lunedì 23 febbraio 2015

Li accarezzava come figli




Volevo scherzare un po’ sulla faccenda confezionando uno di quei video della durata di uno o due minuti ai quali mi lascio andare di tanto in tanto, ma poi ci ho ripensato e ho buttato nel cestino tutto il materiale, salvando solo un fotogramma, quello che ho riprodotto qui sopra. La faccenda nasce dall’Ansa Magazine #49 dello scorso 17 febbraio, a firma di Michela Suglia, dal titolo Li accarezzava come figli (Viaggio tra libri e cimeli del fondo Fallaci), e in particolare dall’intervista al bibliotecario della Pontificia Università Lateranense, depositaria del lascito che Oriana Fallaci ha espressamente destinato a quell’ateneo prima di morire: «li accarezzava come figli» è frase che esce di bocca proprio a lui e, almeno nel contesto in cui è pronunciata, sembra che abbia a oggetto tutti i volumi della biblioteca della scrittrice.
Ora non è che io voglia mettere in discussione l’amore che la Fallaci potesse realmente avere per quei libri, ma credo che considerasse figli solo quelli scritti da lei, peraltro presenti in diverse traduzioni tra i 627 volumi del fondo, sicché è lecito pensare che quelli di altri autori non superino i 500-550. L’espressione, d’altronde, torna in due interviste del 1990 e del 1991 che è facile trovare su Youtube e in cui la scrittrice racconta, più o meno con le stesse parole, di come abbia inizialmente perso tempo prezioso nella sua lotta contro il cancro per dedicarsi alla traduzione in inglese del suo Insciallah, ma che non se ne pente, perché «tra me e i miei libri c’è un rapporto materno e, tra la propria salute e quella del proprio figlio, quale madre non sceglie la salute del proprio figlio?». Possibile che tale affetto fosse pari a quello riservato ai libri di cui era in possesso e di cui non era autrice? Non si può escludere, ma è più verosimile che la Fallaci abbia espresso lo stesso concetto anche al bibliotecario della Lateranense e che questi abbia equivocato l’affermazione come estesa a tutti i volumi della sua biblioteca.
Sia lecito stupirci, en passant, del fatto che fossero assai meno di quanti ci saremmo aspettati in possesso di chi posava a vestale della civiltà giudaicocristiana. Neppure sulla qualità dei volumi, poi, sembra si possano rilevare elementi notevoli, se il volume più prezioso è una malconcia copia del Delle rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina, per giunta in un’edizione posteriore alla morte dell’autore. Il valore del lascito, insomma, sembra tutto e solo nel fatto che questi libri siano stati di proprietà della Fallaci, e che qualcuno rechi qualche nota autografa, qualche altro un post-it a far da segnalibro. Il sospetto è che si voglia accrescerne il pregio spacciandoli come figli, mentre dei veri figli erano tutt’al più compagni di scaffale.

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Se non avesse rotto il patto del Nazareno, «errore blu» che lo ha lasciato senza uno «scudo» politico, ora Silvio Berlusconi non rischierebbe «la gogna della galera» che la Procura di Milano potrebbe infliggergli con una nuova accusa, quella di aver pagato i testi chiamati a deporre nel processo d’appello sul caso Ruby, «coriacea e subdola riproposizione del teorema dell’Arcinemico, del male assoluto, dell’uomo da sfasciare», che alla vigilia della pronuncia della Cassazione sull’assoluzione impone una «nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice», il che implica necessariamente «il “pentimento”, cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso».
Così Giuliano Ferrara (Il Foglio, 23.2.2015), ma chi vuol bene a Silvio Berlusconi può star sereno, perché a difenderlo, nel caso venga incriminato, sarà quasi certamente Franco Coppi, il quale si guarderà bene dall’inguaiarlo con argomenti così idioti. Provate a immaginare: «Signori della Corte, il mio assistito è chiamato a rispondere delle accuse che gli vengono mosse solo perché ha avuto qualche ruggine con Matteo Renzi, sennò col cazzo che il pm avrebbe osato metterlo in galera, sarebbe bastata una telefonatina e oggi non sarebbe in quest’aula, ma a riscrivere la Costituzione insieme al Royal Baby». C’è da supporre che il processo non avrebbe storia.

