoni affezionati al nostro caro vecchio «legno storto». Sarà che per le esperienze passate ci caghiamo sotto ogni volta che un tizio ci assicura che si può e si deve piallarlo fino a farlo diventare dritto. Insomma, sarà per quel maledetto verme liberale che ci vive dentro, ma ci chiediamo, come d’altronde se lo chiede pure Gianroberto Casaleggio, se si possa «prevederne gli effetti sulla società». La sua risposta è che «possono essere positivi, ma anche negativi», perché «la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore». Però si dichiara «fiducioso». Molto incoraggiante, senza dubbio.



A parte  È in questa intervista che per la prima volta viene chiesto a Gianroberto Casaleggio quale relazione ci sia tra la sua data di nascita, il 14 agosto 1954, e quella che nel suo video Gaia indica come quella della nascita del governo mondiale, immaginata il 14 agosto 2054. È una domanda che personalmente mi stava molto a cuore, perché sono stato il primo a segnalare la strana coincidenza con un post che ha avuto a tuttoggi 9.644 accessi diretti. Bene, Gianroberto Casaleggio risponde che si è trattato di «un gioco, come è stato un gioco la creazione del video». E qui occorre rammentare quanto ha scritto il padre della psicoanalisi: «Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale» (Der Dichter und das Phantasieren, 1908).   





mercoledì 19 giugno 2013

microchip sottopelle

Antipartiti

È stata un’intervista all’autore (la Repubblica, 26.4.2013) a farmi acquistare Antipartiti (Donzelli, 2013) di Salvatore Lupo. Non ne sono pentito, perché in fondo si tratta di una svelta storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi, tutto sommato seria e onesta, ma resto un po’ deluso per ciò che mi aspettavo da quanto prometteva il sottotitolo: Il mito della nuova politica nella storia della repubblica (prima, seconda e terza). In realtà, nel volume non ho trovato traccia di una tesi sulla mitogenesi, né di una analisi della mitopoietica. Anzi, a onor del vero, quello della nuova politica appare in queste pagine come conato di vomito che si risolve in rutto. E tuttavia rimane un libro utile – almeno per me lo è stato – a far forte la convinzione, in chi labbia, che gli ultimi sessant’anni di storia italiana siano stati una galleria di perdenti che non avevano uno straccio di progetto. L’affresco meriterebbe come titolo: Tragedia del tatticismo.  

martedì 18 giugno 2013

[...]


Resto assai perplesso nell’apprendere che la Cassazione ha confermato la condanna di un giornalista ritenuto colpevole di essersi fatto «concausa della lesione dell’altrui onore e reputazione», addebitata a chi intervistava, col rivolgergli domande «allusive, suggestive e provocatorie», e il fatto che la parte lesa sia un magistrato dà alla perplessità ragione di un mezzo sospetto. Poi c’è che il giornalista condannato mi è assai simpatico… Insomma, mi metto alla ricerca di quell’intervista. L’intenzione è quella di buttar giù un’arringa fuori tempo massimo cercando di dimostrare che la sentenza è un attentato alla libertà di stampa. Conto, se possibile, di lasciarmi andare all’allusiva, suggestiva e provocatoria insinuazione che la sentenza è prova di un’odiosa autodifesa degli interessi della casta dei magistrati.
Da subito, però, sbatto contro un muro: la data di pubblicazione dell’intervista (3 novembre 1997) corrisponde a un giorno della settimana (lunedì) in cui a quei tempi il giornale non era in edicola. È possibile si tratti di un refuso, ma la cosa strana è che riesco a trovare sul numero del 28 aprile 2003 di quel giornale un estratto della sentenza di condanna nella quale vi è testuale riferimento alla pubblicazione dell’intervista in data «3.11.97».


