Giorgio
Napolitano invia un messaggio al Parlamento. Ne ha facoltà, lo prevede la
Costituzione: «Può inviare messaggi alle Camere» (art. 87). Sia chiaro: «può»,
nessuno lo obbliga. E infatti abbiamo avuto più Presidenti della Repubblica che
messaggi dei Presidenti della Repubblica alle Camere, sarà che l’iniziativa del
Quirinale non ha mai avuto alcun effetto vincolante, come dimostra l’ultimo dei messaggi
al Parlamento, una dozzina d’anni fa: lo inviò Carlo Azeglio Ciampi, aveva a
oggetto la necessità di un maggior equilibrio nel sistema dell’informazione, e
fece un buco nell’acqua, se ancora oggi siamo dietro al Botswana nella apposita classifica. Non che sia andata diversamente nei casi precedenti,
sarà per questo che il Quirinale ricorre al messaggio alle Camere quando
proprio non può farne a meno, in pratica quando vuole salvare la faccia coi posteri
e far scrivere agli storici: «Il Presidente della Repubblica fece tutto quanto
era in suo potere».
È il paradosso della cosiddetta Costituzione materiale: il
Quirinale esterna un giorno sì e l’altro pure, praticamente su tutto, spinge,
preme, fa ricattucci e dispettucci, incontra ufficialmente Tizio e ufficiosamente Caio, cova governi e detta l’agenda legislativa,
ma con l’unico strumento che gli è dato per farsi sentire non ottiene mai un
cazzo.
Qui, con il messaggio inviato da Giorgio Napolitano alle Camere, è in
questione lo stato delle carceri in Italia, una situazione vergognosa che in
sede europea ci ha fatto cumulare richiami, censure e sanzioni a righe, a
quadretti e a pallini, fino all’ultimatum che ha scadenza tra sei o sette mesi:
se la condizione dei detenuti resta disumana com’è, l’Europa ci fa un culo
grosso come una casa.
Condizione disumana da almeno tre lustri: non troppo
diversa, insomma, da quella che Giorgio Napolitano trovò nel 2006, quando fu
investito del suo primo mandato. E qui sorge spontanea la domanda: perché manda
il messaggio alle Camere solo adesso? Pare che anche adesso in Parlamento
manchino i numeri per un provvedimento di clemenza e, in quanto alle altre
soluzioni che prospetta, potrebbero esserci i numeri, ma pare manchi il tempo.
Vorrà si possa scrivere che «il Presidente della Repubblica fece tutto quanto
era in suo potere», non gli si può dar torto. In ogni caso, è evidente che il problema morale riceve dalle minacce di Strasburgo un considerevole aiutino.
D’altronde, bisogna essere onesti: Giorgio Napolitano non è mai stato insensibile al problema. E giustamente ci tiene a rammentarlo anche in questa occasione: «Com’è
noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione
di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari. Nel 2011, in
occasione di un convegno tenutosi in Senato, avevo sottolineato che la realtà
carceraria rappresenta “un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al
limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già
prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima
attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente
nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”».
L’accenno è al convegno
promosso dai radicali e al quale Giorgio Napolitano partecipò per far cessare l’ennesimo
sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, che ennesimamente minacciava di lasciarsi morire sotto il Palazzo, e il Palazzo, si sa, non vuole immondizia davanti al portone. In quella occasione, Giorgio Napolitano riconobbe
le catastrofiche condizioni in cui versa la giustizia in Italia e parlò di una
«prepotente urgenza» di soluzioni adeguate, possibilmente strutturali (fece
cenno a iniziative del Governo per l’ampliamento della capienza penitenziaria e
per il varo di norme che consentissero pene alternative alla detenzione in
carcere, stigmatizzando l’umoralità sociale perennemente oscillante tra
«ciclica depenalizzazione e ripenalizzazione»), «non escludendo alcuna ipotesi»
in grado di colmare l’«abisso» tra il dettato costituzionale e lo stato dei
fatti. Rammentò inoltre che più volte era «tenacemente intervenuto nei già trascorsi cinque anni di mandato su preoccupazioni ed esigenze relative sia
al superamento di gravi inadeguatezze e insufficienze del sistema giustizia in
Italia sia al rispetto degli equilibri costituzionali tra politica e
giustizia», ma che di più non poteva e dunque non voleva fare, riconoscendo i
meriti di Marco Pannella nell’aver sollevato la questione del sovraffollamento
carcerario, precisando che tale riconoscimento andava «al di là di tutte le
differenziazioni legittime rispetto a suoi giudizi o a sue iniziative». Come a dire: riconosco il problema, ma non strusciarti addosso, ché con la bava mi rovini il Caraceni. Il
termine «amnistia» non gli scappò neanche nella più allusiva delle possibili
perifrasi: si limitò a dire che «dalla politica devono venire le risposte», ma
rammentò che «la politica è debole e divisa, incapace di produrre scelte
coraggiose».
