Appena
avrò un po’ di tempo, scriverò dei carteggi Scalfari-Bergoglio e
Odifreddi-Ratzinger. Sarà inevitabile, allora, anche solo en passant, parlare del
terreno sul quale si è tenuto il dialogo, cioè de la Repubblica. Che ieri, accanto
alla risposta di Ratzinger a Odifreddi, metteva il dipinto Copernico che parla
con Dio del pittore Jan Mateiko.
mercoledì 25 settembre 2013
martedì 24 settembre 2013
«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano»
Riporto
un brano tratto dall’intervista che Jorge Mario Bergoglio ha concesso ad Antonio
Spadaro per l’ultimo numero de La Civiltà Cattolica (CLXIV/3918), perché riapre
una questione che ho già discusso su queste pagine: «Visitavo spesso la chiesa
di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della Vocazione
di San Matteo di Caravaggio” […] È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra
i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”» (pag.
452). Come Sandro Magister si è subito affrettato a segnalare con comprensibile
soddisfazione, si tratta della stessa «interpretazione che la storica dell’arte
Sara Magister ha rilanciato con forza su TV 2000», lo scorso anno, senza troppa fortuna: anche «Jorge Mario Bergoglio – scrive il babbo della Sara – ha sempre visto il Matteo della Vocazione
dipinta dal Caravaggio non nel maturo signore al centro del gruppo, come
predicano le guide turistiche e la maggior parte dei critici, ma nel giovane a
capo chino, che ancora “afferra i suoi soldi” proprio mentre Gesù lo chiama»
(Settimo Cielo, 20.9.2013). Il pudore lo trattiene dal dire che il Papa abbia
parlato ex cathedra – d’altronde non sarebbe una cathedra di Storia dell’Arte
– ma per dar forza a questo inaspettato avallo alla tesi di sua figlia ricorre
a una graziosa variante di quella che i logici di scuola anglosassone chiamano «fallacy
for appeal to authority», e cita un altro passaggio dell’intervista, quello in
cui Sua Santità dice: «In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano», quasi
ad insinuare che lo Spirito Santo assista in Bergoglio un
infallibile critico d’arte.
Sull’infondatezza
della tesi di Sara Magister mi sono già intrattenuto in due occasioni, ma qui
occorre ripetere:
(1) Per almeno dodici secoli fino al luglio del 1599 in cui
Caravaggio mette mano al dipinto, nella tradizione d’occidente e d’oriente San Matteo
è raffigurato anziano e barbuto, e lo stesso Caravaggio lo raffigura così in
almeno tre sue opere. In pratica, non si conosce un solo San Matteo che sia
stato ritratto giovane e imberbe nella Storia dell’Arte fino ai tempi di
Caravaggio, né dopo. Se fosse valida la tesi della Magister, questa sarebbe la
sola eccezione. Per giunta risalirebbe ad una epoca nella quale la Chiesa aveva
un controllo ferreo sulla produzione artistica e non ammetteva soluzioni ardite.
D’altronde, Levi (che poi si chiamerà Matteo) aveva tra i 40 e i 45 anni al
tempo in cui Gesù gli chiese di seguirlo (le fonti più attendibili datano la
sua nascita tra il 10 e il 15 a.C.): del tutto improbabile che si consentisse
di ritrarlo con le sembianze di un giovanotto intorno ai 20 anni, com’è quello
in cui la Magister e Bergoglio ritengono di poter identificare l’apostolo.
(2)
All’opera del Caravaggio si ispirarono parecchi artisti coevi o di poco
posteriori: talvolta il giovane che per la Magister dovrebbe essere Matteo è
addirittura assente e in tutti il gesto di Cristo risulta inequivocabilmente
indirizzato a un personaggio anziano e barbuto, di regola nella posa di chi, indicando se stesso, chieda:
«Chi? Io?».
(3)
Il committente della Vocazione di San Matteo, il cardinal Contarelli morì una quindicina d’anni prima che fosse realizzata, ma aveva lasciato istruzioni dettagliatissime all’esecutore testamentario sul come dovesse essere concepito quel quadro: vuole
– scrive – un «San Matteo [che sia ritratto] dentro un magazeno, over, salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et danari [...]
Da quel banco San Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte, si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che, passando lungo la strada con i suoi discepoli, lo chiama». E l’esecutore testamentario, Virgilio Crescenzi, sarà scrupolosissimo nel trasmettere queste indicazioni al Caravaggio, come è accertato dal carteggio tra i due e dal contratto. Non già un San Matteo nell’atto di «afferra[re]
i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”», come la tela ha detto a Bergoglio, ma in quello che è un
tutt’uno tra il chiedere: «Chi? Io?»
e per levarsi dond’era seduto. Basta osservare la postura delle sue gambe, nell’inequivocabile torsione di chi stia per alzarsi e scivolare via tra sedia e banco.
D’altra parte, il giovane in cui la Magister e Bergoglio hanno visto Matteo non sta
affatto «afferrando» le monete sul tavolo: l’impressione è data dalle due mani che sono giunte sul banco, ma il fatto è che non sono entrambe sue. Sono due mani destre, e appartengono ovviamente a due diverse persone, basta constatare che le maniche degli abiti sono di foggia e di colore diversi: una è la sua, del giovane seduto a un capo del banco, e si limita a contare le monete, forse ad impilarle; l’altra è dello stesso San Matteo che stringe in mano un foglietto, forse una ricevuta. Così accostate possono dare l’impressione che appartengano alla stessa persona colta in una posa di rapace avidità di denaro. Questo tipo di infortunio non è affatto raro in Caravaggio, lo hanno già segnalato Bernard Berenson e Maurizio Calvesi: maestro degli effetti speciali della luce, non era eccelso nel disegno, per tacere delle proporzioni anatomiche e degli equilibri di massa.
Non bastassero questi elementi, ve ne sono anche di più evidenti. Matteo era un esattore: è ragionevole pensare che un esattore segga su un lato lungo o su un lato corto di un banchetto rettangolare? Il registro di accredito, poi, è aperto in favore del soggetto anziano e barbuto o del soggetto giovane e a capo chino?
Pratica, cioè soluzione formale per adempiere il mandato della committenza; precedenti, cioè consolidata canonistica degli stilemi e dei simboli che caratterizzano un personaggio; pubblico, qui autorevomente rappresentato da autori coevi o di poco posteriori al Caravaggio, che reinterpretano la scena senza trovare alcuna perplessità nei discepoli del Caravaggio ancora in vita (Carlo Saraceni, Orazio Gentileschi, Giovanni Serodine): le tre P che guidano un critico d’arte tagliano le gambe ad ogni altra lettura.
Resta una domanda: cosa può aver ingannato Bergoglio?
Possiamo solo andare per ipotesi, cominciando a escludere che abbia fatto sua la tesi della Magister, che non è antecedente al 2012. Prima di allora, a identificare Matteo nel giovane seduto a capo chino era stato solo padre Joseph N. Tylenda, dell’Università di Scranton, in Pennsylvania, autore di una guida turistica (The Pilgrim’s Guide to Rome’s Principal Churches, 1993) che sarebbe interessante sapere se stia sugli scaffali di Papa Francesco. Potrebbe averla acquistata quando venne a Roma per il concistoro del 1998.
Più complicato cercare di capire come Tylenda sia arrivato a formulare la tesi di un Matteo che il Caravaggio avrebbe voluto rappresentare
nell’atto di
«afferra[re]
i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”». Un indizio può darcelo la bibliografia della sua guida turistica, nella quale sono almeno due i volumi che riportano una suggestiva cazzata che per qualche tempo era data come fatto assodato: per la costruzione della scena della Vocazione di San Matteo il Caravaggio avrebbe tratto spunto da una delle incisioni di Hans Holbein il Giovane della serie La danza della Morte, quella che ritrae un gruppo di giocatori di carte attorno a un tavolo, il più giovane dei quali, approfittando del subbuglio causato dalla comparsa di un satanasso, fa man bassa della posta ancora in gioco.