Possibile che anche qui ci sia un refuso? Non lo escludo, d’altronde lo è pure quel «n. 44» cui fa riferimento il testo (quello di sabato 1 novembre 1997 è il n. 216 e il n. 217 è quello del martedì successivo). Non ho che da tentare di dare una data certa al refuso: può darsi sia sbagliato l’anno (può darsi si tratti del 1998 o del 1999), o che sia sbagliato il mese (può darsi che quell«11» sia un «II»)... Niente, anche valutando le ipotesi meno verosimili, non riesco a trovare l’intervista. Poi, però, rammento che il giornale in questione ha mandato in edicola in tre occasioni (2002, 2006 e 2010) la raccolta integrale delle annate in dvd-rom corredati di un motore di ricerca interno. Effettuo su tutti e tre i dischetti la ricerca per autore (Marcenaro) e per titolo («Borrelli e i suoi amici, giudici e parti in causa, lavano le offese con un mucchio di bigliettoni»). Anche così non riesco a trovare l’intervista. Provo allora a usare come chiave di ricerca «Vaccarella», «mucchio», «bigliettoni»... Niente, l’intervista non riesce a saltar fuori da nessuno dei tre dischetti.
Sto per lasciar perdere la ricerca, risolvendomi a due righe di solidarietà al posto della difesa argomentata, quando del tutto casualmente faccio una scoperta che mi lascia interdetto: al dischetto del 2010 mancano degli articoli che sono presenti su quelli del 2002 e del 2006.


In tutti i casi si tratta di articoli sui magistrati della Procura di Milano. Perché sono scomparsi? Non so darmi una risposta certa, e non voglio neppure provare a darmene una. So solo che mi è passata la voglia di esprimere solidarità a Marcenaro e a Il Foglio.       


domenica 16 giugno 2013

La scienza della storia


Quello riprodotto qui sopra è lo schema che riassume i risultati di un sondaggio, «per nulla scientifico» e dallo «scopo sostanzialmente ludico», che qualche mese fa, ponendo una domanda «volutamente aperta e ambigua», Ivo Silvestro ha proposto ai suoi lettori (Che cosa è la scienza - L’estinto, 19.4.2013) per saggiare il grado di scientificità percepita di quelle discipline che per convenzione sostanzialmente unanime sul piano pratico, ancorché altamente problematica su quello teorico, costituiscono l’articolazione del sapere umano per ambiti di interesse che trovano separazione solo nella artificiale, non di rado artificiosa, fissità dei loro statuti, senza neppure riuscire a conservarla sempre.
Non intendo entrare nel merito delle considerazioni che Ivo Silvestro trae da questi risultati, ma tengo a precisare che in gran parte non le condivido, riservandomi di tornarci sopra in altra occasione per argomentare il mio dissenso relativamente a due o tre affermazioni che ritengo temerarie («dubito fortemente che esista un metodo scientifico», «la filosofia è una scienza», «la medicina non è una scienza», ecc.): qui mi limiterò a considerare i risultati per la sola voce Storia, una di quella che appartengono al gruppo delle «discipline scientifiche ma non troppo» (insieme a Linguistica, Sociologia e Psicologia). Per poco più della metà dei partecipanti al sondaggio, infatti, la Storia è «per nulla scientifica» (20,83%) o «poco scientifica» (31,25%); col 25% di chi la considera «né scientifica, né non scientifica» (che faccio gran fatica a distinguere dal gruppo che per risposta ha dato «poco scientifica») si arriva al 75% di giudizi che le negano scientificità, pienamente riconosciutale solo nel 6,25% dei casi.

Ritengo che questi dati fotografino assai fedelmente  l’opinione corrente, almeno qui in Italia. E penso che anche qui siamo dinanzi ad uno dei più deleteri effetti che la filosofia di Benedetto Croce ha causato allItalia, «un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome» (Armando Massarenti - La Lettura, 25.12.2011). Ma prima di passare a verificare quanto questo valga anche per la storia, cui tanti negano lo statuto di scienza, vorrei precisare:

(1) L’espressione «scientificità percepita» che ho usato all’inizio di questo post non è di Ivo Silvestro, ma mia: penso non tradisca il senso che intendeva dare al suo sondaggio, ma, giacché di qui in poi la userò ancora, è opportuno che chiarisca il senso che qui le darò io, e che in buona sostanza farà riferimento al pregiudizio che trova radice nella teoria che Benedetto Croce espone ne La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893).
(2) Cercherò di evitare ambiguità di termini che possano esser fonte di controversia, e da subito faccio presente che per «scienza» e «storia» varranno esclusivamente le definizioni convenzionalmente date ai lemmi in prima accezione. Così, per «scienza», indicherò esclusivamente quel genere di disciplina fondata sull’osservazione, l’esperienza e il calcolo, e che si pone per oggetto la natura e/o  l’essere vivente, avvalendosi di un metodo codificato e di un linguaggio formalizzato; per «storia», invece, farò esclusivo riferimento a quel complesso di azioni umane e di fatti ad essi conseguenti così come ordinate nel corso del tempo. Eviterò, dunque, nel primo caso, di affrontare la questione del metodo scientifico e, nel secondo, di entrare nel merito della natura del nesso causale tra azioni e tra fatti. 
(3) Fin da subito mi pare corretto far presente a chi legge questi appunti che essi sono in stretta continuità con la polemica anticrociana più volte ripresa su queste pagine (cfr. Quanto rimane di Benedetto Croce, Un cane morto, Spirito con la minuscola, ecc.) e che in buona sostanza è polemica contro l’idealismo.

All’opera filosofica di Benedetto Croce resta un valore esclusivamente documentario, come uno dei vicoli ciechi in cui si è infilato il pensiero hegeliano. Chi ignori il clima culturale in cui il sistema crociano acquistò autorevolezza non può che rimanere sbalordito, oggi, nel leggere le proposizioni sulle quali regge, e chiedersi come sia stato possibile che tali astruse corbellerie, per oltre mezzo secolo, abbiano goduto dignità di assunto. Nulla rimane in piedi della costruzione crociana, ma i detriti trascinati a valle dall’onda gramsciana che la distrusse sono ancora rinvenibili negli strati profondi del senso comune, e qui e lì affiorano. Così, è molto probabile che, tra quanti affermano che la storia non è disciplina scientifica, siano pochissimi a conoscere la teoria crociana secondo la quale «la storia deve essere arte, perché la scienza è dell’astratto, [mentre al contrario] la storia è, come l’arte, del concreto»: strabuzzerebbero gli occhi dinanzi a una affermazione del genere, ma in buona sostanza si può dire che, pur  senza averne coscienza, l’accolgano (basta forzare un poco il lessico crociano, mettendo «mestiere» al posto di «arte», e può essere fatta passare).

Per Benedetto Croce la relazione tra l’azione e la conoscenza del passato sta tutta e solo nel carattere simbolico della narrazione: la storia è Spirito che si fa Idea, e scriverne significa rappresentarla, darle una forma che consenta di identificarla come essenza della Verità. Di qui l’attinenza della storia alla sfera dell’arte, mentre la scienza, che sarebbe fredda astrazione, non può che dare la muta osservazione dello svolgimento dei fatti.
Ecco, allora, il punto notevole della questione che oggi ritorna ribaltato nell’opinione prevalente tra i partecipanti al sondaggio di Ivo Silvestro: Benedetto Croce intende dare una specifica dignità alla storia e, nel negarle lo statuto di scienza, la eleva; nel negarglielo, oggi che la scienza si è liberata dal pregiudizio crociano, l’effetto è contrario.
Non è difficile capire cosa ne consegua: se, per Benedetto Croce, la sequela dei fatti è mera cronaca e nulla ha a che fare con la storia, che invece è racconto trasfigurato e intellettualizzato dell’Idea che è ipostasi dello Spirito, per chi oggi alla storia nega statuto di scienza i fatti stanno a disposizione dell’interpretazione, e dunque sono variabili mobili di un lavoro che si riduce a continua revisione. In entrambi i casi siamo dinanzi ad una concezione della storia come rappresentazione della Verità, ma in Benedetto Croce non si è ancora rotto il vincolo che fa della realtà l’immanentizzazione di una trascendenza. Mi pare sia il modo più nefasto di continuare a far danni dopo esser morto e dimenticato.