Tant’è, ma in quell’intervento Pannella lesse la promessa di un
appoggio alla sua battaglia, la sola via di uscita che era riuscito a trovare per venir fuori dal solito vicolo cieco in cui si era andato a infilare coi suoi folli rilanci.
Il solenne messaggio alle Camere arriva solo adesso. Per chi conosce Marco Pannella non c’è da stupirsi se ai
radicali è già stata data la consegna di considerare quello odierno il
risultato ottenuto grazie a due anni di insulti rivolti al Quirinale: da
«uomo di grande esperienza
interiore e di grande saggezza», l’indomani del convegno, alle peggiori
accuse e alle più pressanti molestie per due anni, con una breve tregua per la
nomina di Emma Bonino alla Farnesina, fino alla minaccia di denuncia per
tradimento della Costituzione, non più di qualche settimana fa, ma oggi – non c’è
da dubitarne – di nuovo «uomo di grande esperienza interiore e di grande
saggezza», non più «antropologicamente stalinista», non più «tecnicamente
criminale». Non c’è da scandalizzarsi, coi radicali funziona così. È perciò che
chi li conosce li evita.
Ma torniamo a Giorgio Napolitano. Le agenzie battono
la notizia che chiede al Parlamento un’amnistia. Non è così: prospetta «diverse
strade», e quella dell’amnistia è citata per ultima. Innanzitutto, indica come soluzione la
riduzione del numero complessivo dei detenuti «attraverso innovazioni di
carattere strutturale» («messa alla prova», pene alternative a quella
carceraria, riduzione dei casi in cui sia prevista la custodia cautelare in
carcere, «accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri
possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine»,
modifiche della «ex-Cirielli», «incisiva depenalizzazione d[i alcuni] reati»),
poi suggerisce «l’incremento della ricettività carceraria», che pure ritiene «insufficiente
rispetto all’obbiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla
sentenza della Corte di Strasburgo». In pratica, vi è un più che implicito
rigetto dell’amnistia come «soluzione strutturale», che è la bislacca tesi di Marco Pannella, come se le amnistie succedutesi al ritmo di una ogni tre anni, fino al 1991, avessero mai strutturalmente risolto un cazzo. E tuttavia, dicevamo, il messaggio alle Camere passa per essere un
invito al Parlamento a licenziare un provvedimento d’amnistia.
Questo accade
in una curiosa contingenza, quella nella quale ogni misura di clemenza corre il
rischio di sembrare necessaria solo adesso che Silvio Berlusconi è stato
condannato in via definitiva. Non c’è affatto da stupirsi, dunque, che l’«ostilità agli
atti di clemenza», che lo stesso Giorgio Napolitano non fa fatica a riconoscere
nell’opinione pubblica, dia segni
di subita recrudescenza da parte di chi sospetta – poco importa quanto a
ragione – che questa sia la via di fuga offerta a Silvio Berlusconi. Poco
importa quanto a ragione, perché il messaggio alle Camere arriva intempestivo.