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Nel caso dei tweet di Gasparri in risposta alle dichiarazioni di Renzi sulla ventura riforma della Rai, c’è da rammaricarsi che, dalla preistoria ad oggi, la disputa a colpi di selce aguzza con la quale i nostri progenitori si sfondavano a vicenda il cranio sia diventata un inoffensivo scambio di battute: invece della povertà dei rispettivi argomenti sarebbe assai più edificante veder da quelle zucche schizzare la pupù, così non rimarremmo nel dubbio su quale ne contenga di più.

Dominus Iesus, 15 anni dopo

Al pari di ogni altro strumento, anche la parola muta nel tempo la specifica funzione per la quale è stata creata per l’ampliarsi o il ridursi delle occasioni in cui ne è richiesto l’uso. Così è per la vis che sta in violentus, dove l’-olentus è quasi pleonastico ad indicare l’eccesso di energia. A differenza della fortia, infatti, che si esprime nella capacità di sostenere un peso e di resistere ad una spinta, e perciò trova sinonimo nella solidità e nella fermezza che implicano uno sforzo isometrico, la vis è eminentemente dinamica, sicché la violenza non sta in una forza che sia solo «soverchia, [ma che sia pure necessariamente] messa in moto» (Niccolò Tommaseo), per lo più nell’impeto di un attacco potenzialmente distruttivo di tutto ciò che le si oppone.
Ciò detto, come altrimenti che violenta potremmo definire la fede che si dà mandato di far trionfare una verità su tutte? Non si ha, questo trionfo, senza che ogni altra verità venga distrutta riducendola a menzogna, e questo rende ineluttabilmente violento il mezzo efficace al conseguimento di tal fine, anche quando è dichiarato esclusivamente persuasivo.
Si prenda il Corano: «Non v’è costrizione nella religione, giacché la retta via ben si distingue dall’errore» (2, 256); «Se Dio volesse, tutti crederebbero in Lui. Tu pensi sia necessario costringerli?» (10, 99); «A chi porta la parola di Dio spetta solo il trasmetterla» (5, 99). Si tratta di versetti che solo in apparenza contraddicono i tratti dell’jihad che si fa truculento quando da lotta interiore per raggiungere il perfetto grado della fede diventa guerra santa contro gli infedeli, perché il dinamismo della vis proselitaria è sempre per sua natura pleomorfo e opportunista.
Si pensi al Manuele II Paleologo caro a Ratzinger: afferma che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza» (Dialoghi con un persiano, VII, 93), ma nella storia del cristianesimo questo sta senza eccessivo imbarazzo accanto ai battesimi forzati di ebrei, indios e neonati.
Tutto sta, in fondo, nella forma che assume la violenza e nella sensibilità a coglierla quando è dissimulata. Così, mentre si preferisce definire «guerra santa» la catena degli eventi che scuotono il mondo islamico, dimentichiamo che tra qualche mese ricorre il 15° anniversario della Dichiarazione «Dominus Iesus» della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermazione della legittimità della vis proselitaria che la Chiesa di Roma non ha mai rinunciato a esercitare al fine di estendere κατά όλος il suo credo, giacché la sua missione non si esaurisce nell’annuncio evangelico, ma nell’«instaurarlo tra tutte le genti» (18).
Certo, «al termine del secondo millennio cristiano questa missione è ancora lontana dal suo compimento» (2), per giunta certi strumenti del passato sono diventati inutilizzabili. Si pensi a come, per secoli, colonialismo ed evangelizzazione sono andati a braccetto e si prenda atto che non è più possibile: occorre che la vis perda il dinamismo della conquista militare e potenzi il carattere isometrico della fortia che resiste alla conquista militare dei competitori.
«Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio […] [possa] arriva[re con profitto] ai singoli non cristiani [in queste mutate condizioni storiche]» (21), occorre constatare che le cose si son fatte assai più difficili: giocoforza si deve ripiegare sul dialogo, ma senza dimenticare che «la parità, presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali» (22). Siamo alla constatazione che «lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino», ma che i tempi costringono al sospiro del «vorrei ma non posso». Poi, come sempre, ci si può far prendere dall’abbrivio, e allora si può arrivare a bestialità del tipo «la Chiesa non fa proselitismo» (Ratzinger, 13.7.2007).  