Peccato che la cazzata non abbia mai trovato fonte documentata. Libri e stampe che avevano visto la luce in paesi dove la Riforma aveva attecchito bene non avevano alcuna possibilità di circolare a Roma, né sul resto della Penisola. Inoltre, ammesso e non concesso che l’incisione circolasse, non sarebbe stato estremamente pericoloso riprodurre una scena di quel genere mettendo Gesù al posto di un repellente diavolaccio?
lunedì 23 settembre 2013
[...]
L’operazione
che con la rinuncia di Ratzinger e l’elezione di Bergoglio ha allentato l’insostenibile
pressione che da qualche anno gravava sulla Chiesa di Roma può dirsi ottimamente
riuscita, d’altronde per uccellare chi ne ignora la vera faccia bastavano un po’
di fondotinta, due freghi di bistro e due tratti di minio.
È l’immagine
che ho usato, a caldo, nel commentare il
«buona
sera» del 13 marzo.
Ovviamente tra i
suoi figli c’è chi la preferiva com’era prima, e ora storce il muso, ma mamma è
mamma, e sa quello che fa, quindi finirà per farsela piacere anche truccata a
questo modo, tanto nessun trucco sta su per sempre, e in fondo a qualcosa
serve.
«Io pure ero tra i perplessi», scrive Vittorio Messori (Corriere della
Sera, 21.9.2013), ma aggiunge: «In
una prospettiva cattolica ciò che conta è il Papato, è il ruolo – che gli è
attribuito dal Cristo stesso – d’insegnamento e custodia della fede, mentre non
ha rilievo teologico il carattere del Papa del momento, cui si chiede solo la
salvaguardia dell’ortodossia e la guida della Chiesa tra i marosi della storia».
Torna l’allegoria della barca (cfr. Premessa a due o tre dozzine di post): il mare in cui naviga è il tempo, e l’onda è il
mondo, ora favorevole, ora avverso; quando le è favorevole, è il momento di
spiegare le vele, e allora la verità di cui si sente depositaria e custode
pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa; quando
le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare
pericolosamente, le vele vengono ammainate, e allora è il momento della carità.
Messori lo dice in altro modo: «I decenni postconciliari hanno visto, nella
Chiesa, lo scontro sulle conseguenze da trarre dalla fede: politiche, sociali
e, soprattutto, morali. Ma della fede stessa, della sua credibilità, del suo
annuncio al mondo, ben pochi sembrano essersi preoccupati. Ben venga, dunque,
il richiamo del Vescovo di Roma: si rievangelizzi, annunciando la misericordia
e la speranza del Vangelo. Il resto seguirà. Non vi è, nelle sue parole, alcun
cedimento sui cosiddetti “princìpi non negoziabili” in materia etica. Ma vi è,
giustamente, l’insistenza sulla doverosa successione: prima la fede e poi la
morale. Prima convochiamo, accogliamo e curiamo i feriti dalla vita e poi, dopo
che avranno conosciuto e sperimentato l’efficacia della misericordia del
Cristo, diamo loro lezioni di teologia, d’esegesi, d’etica».
La Grande Puttana
torna all’adescamento, poi, con calma, quando sarà il momento, passerà all’incasso.
E guai a chi rifiuterà di pagare i suoi servizietti.
domenica 22 settembre 2013
La dismaieutica di Ivan Scalfarotto
L’argomentazione
fallace si avvale talvolta di un metodo che potremmo definire dismaieutica. Se
la maieutica, infatti, è la tecnica che aiuta l’argomento a venire alla luce
assistendo chi deve partorirlo in modo che il travaglio sia agevole e il nascituro
non abbia a subire danni, la dismaieutica narcotizza chi ne è gravido, glielo
ammazza in pancia e al risveglio gli mette in braccio un bambolotto di plastica.
Prendiamo, per esempio, Ivan Scalfarotto: «Ieri – scrive – la Camera ha
approvato l’estensione integrale della legge Mancino all’omofobia e alla
transfobia. Come previsto, una cosa così nuova per il nostro paese non poteva
che suscitare molte domande, polemiche e dubbi. Ho pensato che la cosa migliore
fosse fare una lista di domande e risposte, in modo da chiarire a tutti cosa si
è approvato ieri sera» (ivanscalfarotto.it, 20.9.2013).
Sembra un fare socratico,
ma il dialoghetto che offre ai suoi lettori è dismaieutico. Narcosi: «Per la
prima volta un ramo del Parlamento approva una norma ad hoc che riconosce in
Italia l’esistenza, la dignità e il diritto di vivere pacificamente di una
comunità di persone (le persone LGBT) che fino a oggi non sono state
riconosciute in quanto tali, al contrario di altre minoranze. […] Hanno
ottenuto l’integrale applicazione della legge Mancino e il riconoscimento che
l’omofobia e la transfobia sono fenomeni da reprimere allo stesso modo del
razzismo, della xenofobia e dell’antisemitismo».
Sembra un’epidurale, ma è
evidente che l’intento vada più in là dell’analgesia: «La legge Mancino è stata
estesa nella sua interezza», scrive, ma poi: «Il titolo della legge risulta
modificato: la legge Mancino ora si chiama “Misure urgenti in materia di
discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali,
religiosi o fondati sull’omofobia o sulla transfobia”». E che bisogno c’era di
modificarlo? In coda non ci poteva limitare ad aggiungere «sessuali»?
Non lo
spiega, e ve n’è ragione, basta andare al punto in cui afferma che il sub-emendamento
Gitti «in realtà è molto meno preoccupante di come sia stato descritto». Il sub-emendamento recita
che «non costituiscono atti di discriminazione le condotte delle organizzazioni
di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di
religione o di culto», e Scalfarotto tiene a precisare: «[Ma] a queste
condizioni: se sono conformi al diritto vigente – e grazie al cazzo – se si
riferiscono all’attuazione di principi e di valori di rilevanza costituzionale –
ringraziamolo di nuovo – e se sono assunte all’interno (non all’esterno)
dell’organizzazione».
Ora, sia chiaro, anche alla ostetrica onesta può capitare
di tanto in tanto di storpiare un nascituro e di provocare devastanti lesioni vaginali,
ma Scalfarotto dove vive? Qual è l’«interno», in Italia, delle organizzazioni
di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione e soprattutto
quelle di religione e di culto? Si tratta di organizzazioni che, con varie aree
di sovrapposizione, coprono la quasi interezza dell’«esterno», lasciando
scoperti i quasi inesistenti spazi di individualità, di regola marginalizzati
nella devianza. Soprattutto quelle di religione e di culto hanno conquistato il
diritto d’ingerenza in ogni ambito: quale sarebbe l’«interno», e quale l’«esterno», in Italia, di un’idra come
la Chiesa cattolica? Quali sarebbero i contesti nei quali un cattolico, chierico
o laico, commetterebbe reato nel sostenere che i gay sono «malati» e i
transessuali «mostri»?
Ostetrica cretina, Scalfarotto, o disonesta. «Complimenti,
signora, guardi che bel bambino ha partorito!», strepita. Ci porge il
bambolotto e con un piede, intanto, allontana il cadaverino.
venerdì 20 settembre 2013
[...]