[segue]



giovedì 13 giugno 2013

«Ce ne andremo»

Il caso esplose per un’affermazione fatta da @ferrarailgrasso nel corso di una trasmissione diretta da @ementana: «La mafia – aveva detto – è l’essenza della Sicilia». Il primo fu subito fatto oggetto di commenti assai risentiti, e qualcuno arrivò agli insulti, che in breve piovvero anche sul secondo, per averglielo lasciato dire, e per aver preso le sue difese. Mentre @ferrarailgrasso prendeva a gongolare, @ementana lamentava: «Il numero di tizi che si esaltano a offendere su Twitter è in continua crescita». E aggiungeva: «Calmi, tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi». E così fu, perché nel rapido volgere di una mezz’ora decise di dare «un saluto finale a tutti», e qualche giorno dopo chiuse l’account. Una perdita che lasciò un vuoto enorme, ci sono follower che ancora non sanno darsi pace.
Non mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e @ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No, il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».

Il volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?». Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso, però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse, allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo, quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari». L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui, allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.

Ma un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera, 12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava. Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce riflessa dell’insultato”».

Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare  l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre davorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nientaltro che la legge uguale per tutti. 

martedì 11 giugno 2013

«Il mediocre d’eccellenza»


Normale che al centrodestra bruci il culo per l’elezione di Ignazio Marino a sindaco di Roma, normale che i direttori dei quotidiani d’area diano voce al bruciore, normale che lo stile sia diverso da culo a culo: «No Silvio, no party» (il Giornale), «Mortacci!» (Libero), «Chi litiga non piglia voti» (La Padania), «Il rifiuto del voto certifica l’implosione del sistema» (Il Secolo d’Italia)… Ma non tutti i giornali del centrodestra sono uguali. Ce n’è uno, dal culo sopraffino, che il bruciore ha cominciato a sentirlo in largo anticipo e che a scrutinio delle urne ultimato non ha che da riproporre il lamento, in un tweet.


Forse chiamarlo lamento, però, è improprio, perché con le sue 15.388 battute eravamo poco al di sotto della lunghezza di tutte e cinque le Lamentazioni del profeta Geremia, che superano di poco le 18.000.

Sia chiaro, era pienamente legittimo che Il Foglio non gradisse Marino come sindaco di Roma, anzi, siamo onesti, non c’era sindaco di Roma che potesse dargli maggior bruciore al culo: era il candidato dello schieramento opposto a quello sostenuto dalla linea politica del giornale, ma più di quello, e prima di quello, cerano le sue posizioni sul caso Englaro e sul testamento biologico, il suo essere un «cattolico adulto», la simpatia e la stima tributategli da personalità come il cardinal Martini, Scalfari, Veronesi, Mancuso, veri e propri mulini a vento per un giornale tanto orgogliosamente donchisciottesco... Insomma, la mente e il cuore avevano tutto il diritto di gridare: Marino al Campidoglio, / no, proprio non lo voglio.
Chissà se poi i due settenari in rima baciata avessero reso al meglio con un arrangiamento rap o sullaria di Nel duol che prova lalma della Didone abbandonata. Bah, questioni oziose, torniamo al culo che bruciava al solo pensiero che Marino potesse diventare sindaco di Roma.

Be, con tutto quel bel po’ di scientismo che Marino incarnava, e di laicismo, di relativismo, e dunque di nichilismo (e se ho dimenticato qualche -ismo, mettecelo voi), dove va a bacchettare, Il Foglio? «Quella faccia un po’ così, la guancia un po’ cascante, il capello corto che non aiuta a dissimulare la sessantina già all’orizzonte, l’occhialetto, più che da luminare, à la Gianfranco Fini», e poi quell’«aria del professorino saccente, del medico di base che ti mette a dieta anche se hai gli esami perfetti», per non parlar del titolo: «Il mediocre deccellenza». Tanto per usare un argomento che ai fan di Berlusconi sembra dacciaio inossidabile: mica era trattato così, Marino, prima di scendere in politica. Anzi, sarà che era un mezzo americano e si era laureato in una università cattolica, ma per la sua prima volta su Il Foglio (15 novembre 1996) sembrava suonassero le trombe.


Perfino quando fu chiaro che le sue idee non fossero del tutto in linea col cattolicesimo fogliante, la sua autorità in campo medico tornava ancora buona per opporlo a un Flamigni (17 novembre 2005)


o a un Viale (25 maggio 2006).