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Più di mille musulmani, a Oslo, fanno da scudo umano ad una sinagoga, scandendo lo slogan «no all’antisemitismo, no all’islamofobia». È una ben strana guerra di religione, quella in corso.

domenica 22 febbraio 2015

Graziano Delrio, finissimo biblista


«Il Signore gli disse: “Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, e che darò alla tua discendenza. Ho voluto che i tuoi occhi la vedessero, ma tu non vi entrerai”. […] Quando morì, Mosè aveva centoventi anni»
Dt 34, 4-7


Radiomonitor


Pauroso calo degli ascolti di Radio MariaFatta eccezione per il programma mattutino di quel maestro della satira agrodolce che è padre Livio Fanzaga, sempre seguitissimo, pare che il restante palinsesto abbia scassato la uallera a una discreta percentuale di radioascoltatori.

sabato 21 febbraio 2015

Altro che figlio di Silvio Berlusconi

Abbiamo fatto un grosso torto a Matteo Renzi nel ritenerlo un cazzaro privo di una qualsiasi Weltanschauung: i decreti attuativi del suo Jobs Act rivelano che una visione del mondo ce l’ha ed è quella del ragazzotto che ha visto il babbo condannato sette volte tra cause civili e del lavoro per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro irregolare e roba simile. Da ingenui stavamo lì a tenerlo sotto la lente per cogliere i tratti genetici che lo rivelassero come figlio di Silvio Berlusconi, lasciandoci sfuggire l’ovvio, cioè che il nostro Presidente del Consiglio altro non è che il figlio di un furbastrello di provincia, uno che la sera, tornato a casa, affliggeva moglie e figli coi mugugni per le rotture di cazzo che gli procuravano i dipendenti. Altro non è che il figlio di Tiziano Renzi, il nostro Presidente del Consiglio, la Weltanschauung è quella.

Immaginate che uno storico...

Immaginate che uno storico vi faccia una lezioncina sul ventennio che ha insanguinato l’Irlanda del Nord nella seconda metà del Novecento spiegandovelo come una feroce disputa tra cattolici e protestanti sulla natura della Grazia, sull’esistenza o meno del Purgatorio e sull’argomento dell’autorità sufficiente delle Scritture: suppongo che lo mandereste a fare in culo, vero? Avreste tutta la mia comprensione, ma per un attimo fate finta di essere personcine educate, di quelle che non mandano mai a fare in culo nessuno, e dite: come controargomentereste?
Probabilmente direste che in campo, in quel caso, cerano senza dubbio cattolici e protestanti, ma che da qui ad affermare che tutto quel sangue – oltre tremila morti su poco più di un milione di irlandesi – sia stato versato per motivi religiosi ci vuole una gran testa di cazzo, perché pure per le personcine educate, alla fin fine, est modus in rebus. Cattolici e protestanti, in Irlanda del Nord, si sono massacrati a vicenda per contendersi un territorio, né più né meno come hanno fatto nel resto d’Europa per oltre due secoli, tra il XVI e il XVII. Passano alla storia come guerre di religione, certo, ma c’è qualche storico che azzarda a dire siano state combattute tra chi sosteneva che per la salvezza eterna può bastare la sola fede e chi affermava che invece sono indispensabili le opere?
Ora, se lo sforzo di immaginazione non vi affatica troppo, fate finta di essere a Parigi all’alba del 24 agosto del 1572, quando le strade erano ingombre dei cadaveri di oltre 8.000 protestanti sgozzati dai cattolici (almeno altri 15.000 saranno massacrati nei giorni seguenti, in città e nel resto della Francia), e dite: definireste quella carneficina il risultato di una contesa teologica? Certo, nella cattedrale di Notre Dame si canta il Salmo 138 («Non odio forse, o Signore, quelli che ti odiano e non detesto forse i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei stessi nemici»), ma questo vi può bastare per poter ragionevolmente concludere che la strage degli ugonotti consumatasi la notte prima sia espressione di una fede barbara e sanguinaria? Se il conflitto che oggi va consumandosi tra sciiti e sunniti vi pare trovi ragion sufficiente in alcuni passi di alcune sure del Corano, vi potrà bastare. Ma poi chiedete scusa allo storico che avreste mandato a fare in culo. 

venerdì 20 febbraio 2015

«Santità, che bell’anello!»