Gli
interminabili ed estenuanti contenziosi che si consumavano tra i teologi bizantini
mentre Costantinopoli andava sbriciolandosi sotto l’assedio ottomano sono di
gran lunga più affascinanti delle dispute che in un’Italia ormai collassata
sotto il peso del suo degrado si accendono intorno alla réclame di una nota
marca di prodotti dolciari ospitata in Carosello a cavallo tra i Sessanta e i
Settanta del secolo scorso, di cui Enrico Letta ha di recente citato una frase
che a quei tempi, per qualche tempo, fu un tormentone, e il motivo non sta nel
fatto che l’esicasmo sul quale Gregorio Palamas e Barlaam di Seminara si
consumavano le corna fosse argomento, poi, più interessante di Jo Condor: è che
i termini della questione lì erano chiari a chiunque vi volesse metter lingua,
mentre qui pare che un po’ a tutti sfugga l’essenziale, e cioè che la citazione
è infelice in sommo grado. Quando infatti Jo Condor gracchia: «E che, ci ho scritto “Jo
Condor”?», peraltro indicando proprio la scritta “Jo Condor” che sta sul suo
berretto da comandante di aeronautica militare, è evidente che, anche se
involontariamente, si dà del cretino: nella variante che il perfido uccellaccio apporta
alla nota espressione popolare che alcuni ritengono nata in Toscana e altri in
Piemonte («non ho mica scritto in fronte “giocondo”»), è più che implicita la
valenza ironica che gli autori intendevano darle, peraltro puntualmente esplicitata al termine di ogni sua disavventura
con la punizione che il Gigante Amico gli infliggeva per le sue malefatte. Insomma, per cedere alla tentazione di offrire la versione che gli sembrava
fosse più accattivante, perché da antologia dell’idioletto televisivo piuttosto
che da dizionario delle espressioni dialettali, Enrico Letta si è dato del
cretino. Anche con un certo compiacimento, a giudicare dal video della sua conferenza stampa.
È che,
nel darsi un tocco pop, Enrico Letta mostra tutti i limiti del politico
allevato in batteria, con risultati non meno imbarazzanti di quelli che Mario
Monti ottenne quando cominciò a twittare scacazzando emoticon e wow. Del pop,
d’altronde, non si può avere che un’idea distorta quando la si riduce in
stilemi che nove volte su dieci ne sono solo la caricatura. È che il pop non ha
autocoscienza, se non a posteriori, dunque sta nel fatto, mai nel farsi: ogni
tentativo di costruirne una rappresentazione a partire dal suo significante
tradisce inevitabilmente il suo significato. E proprio Enrico Letta, anche più
di Mario Monti, ne dà la miglior prova. Qualche
giorno fa, per esempio, qualcuno, non ricordo più chi, notava l’uso che da qualche tempo il Presidente
del Consiglio ha cominciato a fare delle mani nell’accompagnare i suoi discorsi.
Giusta osservazione: ha cominciato a muoverle. Ma è fin troppo evidente che si
tratti di gesti meccanici, imparati frettolosamente da un qualche manuale di
comunicazione non verbale che sulla fascetta di copertina promette di
trasformarti in manager brillante e disinvolto in meno di un centinaio di
pagine. Niente a che vedere, insomma, con la naturalezza di chi ha rodato
postura e mimica da leader, chessò, vendendo prima appartamenti chiavi in mano
e poi illusioni di rivoluzione liberale: Enrico Letta muove le mani come chi le
abbia sempre tenute giunte poggiando il mento sulle punte delle dita e lungo
tutta la salita che l’ha portato a Palazzo Chigi si è concesso al massimo un
rotear di pollici, ma proprio quando i nervi gli erano a fior di pelle.
Anagraficamente ragazzone, sì, ma nato vecchio. Gli
converrebbe conservare quell’aria da tizio che potrebbe avere 30 anni, portati assai
male, ma anche 60, portati assai bene. E invece, sarà che deve competere con
uno come Matteo Renzi, corre il rischio degli inevitabili infortuni che
capitano a chi vuole puntellare un ottimo cursus honorum da cooptato di buona famiglia con la
simpatia che si traduce in consenso nell’essere sentito, eventualmente nell’essere
davvero, della stessa pasta di quelli ai quali chiedi il voto.
Premessa a due o tre dozzine di post
Una
trentina d’anni fa, quando Karol Wojtyla cominciava a mietere successi da
popstar coi suoi tour intercontinentali, e la macchina mediatica che doveva
rappresentarci il «ritorno del sacro» era già a pieno regime, un giornalista, José
María Javierre, chiese a un politico, Alfonso
Guerra González, quale fosse la sua opinione riguardo alla grande simpatia che
Giovanni Paolo II andava raccogliendo ovunque, anche tra i non credenti, e all’onda
di entusiasmo che un papa come quello andava sollevando in seno a una Chiesa
fin lì arroccata in difesa, quasi rassegnata a subire i micidiali colpi della
secolarizzazione che le venivano inferti ormai da decenni. La risposta fu che non
ci fosse alcun motivo di stupirsene, perché in Vaticano – disse – non mancavano
«persone straordinariamente furbe»: «Giocano con tutte le carte in mano –
aggiunse – e sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo per difendere i propri
privilegi, in grado di salire su qualsiasi treno, senza farsi troppi scrupoli».
Non starebbero lì da due millenni, potrebbe essere la chiusa, se non avessero
fatto del cinismo, dell’ipocrisia e dell’opportunismo una categoria dello
spirito. D’altronde la consegna era stata chiara fin dall’inizio: «Siate
candidi come colombe e astuti come serpenti» (Mt 10, 16).
Traggo questo scorcio
d’intervista dal capitolo finale di un libro che mi pare di aver già citato in
una o due occasioni, La larga marcha de la Iglesia (1985), pubblicato in Italia
una dozzina d’anni dopo da Jaka Book col titolo Momenti cruciali nella storia
della Chiesa (1996), di cui è autore Juan María Laboa, più apologeta che
storico, che così commenta le crude affermazioni di Alfonso Guerra González: «Significa
disconoscere la presenza continua in seno alla Chiesa di uno sforzo e di una
ricerca laboriosa di un mondo più giusto e fraterno, l’esistenza di
innumerevoli persone che lavorano e si fanno in quattro per gli altri, la vita
di milioni di persone semplici la cui unica luce e speranza si riassumono nel
Vangelo e nella Chiesa».
Si tratta di un argomento che è speso quasi solo in
difesa fin dai tempi della Lettera a Diogneto, dunque da ben prima che la
Chiesa cumulasse privilegi in una posizione egemone sul piano politico e su
quello culturale: le accuse che le erano mosse, nei primi secoli, si limitavano
a quella di essere una forza eversiva, come in realtà era davvero, per quanto
facesse voto di obbedienza al potere temporale che comunque, diceva Paolo, viene
da Dio (Rm 13, 1-6). Allora come oggi, si tratta di un argomento che ha qualche
indubbia efficacia per chi voglia limitarsi a guardare la Chiesa in superficie,
per ciò che mostra al mondo, soprattutto al mondo che la guarda con sospetto.
D’altra parte, non sarà sfuggito il cortocircuito nella difesa di Juan María
Laboa, che è una rielaborazione: è «in seno alla Chiesa» – dice – che «luce e
speranza» trovano insieme il mezzo e il fine, sicché «farsi in quattro per gli
altri» torna utile a quella che in senso lato è l’economia della Chiesa stessa,
e cioè la salvezza eterna del popolo di Dio. Se questa strumentalità del «farsi
in quattro per gli altri» è apparsa sempre più frequentemente come la ragione
sociale della Chiesa è perché gli attacchi che le sono stati mossi sono
diventati sempre più frequenti, e tuttavia torna costante il richiamo al fatto
che non è una ong, e che il prossimo altro non è che immagine di Dio, che la
carità altro non è che la contropartita della verità: le opere di misericordia
corporale sono la capsula che riveste quelle di misericordia spirituale, il
samaritano ti soccorre per reclutarti.
Tutto sommato, il mondo è solo
l’occasione che la Chiesa sente le sia stata data per traversare il tempo, e
proprio perciò il volume di Laboa è prezioso: delinea un atteggiamento
(trattandosi di un’istituzione che si dà statuto di comunità organica, potremmo
parlare di un istinto) che condiziona lungo i secoli la natura del rapporto
tra Chiesa e mondo di là da ogni specifica contingenza storica. Senza scendere
nel dettaglio, e affidandoci alla sintesi offertaci dalla simbologia cristiana,
la Chiesa si sente barca, il mare in cui naviga è il tempo terreno, e il mondo
è l’onda che solca, ora favorevole, ora avversa. Quando le è favorevole, è il
momento di spiegare le vele: la verità di cui si sente depositaria e custode
pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa. Quando
le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare
pericolosamente, le vele vengono ammainate: è il momento della carità.