Da stella nel firmamento della medicina  «americano-italiana» (chissà perché, poi, non «italo-americana») a «mediocre deccellenza», vai a fidarti di chi ti lecca il culo. E non è tutto. Perché, anche se Il Foglio la racconta come vuole ricordarla, c’è un’altra questioncella che sempre per il culo gli era andata di traverso: «Alla fine del 2012 una sentenza ha condannato una serie di articoli successivi del Foglio, del Giornale e di Libero, per lo “stravolgimento” di quei fatti attraverso “un’interpretazione personale, fuorviante e fuorviata”, stabilendo che non fosse fondata la tesi del nesso tra l’allontanamento di Marino dall’ospedale di Pittsburgh e le irregolarità amministrative» (*). «Non fu mai detto che fu cacciato», è la versione de Il Foglio. A onor del vero, formalmente è versione che regge. Si disse (24 luglio 2009):


e capirete che tra cacciato e allontanato c’è più o meno la stessa differenza che c’è tra bruciore di culo e proctite. 

lunedì 10 giugno 2013

Non bastasse la banalità, non bastasse l’insulsaggine


Si registra un brusco calo dell’affluenza alle urne: l’immagine più banale che usereste? Non vi scomodate, c’è il Pigi, che della banalità è il principe: è un «crollo». L’astensionismo? Un «mare di indifferenza». È che le istituzioni sono «costruzioni fredde», è che la politica «non affonda le radici nel vissuto». Non bastasse tanta banalità, c’è pure l’insulsaggine: «la fisiologia è sempre stata fisiologia, ma in queste dimensioni diventa patologia», e per partorire un tal mostriciattolo non basta il dizionario analogico. Non bastasse l’insulsaggine, c’è pure la faccia tosta: nell’orazione funebre dedicata a Giuliano Zincone, due pagine prima, che cosa mi bacchetta, il Pigi? L’«incontenibile lessico della banalità» del giornalismo nostrano. 

Auguri


Si ebbe chiara la certezza che Luigi De Magistris non avrebbe combinato un cazzo come sindaco di Napoli quando lo si vide con una bandana arancione in testa agitarsi come un ossesso sotto crepitanti fuochi d’artificio sul palco allestito in Piazza del Municipio per festeggiare la sua vittoria nel ballottaggio con Gianni Lettieri. La sobrietà di Ignazio Marino non consente ovviamente di esser sicuri che sarà un buon sindaco, tanto meno che riuscirà a risolvere i tanti problemi di Roma, però è un buon viatico. 

venerdì 7 giugno 2013

Eccheccazzo!

Non so a voi, ma a me Filippo Facci piace tanto, d’altronde mi pare di averlo già detto in due o tre occasioni. Innanzitutto, condivido sei volte su sette ciò che scrive. Poi, trovo che lo scriva in modo assai brillante. In più, cosa alla quale personalmente do enorme importanza, penso abbia la rara virtù di non cedere mai alla tentazione di fare il ruffiano col lettore, un vizio che è così comune in chi vive di ciò che scrive, ma che ritengo insopportabile. Per tutto questo, e per quell’id cui non so dare un nome, e che a torto o a ragione mi sembra di poter presumere, lo trovo assai simpatico anche sul piano umano.
Ciò detto, occorre dire che nessuno è perfetto, e anche a lui, volendo, si può trovare qualche difetto. Il peggiore, a mio parere, è la sua insana passione per Richard Wagner, ma qui siamo in tema di gusti, e i gusti sono gusti, e insomma si può chiudere un occhio. Volentieri lo chiudo anche sul fatto che talvolta si conceda pose da vanesio, perché in fondo, via, manco è un difetto: ci casca pure chi non può permetterselo. La cosa che più mi dà fastidio, invece, è che scriva su Libero, un giornalaccio che m’imbarazza tenere in mano anche per i due minuti che servono a leggere il suo Appunto quotidiano. Anche su questo, tuttavia, riesco a chiudere un occhio: quando sei fuori dal mainstream, difficilmente ti assumono a la Repubblica o al Corriere della Sera. D’altra parte, anche scrivendo per Libero, Filippo Facci non ha mai esitato a prendere posizioni che avrebbero fatto storcere il muso al lettore-tipo di quella testata, ed è infatti accaduto che qualche muso si sia storto, in passato, ma senza ch’egli abbia ceduto un millimetro, saldo nel pie’ come Siegmund quando palleggia la lancia.
Poi, certo, il pie’ è pur sempre pie’, e capita che possa pestare una merda.