La notiziola del bambino autistico di Valmontone cui si è impedito di seguire il resto della scolaresca in visita al Vaticano mi fa tornare in mente la barzelletta del ragazzo gay che il parroco non vuole portare all’udienza papale temendo che le sue eloquenti movenze possano causare qualche increscioso imbarazzo, ma che alla fine riesce a strappare il consenso, giurando che saprà contenersi. Tutto fila liscio fino a quando il ragazzo non arriva dinanzi al papa, s’inginocchia e, baciandogli la mano, esclama con tono fin troppo esageratemente effeminato: «Santità, che bell’anello!», e il papa gli risponde: «Non me ne parlare, sapessi come sono belli gli orecchini che gli fanno da parure, ma questi stronzi non me li fanno mai mettere». Nel caso del bambino autistico, il motivo del divieto alla visita in Vaticano è stato il fatto – dicono – che il caso fosse ingestibile. Come se Bergoglio non desse alla Curia le stesse preoccupazioni. 

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Dovremmo essere contenti della sentenza che dichiara illegittima l’espulsione di Luigi Lusi dal Pd, ma ormai siamo abituati a considerare i partiti politici come ditte, e Luigi Lusi è stato condannato in primo grado a otto anni di reclusione per essersi indebitamente appropriato di oltre 25 milioni di euro di fondi pubblici destinati alla ditta di cui era il tesoriere, dunque ha il marchio del ladro, e quindi il Pd ha espulso un ladro, e allora siamo contenti che l’abbia espulso, o almeno riteniamo fosse sacrosanto, e la sentenza ci sconcerta, e a leggerla ci sembra assurda. Già, ma cosa dice, la sentenza? Dice che l’espulsione deve considerarsi illegittima perché non è stata preceduta dalla contestazione in ordine agli addebiti sui quali l’irrogazione della sanzione si fondava. In sostanza, Luigi Lusi è stato espulso dal Pd in violazione della procedura che un partito politico è tenuto a seguire in questi casi. Oibò, cosa obbligherebbe un partito politico al rispetto di questa procedura? È presto detto: l’art. 49 della Costituzione, il quale riconosce a tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti, ma obbliga questi ultimi a darsi uno statuto che rispecchi il metodo democratico, il quale, non sarà superfluo rammentarlo, contempla ben precise garanzie, non ultima quella del diritto di difendersi da addebiti che prevedano una sanzione.
C’è poco da stracciarsi le vesti per scandalo, dunque. La sentenza non dichiara che Luigi Lusi sia innocente, e nemmeno che il Pd non avesse il diritto di espellerlo: si limita a considerare che la procedura di espulsione è stata illegittima ai sensi della norma costituzionale che obbliga un partito politico a rispettare le regole del metodo democratico nelle topiche della sua vita interna. Di converso, e di fatto se non di diritto, potremmo arrivare a dire che nella violazione di queste regole non c’è partito politico, ma associazione privata, con quanto ne consegue, in primis per quanto attiene al finanziamento pubblico. Ecco perché dovremmo essere contenti della sentenza, soprattutto se costituisce un precedente: ce n’è di che poter dichiarare illegittimo quanto in un partito neghi la democrazia interna. Ancora una volta siamo dinanzi ad un’azione vicariante della magistratura a colmare un vuoto, che in questo caso è quel deficit di democrazia interna che ha ridotto tutti i partiti a comitati d’affari, a imprese private, e di questa azione vicariante ovviamente ci sarebbe di che lamentarsi. Ma dove la politica si dimostra incapace di rispettare la legalità, ben venga la magistratura a rammentargliela. 

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Digitando nella finestrella di Google «tifoseria Napoli vandalismo», ottengo paginate e paginate di episodi a dir poco disdicevoli attribuibili ai tifosi del Napoli, in casa e in trasferta, d’altronde sono certo che avrei ottenuto risultati analoghi per qualsiasi altra squadra di calcio italiana, perché non ce n’è una che non abbia al seguito, più o meno nutrito, il suo bravo manipolo di esaltati per i quali ogni scusa è buona per lasciarsi andare ad atti di violenza su cose e su persone. Stando così le cose, non si capisce proprio cos’abbia potuto autorizzare Il Mattino a uscirsene bel bello, stamane, con una prima pagina come quella che ho riprodotto qui sopra. Per meglio dire: si capisce, ed è in linea con la tradizionale politica del giornale, ma quanta malafede è necessaria per decidere di aprire un numero in questo modo?