Va
avanti così da sempre: due passi avanti ed uno indietro, ieri, due passi
indietro ed uno avanti, oggi. Se ieri serviva a guadagnare posizioni, oggi
serve a non perderne troppe. Cinismo, ipocrisia e opportunismo, dicevamo, sono
connaturate alla Chiesa: strumenti che hanno natura e funzione analoghe a
quelle degli enzimi, la cui sequenza degli aminoacidi è scritta nel dna di cui
sono modulatori per la loro stessa sintesi. Durare per durare: il resto – tutto
il resto – mero epifenomeno.
mercoledì 18 settembre 2013
[...]
Da
quando ufficialmente non riveste più alcuna carica nell’Idv, Antonio Di Pietro
è sempre in tv a rappresentarlo, come prima e più di prima: si dice semplice
militante, ma in realtà è rimasto il padrone del partito, anche se dal simbolo
ha fatto scomparire il suo nome. Di fatto, Ignazio Messina fa la foglia di fico,
il prestanome, e questo spiega perché la mozione che proponeva lo scioglimento
del partito e la sua rifondazione, pur maggioritaria alla vigilia del congresso
straordinario, è misteriosamente rientrata. O può darsi che queste riflessioni
siano solo pensieri maliziosi. Può darsi che siano gli organi dirigenti del
partito ad aver deciso così: in tv ci va lui per le sue straordinarie doti comunicative,
non hanno chi sappia esprimersi meglio, non hanno una faccia migliore.
martedì 17 settembre 2013
Bah
Almeno
a quanto mi risulta, è Platone ad usare per la prima volta la metafora della
nave come società, e già lì (Repubblica, VI, 488-489) sono presenti tutti gli elementi
che la renderanno efficace in Giorgio Gaber (La nave – Far finta di essere
sani, 1973): le tempestose avversità e le placide bonacce, il porto tranquillo
come agognata meta, il sempre incombente pericolo di naufragio, e perfino un
cenno, ancorché implicito, a quel «siamo tutti sulla stessa barca» che in
sostanza è il monito a non discutere sulla rotta, tanto meno a sollevare dubbi
su chi sta al timone. Vero è che la metafora compare anche nel Vecchio Testamento
col racconto dell’arca che salva Noè e i suoi dal diluvio (Gen 6, 16 – 8, 18),
ma qui manca ancora degli elementi che consentano un congruo parallelismo con
una comunità umana organizzata in società. Metafora che non nasce col
cristianesimo, dunque, ma che col cristianesimo acquista la potenza del simbolo,
grazie all’episodio della tempesta che coglie Gesù e i suoi apostoli sul mare
di Galilea (Mt 8, 23-27). Da qui in poi, cymba o navis, l’immagine rimanda a
chi a bordo condivide una comune sorte, sulla quale si fonda un’identità di
mezzi e di fini: è il popolo di Dio, l’ecclesia, ma ha gli stessi problemi di
cui discutono Socrate e Adimanto.
Così strano che lo schianto
della Concordia sugli scogli dell’Isola del Giglio si sia offerto come allegoria
di un’Italia data in mano a un irresponsabile? Io non l’ho trovato affatto
strano, anzi, direi che l’evocazione fosse fin troppo scontata. Scontata, e
tuttavia nell’ordine delle cose. Dunque non ho trovato strano neppure che l’attenzione
alle operazioni di recupero del relitto evocassero quello che per Roberto
Saviano è «un impronunciabile sogno da subcosciente: se si raddrizza la nave,
simbolo di un paese alla deriva che lentamente affonda, c’è speranza magari che
si raddrizzi l'Italia e che torni a galleggiare». Semmai mi è parso strano che
definisse «morbosa» l’attenzione. Ma ancor più strano, francamente inspiegabile,
mi è parso il preventivo dar del «gonzo», da parte di Enrico Mentana, a
chiunque fosse raggiunto da quella fin troppo scontata evocazione. La metafora
sta lì da almeno ventiquattro secoli, passa per Gerusalemme, Atene e Roma fino arrivare
a noi senza perdere neanche un poco della sua potenza, e chi la coglie è «gonzo»?
Bah.
domenica 15 settembre 2013
«Notoriamente cattivo»
Non
riesco a postare nulla da quando Massimo Mantellini ha scritto che sono «cattivo»,
anzi, «notoriamente cattivo»: scrivo, perché di scrivere non so fare a meno, ma
nulla mi sembra sufficientemente «buono» da postare qui, non dico per smentire
quel giudizio, ma almeno per mitigarlo. E pensare che c’è chi se ne compiace, della
«cattiveria». Non io, giuro. Sarò più sensibile a ciò che mi pare storto che a
ciò che mi pare dritto, questo sono disposto a concederlo. E non curerò troppo
le maniere nel dire quanto è storto ciò che mi pare storto, sono disposto a
concedere anche questo. Ma è «cattiveria», questa?
Prendiamo,
per esempio, l’ordinanza del Tribunale di Roma che «(1) inibisce a Sofri Luca
di fornire, in qualsiasi modo e con qualunque mezzo, espresse indicazioni sulla
denominazione e la raggiungibilità dei portali telematici che, direttamente o
indirettamente, consentono di accedere illegalmente ai prodotti audiovisivi
delle Reti Televisive Italiane S.p.A. aventi per oggetto gli eventi calcistici
disputati nell’ambito del “Campionato”, della “Champions League” e della
“Europa League”; (2) fissa un termine non superiore a venti giorni dalla
notifica del presente provvedimento per l’ottemperanza agli ordini di cui al
precedente punto; (3) fissa una penale non inferiore ad Euro 10.000 per ogni
violazione o inosservanza del provvedimento, nonché Euro 5000 per ogni giorno
di ritardo nell’esecuzione del provvedimento medesimo; (4) dispone la
pubblicazione del dispositivo del presente provvedimento, a cura e spese di
Sofri Luca, a caratteri doppi del normale, nella home-page del portale “Il
Post” e nelle edizioni cartacee e on-line del quotidiano “Il Corriere della
Sera” e “Gazzetta dello Sport”» e che «condanna Sofri Luca alla rifusione delle
spese processuali».
Il «buono» solidarizzerebbe, so bene, e infatti Manteblog solidarizza. Solidarizza al punto da commettere lo stesso illecito. Ora, fatemi capire, Malvino è «cattivo» se rammenta che Sofri Luca sapeva di
commettere un illecito e l’ha commesso lo stesso? «È stata considerata illecita
anche la semplice indicazione di link che rimandano alla visione degli eventi
in streaming», scriveva il 10 febbraio 2013, a commento di un provvedimento del
Tribunale di Milano. Sapeva che potesse procurargli noie, dunque, e non l’ha
evitato. Commentare con un «ben gli sta» è «cattiveria»? Concesso. Ma
solidarizzare, e al modo in cui solidarizza Manteblog, è «bontà»?
giovedì 12 settembre 2013
[...]