Come si possa scrivere un corsivo sul presidenzialismo, sul rischio che il populismo lo possa trasformare in un serio pericolo per la democrazia, sull’immaturità degli italiani che ciclicamente si fanno abbindolare dal primo arruffapopolo che passa, come si possa citare Craxi, Di Pietro, Grillo, riuscendo a non nominare Berlusconi, né a sfiorarlo neppure in ellissi  beh, con tutta la stima, tutta l’ammirazione e tutta la simpatia, non si capisce, e onestamente fa girare le palle.
Perché si parla di presidenzialismo? Perché Berlusconi pensa di poter salvare il culo rifugiandosi al Quirinale. E tu, biondo eroe senza paura e senza macchia, riesci a tenerlo fuori dal tuo corsivo? Eccheccazzo!  

giovedì 6 giugno 2013

Appunti


È da tempo che mi chiedo cosa riesca a trattenere un paese dalla rivolta per accontentarsi del mugugno, tutt’al più dell’urlo. Non di un paese normale, dico, ma di un paese come il nostro, che ha sempre guardato con sospetto alla coerenza tra il dire e il fare. Sì, è vero, qualcuno spara, ma a cazzo di cane, e qualcun altro si dà fuoco, ma brilla giusto per due ore sulla homepage dei siti d’informazione, ripuliscono l’asfalto e la parola passa allo psichiatra. Poi, sì, ci sono cortei, si grida, si schiuma, parte qualche manganellata, qualche poliziotto riporta una contusione, ma insomma si tratta di robetta, tanto per scaricare un poco i nervi. Meglio così, ovviamente, perché la violenza è sempre brutta brutta brutta, lo dicono un po  tutti, e si sa come s’inizia e non si sa come si finisce. E poi autorizza alla repressione e alla restrizione delle libertà civili, e poi apre la via alle soluzioni autoritarie, cui finiscono per dare il maggior sostegno proprio quelli che hanno fatto più casino.
Perché tanti poveri e nessuna rivoluzione? Perché tanti arrabbiati e le pallottole viaggiano solo in busta? Ogni puntata di Piazza Pulita o di Servizio Pubblico o di Report sembra dover fare da innesco, e tuttal più si risolve in una figura di merda di Di Pietro o nella scoperta che la Santanché forse è lesbica. Perché gli straccioni insultano Franceschini che cena pacificamente e non devastano il ristorante?  
Scarto le ipotesi che mi paiono ridicole – quella di Grillo, per esempio, che continua a millantare: «Se non scoppia la violenza, è perché c’è il M5S» – e dando uno sguardo al passato, passando in rassegna i pochissimi episodi che nel corso dei secoli hanno visto le nostre piazze riempirsi di esasperati più o meno organizzati, quasi sempre nient’affatto organizzati, non riesco a trovare un’altra risposta: la rivolta non ci è congeniale e comunque non siamo esasperati al punto giusto. Probabilmente la violenza scoppierà se e quando alla maggioranza degli italiani che sono con un piede o entrambi nell’indigenza mancherà il denaro per ricaricare il cellulare o per tentare la botta di culo al Gratta&Vinci e al Superenalotto. Se e quando scoppierà, comunque, quasi certamente non avrà profilo insurrezionale: stingerà nel vandalismo, nel saccheggio, nella rabbia che s’accanirà sui simboli, cose e persone che delle cause potranno dirsi al massimo espressione. Non sono ancora nelle condizioni di poter meditare pubblicamente su quello che ci attende, tanto meno per guardare nelle viscere della carogna e trarne aruspici, mi prende una specie di pudicizia e mi limito a vergare appunti. 