mercoledì 18 febbraio 2015

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Di Michel Houellebecq ho letto solo Le particelle elementari, appena uscì in Italia, e poi più nulla, perché quel libro – uso un eufemismo – non mi piacque affatto. Trovai balorda la trama, irritante la scrittura, e infine, a chiudere definitivamente la faccenda, non ricordo più se in un risvolto o in quarta di copertina, c’era quella faccia da omino viscido e dinoccolato che probabilmente m’avrebbe reso difficile anche la lettura di un capolavoro, ammesso e non concesso che Le particelle elementari, come pare, lo siano. Non sono neanche sicuro di essere arrivato alla fine, di certo non ho più riaperto quel libro, e insomma prima di Sottomissione, che ho acquistato oggi, a Michel Houellebecq ho associato in tutti questi anni l’idea di un tizio insopportabile, per giunta sopravvalutato dalla critica, a rafforzare ulteriormente, se possibile, la mia ultraventennale idiosincrasia per la letteratura contemporanea, salvando solo Philip Roth e Ian McEwan.
Non ho ancora iniziato a leggere Sottomissione, probabilmente lo metterò a stagionare per qualche mese, perché non c’è niente di peggio, ritengo, che leggere un libro mentre ancora se ne parla, e  troppo. Non escludo che anche questa «fiction politica», com’è nella definizione dell’autore, non mi piacerà affatto, anzi, ne ho come la certezza, però nella ragione che mi ha spinto ad acquistarlo c’è ben poco dell’investimento che si fa per un genere voluttuario. C’è che ieri sera, a Ballarò, Michel Houellebecq ha detto due o tre cose sulle quali sono perfettamente d’accordo e che in buona sostanza dovrebbero scoraggiare una lettura strumentalmente reazionaria della prognosi sociologica che affresca nel suo romanzo, anche se ha tenuto a precisare che non gli importa molto se dovesse accadere, come in realtà già accade, che la Francia del 2022 da lui immaginata sia usata come spauracchio da chi nell’Isis cerca un pretesto per favorire la deriva autoritaria, già da qualche tempo in atto in Europa, che mira allo smantellamento dello stato di diritto.
Michel Houellebecq ha detto che a minare la società francese non è il nichilismo, epiteto col quale sempre più spesso si diffama la laicità dello stato, ma la mancanza di democrazia. Ha detto che i partiti non rappresentano più nulla e che dunque il voto non ha più senso, che il dibattito pubblico si è trasformato che da qualche tempo in una rancorosa contesa che oppone i privilegi delle élites alla rabbia e alla frustrazione della gente comune. E ha detto che per quanto attiene all’Isis il problema non è il Corano, che al pari della Bibbia, assai poco letta dai cristiani, è assai poco letto dai musulmani, e ancor meno dai jihadisti, che ha degnato d’un solo aggettivo: stupidi. Il problema non è il Corano – ha detto – ma il ruolo degli imam, perché tutti i musulmani che hanno compiuto violenze sono di regola passati per le mani di guru spirituali che hanno loro indicato la via. E ha indicato nel passato coloniale di questo o di quel paese l’elemento che lo rende più o meno odioso all’Isis, anche quando quel passato è ormai alle spalle, e con ciò mi pare abbia centrato in pieno il movente psicologico che muove il sogno del califfato: quello del riscatto da una storia vissuta come umiliazione. E tutto questo l’ha detto con una faccia che, tre lustri dopo, era assai diversa: un mix di Céline e di Iggy Pop, con una zazzera rada e spiovente, un po’ alla Ceronetti, una specie di clochard tra il misantropo e lo strafottente. Simpatico. 

martedì 17 febbraio 2015

lunedì 16 febbraio 2015

Puff!

Ogni volta che so di cristiani perseguitati o uccisi in terra d’islam, qui sgozzati, lì bruciati vivi, l’istinto mi muove a compassione. L’istinto, tuttavia, come ben sa chi ne ha studiato la natura, sta tutto in meccanismi riflessi, non mediati, nient’affatto ponderati, sicché a lasciarlo fare si può esser certi di sbagliare. Allora in mio soccorso chiamo la ragione, che non si fa pregare e prontamente accorre col suo cassetto degli attrezzi. Per la compassione che d’istinto mi prende per i cristiani perseguitati o uccisi in terra d’islam, ne usa uno che somiglia a un regolo millimetrato, col quale mi dà sempre misura esattamente coincidente tra il martire e il pezzo di merda. Detta così, però, mi rendo conto che la cosa possa sembrare poco chiara, e allora passo all’esempio.
I copti decapitati dall’Isis, avete presente? Quando ho saputo, il cuore mi si è stretto da far male: «Povera gente», mi son detto, e giù a commiserare, afflitto da una pena immensa. Non fosse accorsa la ragione – e qui vi prego di credermi, non esagero – temo sarei morto dal dolore. Ma per fortuna non s’è fatta attendere: è subito arrivata e m’ha messo sotto il muso un post di Berlicche.
  