Se io
sollevo una questione, e tu mi rispondi: «Non seguirò passo passo le tue argomentazioni,
ma andrò al cuore delle tue considerazioni», io ti dirò: «Altolà, è inutile
discutere: vuoi eludere la questione che ho sollevato svuotandola della sua
sostanza per riempirla di quello che arbitrariamente ritieni sia il motivo per
cui l’ho sollevata. In pratica, vorresti spostare la discussione dalla
questione che ho sollevato alle ragioni che ritieni mi abbiano indotto a sollevarla. Diciamola tutta: non hai controargomentazioni valide e cerchi di fottermi»; poi
probabilmente aggiungerò: «Per caso hai studiato dai gesuiti?». E se mi cogli
nella giornata storta, ti congederò con un «va’ a cagare, va’». Sei papa? Va’ a
cagare lo stesso, va’.
venerdì 6 settembre 2013
giovedì 5 settembre 2013
Non eracliteo, senza dubbio
Chaïm
Perelman prende a esempio un celeberrimo frammento di Eraclito («Entriamo e non
entriamo due volte nello stesso fiume») per introdurci all’analisi degli
«argomenti quasi-logici» e per chiarire la natura del sistema entro il quale la
contraddizione può essere ancora dotata di una sua coerenza. Nel caso del
frammento di Eraclito, scrive che la coerenza è mantenuta se l’espressione «lo
stesso fiume» viene intesa – insieme – in due modi diversi, in modo che l’affermazione
sia vera per la prima interpretazione e la negazione per la seconda. E conclude:
«Nell’antichità, quando il pensiero scientifico di impostazione matematica era
meno sviluppato, il ricorso ad argomenti quasi-logici era più frequente. Oggi,
la prima reazione ad essi consiste nel sottolineare la loro debolezza» (L’empire rhétorique, VII). Se ne deduce che
il frammento di Eraclito poteva reggere
nell’antichità,
ma non oggi. Oggi siamo portati a
ritenere che un fiume non sia mai identico a se stesso e tuttavia entrandovi possiamo
dire tranquillamente: «È lo stesso fiume nel quale sono entrato ieri». Semmai
la questione può più ragionevolmente investire me: «Sono lo stesso di ieri?». E
qui le cose si complicano, sicché forse è meglio ricorrere ad un esempio.
Mettiamo che il «fiume» sia una situazione che, anche se non in tutto
sovrapponibile ad un’altra nella quale mi sono trovato dentro, presenti tali e
tante analogie con quella nella quale mi trovo dentro adesso da dover rinunciare ad usare un argomento
quasi-logico del tipo «ma non è la stessissima cosa». Ecco, mettiamo che la
situazione sia quella di un dittatore che silenzia ogni dissidenza con violenza
sempre più brutale. Ovviamente l’ex Jugoslavia non è l’Iraq, e l’Iraq non è l’Afghanistan,
e l’Afghanistan non è la Siria, ma potrò trattare l’ex Jugoslavia, l’Iraq e
l’Afghanistan in un modo e la Siria in modo completamente opposto? Potrò farlo,
ma dovrò chiedermi: «Sono lo stesso di ieri?». Lì potrò rispondermi
affermativamente solo ricorrendo a un argomento quasi-logico. Oppure ammettere: «Ieri
ero un paladino dei diritti umani, oggi sono ministro degli Esteri».
Ieri
potevo dire: «La guerra tradizionale ha sempre considerato le vittime tra i
civili come vittime involontarie, accidentali: si colpiva l’aeroporto e se le
bombe cadevano sulle case vicine, pazienza. Nell’ex Jugoslavia, invece, è
esattamente l’opposto: l’obiettivo è lo sterminio della popolazione civile. E
di fronte a questo, la comunità internazionale ha preferito far finta di
niente, mettere tutti sullo stesso piano, aggrediti e aggressori, e andare
avanti a forza di tregue puntualmente disattese. Invece avrebbero dovuto dire
fin dall'inizio che la Serbia è l’aggressore, che Milosevic sta facendo quello
che ha fatto Hitler. E l’Europa, ora come allora, fa finta di non vedere, prosegue
con la solita politica di appoggiare l’uomo forte purché mantenga la
tranquillità nella zona, con la speranza che prima o poi si calmi. Così facendo
offre molte speranze a tutti i dittatori del terzo mondo che stanno giusto
aspettando di vedere come reagisce la comunità internazionale di fronte a
questi fatti, per trarne poi le loro conseguenze».
Potevo dire: «La guerra
contro Saddam è giusta? Rigiro la domanda: è giusta la pace attuale che ha
permesso a Saddam di assassinare 500.000 iracheni? E di scatenare negli anni
Ottanta una guerra contro l’Iran costata 2 milioni di morti? Per chi esiste la
pace? Per gli europei, non certo per gli iracheni. Saddam, come ogni dittatore,
è innanzitutto un problema per il suo popolo. Dunque fanno bene gli americani
ad ammassare truppe nel Golfo? Di sicuro bisogna mettere fuori gioco il
dittatore di Baghdad. Il dittatore iracheno è uno che non si fa scrupoli a
usare le armi chimiche. Se ne è già servito per far fuori migliaia di curdi del
Nord dell’Iraq».
Potevo dire: «Può darsi che una guerra metta in discussione
l’establishment del mondo arabo, ma credo che i cittadini di quel mondo siano
esattamente come noi. Nel senso che il diritto alla libertà e la democrazia non
è un lusso dei Paesi occidentali, ma è un’aspirazione dell’essere umano. E’
vero che, per anni, abbiamo, per la stabilità, sostenuto delle dittature arabe
che sono state – come si dice? – gli “amici” dell’Occidente. Forse dovremmo
imparare a non ripetere gli errori del passato, a non innamorarci dell’uomo
forte e della soluzione rapida e a prestare un po’ più di attenzione alle
istituzioni democratiche forti alla loro costruzione».
Potevo dire: «Abbandonare
gli iracheni (come i ceceni e ieri i bosniaci e tanti altri) nell’ora del
bisogno e in un momento cosi decisivo per il loro futuro, non ha nulla di
nobile. Non è un comportamento di cui noi democratici, potremo mai andare
fieri».
Potevo dire: «La comunità internazionale ha la responsabilità di
liberare un intero popolo tenuto in ostaggio da una banda di fanatici. L’intervento
militare, se avrà successo, svolgerà la funzione della polizia che neutralizza
i sequestratori».
Oggi, no. Oggi mi corre l’obbligo di adeguarmi alle decisioni
dell’esecutivo di cui faccio parte o di dimettermi in dichiarato dissenso. Quest’ultima
sarebbe una posizione poco popolare, come d’altronde lo era quella di ieri, che
era definita guerrafondaia, amerikana, neocon, ecc. Ma ieri non ero ministro, mentre oggi ci tengo a rimanere tale. Qualcuno mi accuserà di incoerenza, di opportunismo
o peggio, ma via, come cazzo ti muovi, dispiaci a qualcuno. I miei compagni
radicali, per esempio? No, quelli no, quelli sono dei maestri in
quasi-argomenti e avere uno di loro alla Farnesina li gratifica da matti. Sì,
può darsi che qualcuno mi farà notare… Ecco, quel Mecacci, per esempio…
«Cara
Emma Bonino, scusami tanto ma da radicale oggi non posso non dirti che la
posizione del governo sulla questione siriana non è solo timida e non è solo
sbagliata ma è ipocrita, utopistica, anti umanitaristica e, molto
semplicemente, anti radicale… Di fronte all’accertamento dell’uso di armi
chimiche in un paese all’interno del quale negli ultimi due anni sono state
uccise 110 mila persone e dove quasi due milioni di persone si sono ritrovate
nello status di profughi di guerra, dire che la risposta giusta che l’Italia deve
dare coincide con le parole “diplomazia” e “tavolo di pace” è dire una cosa che
sinceramente non ha alcun senso… Ci siamo forse tutti dimenticati di Sebrenica?
Siamo tutti diventati smemorati? Io invece credo sia giusto ricordare che
l’assedio di Sarajevo è durato quasi quattro anni e che un bombardamento di
trenta giorni della Nato sulle postazioni serbo-bosniache che martoriavano la
città ci fu solo dopo la strage del 28 agosto ’95. Solo così furono salvati
molti civili e solo così fu poi possibile costringere Milosevic a firmare il
parziale accordo di Pace di Dayton. Senza avere indebolito l’esercito di
Milosevic, quella pace, per quanto precaria, non sarebbe stata possibile. E
oggi lo stesso ragionamento vale per Assad: senza cambiare la situazione
facendo perno sulla forza militare, senza andare a colpire i suoi arsenali e
insomma senza attaccare Assad è assurdo pensare che per grazia divina si possa
venire a costituire un tavolo di pace. Il nostro paese oggi si ritrova su una
posizione idealistico-utopistica in cui spera che sia qualcun altro a risolvere
problemi che ci riguardano. Nel mio piccolo, da militante radicale che ha preso
la sua prima tessera nel 1992 e che per una vita è stato educato a considerare
la promozione dei diritti umani un valore non negoziabile, dico questo: dico
che Bonino sbaglia e dico che nel 2013, cara Emma, non si può consentire che il
diritto internazionale sia un alibi dietro cui nascondere criminali di guerra».