mercoledì 5 giugno 2013

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Ho smesso di seguire Pierluigi Battista su Twitter, ho cominciato ad evitare i suoi articoli, cambio canale quando è ospite di un talk show. Sennò divento grillino, e chi mi conosce sa cosa io pensi di Grillo. Non che fosse ’sto tabernacolo di intelligenza e simpatia, prima, ma da quando gli è morta la moglie, sarà mera coincidenza, sarà che il lutto gli ha tolto la scorza, pare si compiaccia a fare lo stronzo. L’impressione è che il suo referente sia il cinismo della residua classe media che non è stata ancora sensibilmente toccata dalla crisi economica e coltiva la certezza che possa farla franca appiattendosi sugli interessi di chi ne ha tratto vantaggio. Più lo guardo, più lo sento, più lo leggo, e più mi pare stia tra Roberto D’Agostino e Giuliano Ferrara, terza posizione tra due modi uguali e diversi di parassitare il marcio. Ovviamente è probabile chio sia in errore, e chissà che personcina deliziosa sia. Ma il fastidio che mi ha cominciato a dare è diventato enorme.  

domenica 2 giugno 2013

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Per salvare Beatriz


Un quarto dei feti anencefali muore in utero o nel venire alla luce, altri due quarti muoiono entro le prime 6-24 ore dopo il parto e non si ha notizia, dalla notte dei tempi a oggi, di un anencefalo che sia vissuto più di una settimana. Parliamo di una malformazione data dall’assenza di gran parte della massa cerebrale, spesso perfino dei nuclei della base, talvolta addirittura del mesencefalo e del bulbo spinale, condizioni che realizzano, pur nella enorme differenza del substrato organico, un quadro clinico analogo, ma assai più grave, a quello che si osserva nella cosiddetta morte cerebrale, che da almeno una dozzina d’anni la Chiesa cattolica si è persuasa ad equiparare alla morte di fatto.
Ce n’è abbastanza per affermare che l’interruzione di gravidanza non è omicidio quando il feto è anencefalo? Anche recependo integralmente la logica sulla quale regge la dottrina cattolica, dove sarebbero gli estremi per poter parlare di persona, o di coscienza, nel caso di un feto anencefalo? È pur vero che, in caso di conflitto tra la vita della gravida e quella del feto, la morale cristiana fa fermo divieto di ogni discriminazione di valore, e tuttavia un’eccezione è contemplata proprio quando non vi sia alcuna possibilità di salvare la vita del feto e il protrarsi della gravidanza metta in serio pericolo la vita della gravida. Proprio come nel caso della gravidanza di Beatriz. 
Bene, non le hanno concesso di abortire. Hanno deciso di farle un taglio cesareo a 25 settimane, che nella stragrande maggioranza dei casi porta alla morte del feto estratto prematuramente, anche quando non sia malformato, anche quando la gravida goda di ottima salute. In pratica, si è trattato dell’aborto di un feto che non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivere, anche se fosse venuto alla luce al termine della gravidanza, ma a questo aborto si doveva dare la parvenza di un parto, per salvare il mero involucro formale della morale cattolica e forse, chissà, visto che il caso aveva già sollevato un bel polverone, per non trovarsi il cadavere di Beatriz sul groppone. È che aveva chiesto di poter abortire, non poteva tornare buona come santa. 


sabato 1 giugno 2013

Non hanno paura di niente


[Allego in coda a questo post quanto andrebbe bene qui in premessa, ma appesantirebbe troppo il testo: si tratta della risposta che ho dato l’anno scorso a chi mi muoveva l’accusa di essere un malpensante. Mi è stata mossa anche oggi, ma il tono era piacevolmente ironico, per ciò che ho scritto nel post precedente a questo, col quale sollevavo il sospetto che il ddl oggi annunciato dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» – anche così com’è in bozza, anche senza gli immancabili emendamenti che vi apporterà il Parlamento – sia una solenne presa per il culo. Riproporre oggi quel post ha il fine eminentemente pratico di risparmiarmi ogni risposta a chi volesse sollevare nella pagina dei commenti l’obiezione che la mia riflessione sia viziata da un pregiudizio ostile a questo governo, ai partiti che lo appoggiano, ecc. E dunque...] 