«È fuori di dubbio che, in Libia come in Danimarca, stiamo raccogliendo quanto abbiamo seminato. Un tempo si diceva Horror vacui per indicare che, quando esiste un vuoto, c’è qualcosa che lo riempie. La natura aborrisce il vuoto. Ma talvolta ciò che lo riempie non è così piacevole. Se non ci fosse il vuoto, non fosse stato creato il vuoto tutto sarebbe stato molto diverso. È difficile occupare quanto è già pieno. È molto più semplice svuotare. Svuotare di ordine, svuotare di senso, svuotare di Dio. Un tempo Dio riempiva tutto il cosmo con la Sua presenza, tramite le sue creature. Poi si è deciso che erano le creature ad importare, e non Dio. E un creatore è diventato inutile e imbarazzante, perché stava là a ricordare che una creatura non può tutto: ad esempio, non può farsi da sé. Le cose imbarazzanti dapprima le si nasconde, perché non siano viste dagli ospiti; poi ci si libera di loro. Dio occupava uno spazio bello grosso. Grande è il vuoto che si è fatto. I nichilisti dicono che è grande come l’universo stesso e si sa, sono i nichilisti che oggi dominano le nazioni. Ma un nichilista non ha difese contro chi questo suo vuoto ipotetico, questo suo nulla mentale lo vuole occupare. Può solo continuare a ridere ebete, rivendicando la superiorità del niente, sperando che l’ingombro che ha usurpato il suo nulla cessi di esistere. Sciocco. Niente che esiste cessa di esistere. Né Dio, né ciò che ha preso il suo posto. Così l’orrore del vuoto si è trasformato in un altro orrore. Dal Dio che ha dato la vita per ciò che è, a ciò che sceglie di non essere, a chi toglie la vita di ciò che è per riempirlo di altro. Qualcuno che non sarebbe mai entrato se non l’avessimo fatto entrare, se non gli avessimo creato spazio, non avessimo creato un vuoto. Perché l’abbiamo già detto: quando c’è un vuoto qualcosa lo riempie. Noi siamo gli uomini vuoti, ci ricordava un poeta molti anni fa. E ciò che ora viene per noi ci riempie di orrore».

«Ma che carogna!», ho esclamato. E la ragione s’è limitata ad aggiungere: «Cristiano. Non copto, ma della stessa pasta». E allora, in un istante, la compassione – puff! – scomparsa. 

domenica 15 febbraio 2015

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Prima di giustiziare il premier con una pernacchia, misero davanti a un muro tutti quelli che avevano detto: «Lasciatelo lavorare, lo giudicherete dai risultati», e li massacrarono di risate in faccia.

martedì 10 febbraio 2015

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È lecito nutrire più di un dubbio sul fatto che il ritratto di Isabella d’Este che si trovava nel caveau di un istituto fiduciario svizzero con sede a Lugano e sequestrato da Carabinieri e Guardia di Finanza nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura di Pesaro sia attribuibile a Leonardo da Vinci e, anche se di pessima qualità, già le riproduzioni del dipinto che circolano in rete a corredo della notizia dell’operazione bastano a sollevare serie perplessità al riguardo. Ce n’è una, per esempio, che rivela alla luce del flash una superficie incompatibile con la distribuzione del pigmento caratteristica dei dipinti leonardeschi, 