Ce n’è per scontentare tutti, perfino i radicali, perché la soluzione dell’amnistia
è rubricata dal Quirinale a misura tampone, tutt’altro che a «soluzione
strutturale». Ma ai radicali conviene far finta di niente e incassare il
messaggio alle Camere come una vittoria. Non c’è da dubitare che sapranno
chiudere un occhio, assecondare l’impressione prevalente che Giorgio Napolitano
abbia chiesto al Parlamento l’amnistia, e solo l’amnistia, e così archiviare il
flop della raccolta delle firme per i loro dodici referendum: poco più di 150.000
firme – meno di un terzo di quante erano necessarie – per i sei referendum del
pacchetto «Cambiamo noi» e poco più delle 500.000 necessarie per gli altri sei
del pacchetto «Giustizia giusta», mentre il margine di sicurezza a fronte delle
immancabili contestazioni d’ordine burocratico è sempre stato fissato dagli
stessi radicali intorno alle 550.000 firme. Anche ammesso che la Corte di
Cassazione non abbia a sollevare eccezioni di legittimità, e in verità sui
primi due quesiti qualche dubbio è sembrato subito farsi strada, non v’è alcuna
certezza che le firme valide siano in numero necessario perché gli italiani
possano esprimere un parere almeno su sei schede referendarie.
Un flop che ha
dell’eclatante, se si pensa alla facilità con la quale in passato i radicali
hanno raggiunto l’obiettivo oggi mancato, ma che era da ritenersi largamente
previsto già in partenza, tenendo conto del crollo verticale di consenso che hanno
avuto negli ultimi anni. Mai così bassa la percentuale ottenuta alle ultime
elezioni politiche (0,19%), mai così basso il numero degli iscritti, mai così
aspre le polemiche interne riguardo alle questioni di sempre, ultimamente avvelenate
dalle conseguenze sempre più gravi dell’involuzione settaria di cui
l’area radicale soffre da almeno un quarto di secolo. D’altra parte, sul logorio di uno strumento come quello referendario era stato lo stesso Marco Pannella a insistere per anni: la voglia gli è tornata solo quando ha ritenuto necessario bilanciare a destra, col pacchetto «Giustizia giusta», l’apertura a sinistra che qualche scavezzacollo aveva azzardato col pacchetto «Cambiamo noi». Operazione riuscita: scavezzacollo bilanciato, anzi, annichilito.
Nel prossimo fine
settimana si terrà il Comitato nazionale di Radicali italiani, il soggetto
politico che nella cosiddetta «galassia radicale» ha dato sempre più evidenti
segni di insofferenza all’autocrazia di Marco Pannella, sempre più caso
clinico che problema politico. Per gli amanti del genere – necessario un
pizzico di perversione – si annuncia uno spettacolo imperdibile.
Per il
segretario ed il tesoriere di Radicali italiani, «siamo stati battuti da uno
Stato che ha impedito a milioni di italiani di firmare, fuorilegge anche
rispetto a una disciplina referendaria fatta apposta per sabotare le iniziative
dei cittadini a meno di non esser disposti a violarla. Ostacoli che conoscevamo
già in partenza ma che non siamo riusciti a superare. Questi referendum [i sei
del pacchetto «Cambiamo noi»] non si terranno anche perché non sono stati
voluti da nessuna componente della partitocrazia, quella progressista in
maniera più scandalosa di quella destra».
Un modo come un altro per rimuovere il
trauma: se si terranno gli altri sei del pacchetto «Giustizia giusta», è grazie
a Silvio Berlusconi. E anche se nessuno di questi sei referendum serve ad
alleggerire la sua condizione di condannato in via definitiva, il guaio è
fatto: agli occhi della «brava gente» i radicali sono ancor più «traditori» di
quanto lo fossero quando sedevano in Parlamento grazie all’ospitalità offerta
dal Pd nelle proprie liste; il consenso dato da Silvio Berlusconi alla proposta
radicale di un’amnistia assume lo stesso segno che prende il messaggio alle
Camere di Giorgio Napolitano. In pratica – va’ a capire quanto a torto e quanto
a ragione – gli eroi dell’antipartitocrazia appaiono all’opinione pubblica come
il catalizzatore dei più infami patti sottobanco della partitocrazia. Grazie a
Marco Pannella, ovviamente.