Il ddl approvato ieri dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» è disonesto fin dal primo comma del primo articolo: «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». In realtà, almeno formalmente, il finanziamento pubblico dei partiti è già stato abolito nel 1993, grazie a un referendum che raccolse il 90,3% dei consensi a favore dell’abolizione. Referendum tradito pochi mesi dopo, con una legge che disponeva un «contributo per le spese elettorali» (legge 515/1993). «Un rimborso di questo tipo – disse uno dei suoi promotori (gli venisse un cancro in culo, se è ancora vivo) – ha una sua autonoma ragion d’essere e non deve trasformarsi, né si trasformerà, in una nuova forma di finanziamento dei partiti come tali». A chi avesse sollevato il sospetto che fosse un modo per far rientrare dalla finestra ciò che era stato appena cacciato dalla porta, si sarebbe detto: «Via, che malpensante».
E dunque a quale «finanziamento pubblico dei partiti» fa riferimento, il ddl del governo Letta? A un finanziamento che sostanzialmente non è mai stato abolito e che anche stavolta si fa finta di cacciare dalla porta, provvedendo per tempo a spalancargli la finestra, con la più che implicita ammissione che si tratta della replica di una truffa. Un sospetto da malpensante? La logica interna al sistema dei partiti, per come è strutturato in Italia, impone lo scetticismo come un dovere. E in questo caso – vedremo – non mancano elementi per dargli legittimità di metodo, riavendone in cambio prove ampiamente argomentate: siamo dinanzi agli stessi luridi parassiti di ventanni fa, sono solo cambiati i volti, e ci rifilano lo stesso trucco, ma gli hanno trovato un altro nome, stavolta è «contribuzione volontaria privata». Bugia enorme, tanto più sfacciata quanto più si procede nella lettura del ddl, che «assicura, in favore dei partiti e dei movimenti politici […] la disponibilità, in almeno ciascun capoluogo di provincia, di idonei locali per lo svolgimento delle attività politiche, nonché per la tenuta di riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche» (art. 5), dando loro il «diritto ad accedere, al di fuori dei periodi della campagna elettorale […] a spazi televisivi messi a disposizione a titolo gratuito dalla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo» (art. 6). In pratica, logistica e comunicazione sono a carico dello Stato, con quanto si troverà modo di spremere facendo la cresta su queste voci e quelle che senza dubbio saranno aggiunte con gli immancabili emendamenti (energia elettrica, telefonia, posta, ecc.). Oltre al contributo del duexmille e a quello volontario dei privati, che potranno in buona misura detrarlo in sede di dichiarazione dei redditi, e quindi a ulteriore carico dello Stato, i partiti trovano modo di concedersi a gratis tutto ciò che prima pesava sui loro bilanci per almeno un terzo delle spese.
Poi, il punto più ambiguo, quello del duexmille: «Ciascun contribuente può destinare il duexmille della propria imposta sul reddito a favore di un partito o movimento politico» (art. 4, comma 1) e «le destinazioni […] sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda recante l’elenco dei soggetti aventi diritto» (art. 4, comma 2), in barba alla segretezza del voto o delle preferenze politiche, che pure viene promessa, ma senza alcuna spiegazione su come la promessa possa essere mantenuta.   Si parla di un tetto massimo di 61 milioni di euro, ma stranamente il dato non è specificato nella bozza del ddl, che pure gronda di numeri con encomiabile spreco di virgole. Ma poi c’è il bello: «In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili […] è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse» (art. 4, comma 3), e qui siamo a una variante bastarda di ciò che correntemente avviene con l’ottoxmille. 
Bastasse, ma non basta. Tutto, ammesso rimanesse come è sulla carta, entrerebbe a pieno regime fra tre o quattro anni, e nel frattempo il denaro pubblico ai partiti non diminuirebbe, anzi, c’è l’opportunità che possa quasi raddoppiare. Insomma, anche volendo tener da parte il pregiudizio che ci istiga a tener presente che merde siano, questi boiardi della partitocrazia italiana mostrano una incredibile faccia tosta. Si stanno dividendo i compiti: c’è chi lamenta che un centinaio di dipendenti e funzionari di partito potrebbero essere licenziati (e non si capisce perché dovrebbero muoverci a compassione più degli altri licenziati nel settore pubblico e in quello privato) e c’è chi invece annuncia che il ddl sarà una rivoluzione. Non hanno paura di niente. 
     



«Pensar male» e «pensar bene» (Malvino, 18.4.2012)

L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.) Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».