Radicale, senza dubbio, anche se i suoi compagni già lo trattano da traditore.
Senza dubbio, non eracliteo.
mercoledì 4 settembre 2013
[...]
Anche
se assai ridotta, la possibilità di sopravvivere ad un bombardamento a tappeto,
anche estremamente intenso e prolungato, non è mai prossima allo zero come quando
le ogive liberano sarin o nervino. Giusto, dunque, che l’uso di un gas neurotossico,
soprattutto se ai danni di civili inermi, trovi condanna unanimemente più severa
del caso in cui la strage sia compiuta con mezzi che non sottraggano alle
vittime una pur limitatissima via di scampo. Mille volte più odioso, convengo
anch’io. E tuttavia occorre dire che la morte da inalazione di gas neurotossici
è estremamente rapida e praticamente indolore, come dimostrano le immagini
delle vittime, sui cui volti è assente ogni traccia di sofferenza. Come nel
caso dei curdi gasati da Saddam Hussein nel 1988, anche stavolta, le foto della
carneficina consumatasi due settimane fa alla periferia di Damasco mostrano
vittime che sui volti hanno espressione di dormienti: niente a che vedere con
le facce mostruosamente deformate dalla paura e dal dolore che riscontriamo su
altri cadaveri. Mi auguro che non si giudichino maliziosi gli esempi, ma sono i
primi che vi vengono in mente: le foto dei giapponesi morti nelle settimane
successive al bombardamento di Hiroshima, quelle dei vietnamiti fritti dal
napalm nel terribile biennio 1963-64, quelle dei giustiziati sulla sedia
elettrica dal 1890 (Stato di New York) al 2013 (Stato della Virginia) – chiedo –
non sono oggettivamente più sconvolgenti? Le foto che da mesi e mesi giungono
dalla Siria, e ci mostrano corpi straziati, e volti sui quali sono impressi i
segni di una morte atroce – pare che dall’inizio della guerra civile ad oggi i
morti siano stati 93.000 secondo alcuni, 110.000 secondo altri, 200.000 secondo
altri ancora – sono meno terribili di quelle che ci mostrano i 1300 gasati nei sobborghi
di Ein Tarma, Zamalka e Moadamyeh? No, ma sono questi ultimi a porre infine la
questione di un intervento armato per fermare il massacro. Cioè, per meglio
dire, per tentare di fermarlo.
Ora, però, sorge un problema. Alcuni giorni fa, Dale Gavlak, una giornalista dell’Associated Press, ha reso noto quanto le avevano
rivelato dei ribelli insediati alla periferia Damasco, che si sono dichiarati
responsabili della strage del 21 agosto: si è trattato di un errore – le hanno detto –
non
sapevano che stessero sganciando sui civili bombe al gas sarin, erano ordigni
arrivati dall’Arabia Saudita e non avevano capito di cosa si trattasse. Se un’azione
punitiva è necessaria, e solo ora, perché solo ora si è fatto ricorso a gas
letali – questa la tesi dell’amministrazione Usa – chi punire? I ribelli? L’Arabia
Saudita? Macché. Sebbene al momento la notizia della Gavlak non abbia trovato
smentita, si punirà Bashar al-Asad. Ora, solo ora. Fino ad ora non era necessario,
adesso sì. È possibile una posizione più idiota? Sì, perché non c’è mai fondo
al peggio. Ad essere contrari all’intervento armato in Siria è l’Italia, che
fino a ieri, pur di essere fedele agli Usa, non se n’è perso uno, neanche quando i morti non cadevano gasati. E
a che cazzo servono quei costosissimi F35 se basta digiunare con Bergoglio per risolvere i problemi?
Aggiornamento Pare che la notizia riportata da Dale Gavlak non abbia fondatezza.
Aggiornamento Pare che la notizia riportata da Dale Gavlak non abbia fondatezza.
martedì 3 settembre 2013
Cambiare idea
Cambiare
idea è legittimo, addirittura salutare, perché rivela duttilità mentale, capacità
di elaborazione autocritica e rifiuto della coerenza come rappresentazione di
un Io infallibile, perciò immutabile. A un patto, però. Che cambiare idea non
sia motivato da un tornaconto e che si sia in grado di spiegare in modo
adeguato cosa ce l’abbia fatta cambiare, meglio ancora chiarendo il come, cioè
in che modo gli argomenti che sostenevano la vecchia sono caduti sotto il peso
di quelli che sostengono la nuova.
Per quanto mi riguarda, e per il poco che
conto, penso di aver spiegato a dovere il perché e il come io sia arrivato ad
essere scettico sull’istituto del referendum nel quale ho creduto a lungo, e
di averlo fatto in tempo reale proprio su queste pagine. Sono partito dallo
studio degli autori che sono stati i più severi critici della democrazia
diretta per i rischi di deriva plebiscitaria e di degenerazione dispotica che
le sono intrinseci e sono arrivato a quelli che nello strumento referendario hanno
visto «una pericolosa illusione». Mi hanno convinto, ma a rendere più saldi in
me i loro argomenti è stato lo studio dell’istituto referendario in Italia dal
1974 al 2011, al netto di ogni retorica.
Bene, se questo può servire a spiegare
perché non ho messo la mia firma sui moduli che i radicali vanno riempiendo sui loro banchetti in
queste ultime settimane, perché non la metterò e perché invito tutti i miei
lettori a non farlo, rimane un gran bel mistero perché Il Foglio abbia cambiato
idea sull’istituto referendario: sul come potremmo anche fargli lo sconto, ma
se un blog semisconosciuto con una media giornaliera di 2.500 lettori sente il
bisogno di spiegare come è arrivato alle odierne posizioni dall’accalorato invito
al voto sui referendum di 8 anni fa, non dovrebbe sentirlo, e a maggior
ragione, un giornale che ha quasi il doppio dei lettori, e che oggi è un
convinto sostenitore dei referendum radicali mentre 8 anni fa invitava a boicottarli con argomenti che – si badi bene –
non mettevano in discussione quei referendum, ma l’istituto referendario
stesso?
Occorre leggere: «Il
referendum abrogativo è diventato – surrettiziamente ma palesemente travisando
la Costituzione – uno strumento di legislazione positiva. Il che non è. Non
ditelo ai radicali, per carità: sono loro i primi a stracciarsi le vesti sullo
stravolgimento operato non si sa da chi, o forse sì: dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale, che ha inaugurato un metodo di sminuzzamento delle leggi,
in modo che i cittadini non possano come di diritto abolirle (horror vacui
legislativo), ma possano, cosa cui non hanno diritto, cambiarle. Non diciamolo ai
radicali. Però ai cari radicali diciamo: e allora perché non lo rifiutate
questo pasticcio? No, la verità è che lo si usa, e si tenta di usare quel tanto
di plebiscitarismo che il nostro sistema consente per raggranellare nell’urna
referendaria maggioranze che in Parlamento non esistono. Come lo vogliamo
chiamare? Consociativismo referendario? Era meglio quello della prima
Repubblica, che almeno si applicava solo alle leggi di bilancio dello Stato e
non al potere legislativo del Parlamento. Si guadagnassero lì la maggioranza, a
suon di voti (politici) e di legittime alleanze, anziché rosicarla con la
finzione di una democrazia diretta che non c’è. Perché abbiamo non una ma ben
due Camere legislative, non siamo una democrazia diretta ma parlamentare, non
abbiamo le proposition e non siamo né in Svizzera né in California. E se non vi
piace, fate uno sciopero della fame» (Il Foglio, 10.6.2005).
Legittimo pensarla a quel modo, allora. Legittimo pensarla in tutt’altro modo, oggi. Ma cosa ha fatto cambiare idea? E attraverso quale ripensamento? Sospettare che vi abbia spinto un tornaconto sarebbe prova di malevolenza, non sia mai. In questo caso, poi, il tornaconto sarebbe dei più vili: provocare un po’
di casino in campo avverso per guadagnar tempo nel tentativo di salvare il culo al proprio padrone, e continuare a leccarglielo. Allontaniamo il sospetto: non può essere. Si può capire Pannella, che di vili tornaconti campa da sempre e che fino a qualche mese fa dei referendum manco a parlargliene che mozzicava le orecchie a Viale e a Cappato: coi referendum si è costruito il vestitino buono che, anche se logoro, ha tutto il diritto di indossare quando gli pare, ieri no, oggi sì. Ma Ferrara? Ferrara si dà arie da pensatore: per sostenere, allora, che il referendum comportava il rischio di un «totalitarismo consociativo» (nel titolo del pezzo), e per sostenere, oggi, che i tavolini radicali sono altari sui quali si compie il sacramento della democrazia, che tipo di ripensamento ha avuto? Nessuno glielo chiede, tanto meno i radicali, figurarsi.
lunedì 2 settembre 2013
Caro Alessandro
Caro
Alessandro, tu scrivi: «Se verranno raccolte le firme necessarie, gli italiani
potranno dire la loro su dodici questioni importantissime che riguardano i
diritti civili e il funzionamento della giustizia in Italia, il che sarebbe un
bene per i cittadini». È vero, ma «la loro», siamo onesti, non conta un cazzo. Lo dimostra il
fatto che tra i dodici quesiti referendari per i quali voi radicali andate
raccogliendo le firme ce ne sono alcuni sui quali gli italiani si sono già
espressi, e proprio nel modo in cui vi auguravate, ma invano: nel 1987, per esempio, votarono in favore della responsabilità
civile dei magistrati, e nel 1993 per l’abolizione del finanziamento pubblico
ai partiti e per l’abrogazione della detenzione per uso personale di droghe
leggere. D’altronde, votarono pure in favore della riduzione dei voti di
preferenza, da tre a uno, nelle elezioni per la Camera, nel 1991, ma il
Mattarellum, prima, e il Porcellum, dopo, assecondarono la loro voglia di
uninominale secca? Nel 1993 dissero no al controllo dei partiti sulle nomine ai
vertici delle banche pubbliche, e nel 1995 si espressero in favore della
privatizzazione della Rai e per l’abrogazione della norma che impone ai
lavoratori la contribuzione sindacale automatica, ma il loro volere fu
rispettato? E allora, gentilmente, in cosa consisterebbe questo «bene per i
cittadini»? Di fatto sta nell’illuderli, e le illusioni saranno pure un balsamo per gli idealisti, ma sono pure la materia viva
della demagogia.
Scrivi, poi: «Se verranno raccolte le firme necessarie, il Pd sarà
finalmente costretto a pronunciarsi su quelle questioni, cosa che finora ha
accuratamente evitato di fare: il che sarebbe un bene per i cittadini e per il
Pd». Analogo ragionamento per il M5S: «Se verranno raccolte le firme necessarie
– scrivi – anche il M5S dovrà dire come la pensa, specie su quei quesiti che
sono da sempre i suoi “cavalli di battaglia” (leggasi, ad esempio, il
finanziamento pubblico ai partiti), facendoci capire una volta per tutte se le
questioni gli interessano in quanto tali o solo quando le promuove lui: il che
sarebbe un bene per i cittadini e per il M5S». Argomento ben costruito sul
piano del piatto politicismo, dunque ottimamente spendibile da chi si ponga l’obiettivo
di far esplodere le contraddizioni interne al Pd o di portare a lisi le
ambiguità del M5S, ma del tutto inservibile per perorare la buona causa del
referendum come momento della verità democratica. Perché voleva essere questo lo scopo del tuo post, vero? Bene, se è così, si tratta di un argomento inservibile perché viziato da almeno due
fallacie retoriche, quelle che i logici di scuola anglosassone chiamano «guilt
by association» e «two wrongs make a right»: nel primo caso, si rigetta un’affermazione
come falsa semplicemente perché persone a noi sgradite l’accettano come vera,
senza alcuna dimostrazione della falsità dell’affermazione; nel secondo, si
cerca di dimostrare legittima l’azione che Tizio compie (o tenta di compiere) ai danni di Caio dando
per assodato che Caio la commetterebbe senza meno ai danni di Tizio se questi
non la evitasse commettendola per primo, stornando così la questione se l’azione
sia in sé stessa legittima o meno. Non a caso, infatti, poni la questione per
il Pd e il M5S, che sembrano non avere alcuna intenzione di appoggiare i
referendum, ma non la poni per il Pdl, che pur tardivamente – chissà perché –
ha deciso di appoggiarli. Ora, sul piano del piatto politicismo, non è
difficile spiegarsi perché il Pdl abbia deciso di appoggiarli e perché il Pd e
il M5S desistano. In un certo qual modo, sono proprio le due fallacie retoriche
nelle quali sei incappato (do per scontato che tu non vi sia ricorso deliberatamente) a darne la più congrua spiegazione. Per semplificare
dirò che si tratta delle stesse ragioni che portarono il Pdl a negare l’appoggio
alla raccolta delle firme per i referendum sulla fecondazione assistita del
2005 e a concorrere al mancato raggiungimento del quorum invitando all’astensione:
non conveniva (c’era il rischio di creare spaccature nell’elettorato del
centrodestra e di guastare i rapporti con la Cei e la Santa Sede).
C’è da
ritenere che Silvio Berlusconi abbia di botto trovato in sé un istintivo
tavolinaro, dopo aver sempre snobbato e qualche volta boicottato tutti i referendum
che gli passavano sotto il naso, tranne ovviamente i tre che nel 1995 misero in
discussione il possesso di tre reti televisive, il tetto massimo di raccolta
pubblicitaria delle televisioni private e la riduzione degli spot in un film?
Può darsi. Può darsi che Marco Pannella l’abbia convertito e l’abbia fatto
diventare un vero liberale. Sembrava che l’avesse convertito già nel 1994, ma i
segni della conversione furono un pochetto deludenti. Così, quando scrivi che «la
firma di Berlusconi, e il conseguente impegno nella raccolta delle firme da
parte del Pdl, potrebbe fare in modo che l’obiettivo dei referendum venga
raggiunto, e comunque potrebbe innescare il dibattito di cui sopra anche prima
di quel momento», e aggiungi che anche questo «sarebbe un bene per il paese», a
me viene spontaneo domandarmi, scusa, se ci fai o ci sei. L’operazione Berlusconi-Pannella, infatti,
è stata tenuta a battesimo da Il Foglio, che in quanto a qualità del dibattito non
offre alcuna garanzia.
Qui, caro Alessandro, non è discussione la buona o la
cattiva fede di chi vuol dibattere sui temi proposti dai radicali, ma la natura
tutta strumentale della discussione. Superfluo aggiungere che, da insuperabile
opportunista, Pannella si presti alla manovra per uscire dal vicolo cieco in
cui si era andato a ficcare, e già mostra come un trofeo il consenso ad un’amnistia
che vanta di aver ottenuto da un Berlusconi condannato in via definitiva, come se avesse strappato le corna al toro. Anche
qui scopriamo un Berlusconi che di colpo è sensibile al sovraffollamento delle
patrie galere, che ha riempito lui, con leggi come la Bossi-Fini e la
Fini-Giovanardi, che neppure pare aver intenzione di rinnegare. Però dice che
un’amnistia non gli dispiacerebbe. E grazie al cazzo. Sicché, caro Alessandro,
quando scrivi che «chi afferma che Berlusconi ha firmato i referendum per
salvarsi dalle condanne dovrebbe spiegare con una certa precisione quale dei
dodici quesiti radicali è tale da garantirgli questo risultato, il che sarebbe
un’impresa complicata, visto che quel quesito non esiste», mi cadono le
braccia.
Fino a quando Berlusconi ha potuto, si è confezionato leggi che gli
stavano a pennello, e dalle condanne si salvava depenalizzando il reato. Ora
non può più farlo ed è costretto a fare quel che può: mettere in discussione la
costituzionalità di una norma che ha votato pure lui, come la legge Severino, e
tentare la destabilizzazione del quadro politico cercando di rimanere attore in
scena, possibilmente nel ruolo di ricattatore, sennò di avvelenatore di pozzi. I referendum gli servono a questo, e chi gli ha consigliato di
appoggiarli ha dovuto pure fare una certa fatica a fargli capire come potevano tornargli
utili: «La forza di Berlusconi – dice Ferrara – è nel fatto che un
conservatorismo divenuto liberalismo di massa può esprimersi nei termini di un
radicalismo assoluto» (Il Foglio, 2.9.2013). Non farti intimorire dai paroloni:
dice che servendosi anche stavolta di Pannella, come nel 1994, può fottere
qualche cretino che già c’è cascato allora e che è tanto cretino da essere disposto a ricascarci ancora.
Io, caro
Alessandro, non «reput[o] ridicolo il fatto che Berlusconi abbia firmato per
presentare dei quesiti che si propongono di abrogare leggi approvate dal suo
stesso governo (leggasi immigrazione o droga)»: reputo sia prova che è disposto
a tutto pur di restare a galla, d’altronde sbattere in galera un Cucchi,
internare in veri e propri lager dei disperati appena buttati in mare dagli
scafisti e augurare alla Englaro lunga vita e figli maschi non erano
espressioni di una Weltanschauung, l’ometto non ha alcuna Weltanschauung,
ha solo cangianti proiezioni di una fenomenologia che si condensa nei lerci
cazzi suoi. E dunque, sì, non mi sfugge che «i referendum veng[a]no indetti
affinché i cittadini si pronuncino sul loro contenuto, non necessariamente
perché si è d’accordo con quello che chiedono», ma mi è altrettanto chiaro che
spaccano trasversalmente i partiti di massa e quelli che hanno vocazione di forte impronta
identitaria (tutt’altra cosa, poi, se a vocazione riesca a corrispondere). Non dev’essere un mistero neppure per te, che infatti scrivi: «Chi
afferma che in realtà Berlusconi ha firmato i referendum in modo strumentale,
al solo scopo di tornare ad “esistere” politicamente in un momento nel quale i
suoi guai personali lo stanno sommergendo, probabilmente (molto probabilmente)
ha ragione». Proprio perciò trasecolo quando aggiungi: «Ciò non toglie che in
ragione della sua firma le positive conseguenze politiche di cui ai primi
quattro punti potrebbero prodursi lo stesso, il che equivale a dire che le
intenzioni di Berlusconi sono assai meno importanti degli esiti che potrebbero
determinare». Importanti per chi, caro Alessandro? Solo per chi ha fede nel
referendum come strumento di democrazia diretta in grado di correggere i guasti
della democrazia rappresentativa. E qui, con quanto aggiungi al punto
successivo, veniamo alla quaestio dolens.
Tu scrivi: «Chi afferma che Pannella,
a sua volta, ha “accolto” la firma di Berlusconi in modo strumentale, al solo
scopo di tornare ad “esistere” politicamente in un momento in cui il suo
partito è ai minimi storici, probabilmente ha ragione anche lui, ma ciò non
toglie che i radicali quei referendum li stiano presentando e sono gli unici
che continuano a sollecitare un dibattito pubblico su quei temi, dibattito che
tutti gli altri si guardano bene dal sollevare, il che vuol dire che
quell’esistenza, Berlusconi o non Berlusconi, se la meritano tutta». Qui, consentimi
la franchezza, puoi convincere solo chi non sappia le ragioni che hanno portato
i radicali alla decisione di presentare questi quesiti referendari, e
soprattutto ignori il perché e il come da sei sono diventati dodici. Vabbe’ che
non significa niente sul piano delle decisioni, e nemmeno su quello della
conoscenza, ma in fondo sei dirigente di un soggetto della «galassia radicale»,
bazzichi in via di Torre Argentina, non ti manca naso per fiutare e capire: può
darsi tu non sia arrivato ancora al disgusto per quel monumento di ipocrisia,
cinismo, ambiguità e opportunismo che comanda la baracca, e può darsi non ci
arriverai mai perché di animo buono, ma so che sei dotato dell’intelligenza e dell’onestà
intellettuale che sono sufficienti a sgombrare il campo dalla retorica. E
allora dimmi: ma tu davvero credi che i sei quesiti sulla «giustizia giusta» siano stati concepiti per aprire un dibattito? Sarò ancora più brutale: ma tu pensi che in via della Panetteria scenda ogni volta lo Spirito Santo per dettare le priorità tra le iniziative politiche che mirano ad alleviare le sofferenze che affliggono l’umanità? Non saresti il primo radicale ad ignorare la storia del partito radicale da quando è diventato proprietà privata di Pannella, ma non puoi aver dimenticato che,
quando qualche temerario gli faceva presente, non più di qualche mese fa, che l’amnistia non bastasse
a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, e che si dovesse
fare qualcosa per mettere in discussione la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, il
vecchiaccio gli zompava addosso e lo sbranava, lasciano i resti ai suoi
leccaculo.
«Chi sostiene che i radicali sono dei “voltagabbana” e dei “venduti”
perché “parlano” con Berlusconi – scrivi – muove da presupposti che a mio
parere sono inappropriati per analizzare la politica». Io penso di no. Penso
che chi ha ingannato mezza Italia con la sua truffa della «rivoluzione liberale» deve essere isolato, prima di tutto dai veri liberali, altro che bersi la
panzana che spacciava l’altrieri in Largo di Torre Argentina («avrei voluto, avrei voluto tanto, giuro sulla buonanima della mia mammina, ma
non avevo il 51%»: ma va’ a cagare, ché hai avuto le più ampie maggioranze
parlamentari della storia repubblicana e sei stato capace solo di scrivere leggi clerico-fasciste
o tardo-dorotee).
Su una cosa, però, devo darti ragione, caro Alessandro: «Chi ritiene che il Pd
faccia bene a non promuovere i referendum per “non mischiarsi” con Berlusconi –
scrivi – muove da presupposti che a mio parere sono ancora più inappropriati
per analizzare la politica». È vero, ma questo non è argomento, se non fallace
(«guilt by association», dicevamo). «Chi, infine, afferma che i referendum siano uno
strumento logoro, sopravvalutato, inutile, e quindi che la loro
“strumentalizzazione” non sia l’effetto collaterale di un obiettivo politico,
ma l’unico obiettivo, pone invece un problema del quale credo sia interessante
e utile discutere»: così concludi, e può darsi che tu faccia
riferimento ai post coi quali ho messo in discussione la natura stessa della
consultazione referendaria, ma ho i miei dubbi, perché tra i commenti non ho
letto alcuna tua obiezione, e poi sarai troppo occupato a raccogliere firme per perdere tempo su queste pagine. Fatto sta che scrivi: «Sulla
questione la penso diversamente», ma non aggiungi altro. Non sono uno
strumento inutile? Perché? O meglio: spiegami a cosa sono utili, però produci numeri, portami fatti. A cosa servono, oggi, se sono mai serviti a qualcosa, i referendum? A creare lo
scompiglio dal quale Berlusconi pensa di poter trarre vantaggio, hai detto
no, o non solo, o comunque
–
ritieni –
senza effetto rilevante. A dare un po’ di ossigeno
all’asfissiata cosuccia radicale, abbiamo detto sì, può darsi, ma
–
tieni a precisare –
non è quello l’importante.
E allora? A cosa?
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