sicché, laddove il quadro sia veramente opera di Leonardo da Vinci, è lecito supporre abbia subìto, nel corso del tempo, interventi tali da guastare senza pietà la qualità dell’opera. In tal senso, potrebbe avere spiegazione un altro elemento che salta subito all’occhio, e cioè l’uniformità di tono dello sfondo, che non è mai presente nei ritratti di Leonardo da Vinci, neanche in quei pochi che hanno sfondo scuro, il cui esame radiografico ha peraltro costantemente rivelato elementi di ambientazione: nel caso di questo ritratto di Isabella d’Este lo sfondo sembra assorbire la figura, che sembra affondare nell’oscurità piuttosto che emergerne.
Anche laddove il dipinto avesse subìto tali guasti per interventi posteriori, tuttavia, c’è ben altro a far sollevare dubbi sull’attribuzione. È evidente, infatti, che saremmo dinanzi alla realizzazione dell’opera per la quale Leonardo da Vinci preparò il cartone che oggi è conservato al Louvre, fatto sta che non c’è alcuna fonte che comprovi che il ritratto sia mai stato realizzato. Di nessun significato probante, inoltre, ha il fatto che il supporto abbia rivelato alle analisi fin qui condotte una datazione computabile tra il 1460 e il 1650, perché in quest’arco storico vengono dipinti ritratti di Isabella d’Este a dozzine e dozzine, per suo espresso volere, quasi tutti eseguiti in absentia, giacché non desiderava fossero somiglianti ma idealizzati (per questa ragione ne rifiutò uno eseguito dal Mantegna), per lo più ispirati a ritratti preesistenti, anch’essi eseguiti prendendo come modello altri ritratti, primi fra tutti i medaglioni e il busto di Gian Cristoforo Romano. Sarebbe così strano che il dipinto in questione non sia altro che un ritratto ispirato al cartone di Leonardo da Vinci, che d’altronde nei suoi salienti tratti formali non si discosta troppo dal modo in cui il soggetto era abitualmente riprodotto in quegli anni (di profilo, con capigliara e coroncina, veste ad ampio scollo)? Ma poi, considerando che tra cartone preparatorio e opera definitiva in Leonardo da Vinci vi è di solito strettissima correlazione di linee e proporzioni, l’Isabella d’Este del cartone è così uguale a quella del dipinto? Anche a voler considerare gli elementi che fanno la differenza come aggiunte decise in corso di trasposizione, la linea del profilo, il taglio dell’occhio, il volume delle labbra, l’impianto del collo, non sono del tutto dissimili, al punto da far credere che l’ispirazione al modello leonardesco si sia tutto esaurito nella riproposizione della posa? Il pannato, poi, è leonardesco? E quella mano?


Così, a naso, io sarei propenso ad attribuire il dipinto a un autore di scuola milanese, molto probabilmente a cavallo tra Cinquecento e Seicento, assai posteriore a Leonardo da Vinci. 

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A Raqqa, in Siria, per interessamento dell’Isis, qualche giorno fa è stato decapitato un uomo accusato di stregoneria, capo d’imputazione che nel solo 1562, e nella sola Germania, per interessamento dell’Inquisizione, portò al rogo 417 poveracci, 300 ad Oppenau, 63 a Wiesensteig e 54 ad Obermachtal. Solo ignoranza o malafede possono farci perder tempo a discutere se a Raqqa sia stato correttamente interpretato il dettato coranico, se cioè il Corano prescriva l’eliminazione fisica di chi pratichi la stregoneria, e dunque se l’Isis sia la vera faccia dell’islam o una sua degenerazione. È che le religioni – tutte, ma soprattutto i monoteismi – si offrono con grande plasticità, momento per momento, alle contingenti necessità degli affiliati. Niente di più stupido che spiegarsi l’Isis come fenomeno religioso: le religioni sono sovrastrutture, sotto ci sono bisogni materiali, tanto più luridi quanto più la religione è dichiarata fine ultimo. Così, nel proporre una lettura di ciò che accade in Medioriente come chiamata in guerra per la difesa dell’occidente cristiano, si oppone luridume a luridume.  

sabato 7 febbraio 2015

Sedici minuti


A costo di dare l’ennesimo duro colpo alla mia già pessima reputazione, confesso d’aver comprato l’ultimo libro di Filippo Facci. Nel tentativo di attenuare il colpo, tengo a precisare che ci ho messo sedici minuti: quindici per arrivare a pag. 58 – non sono riuscito ad andare oltre – e uno per spostare il divano e riporlo in uno degli scaffali che ci sta dietro, dove metto i libri che mi vergogno di aver comprato.


Mattarelliana / 3

La durata media di un intervento pubblico di Sergio Mattarella nell’arco temporale preso in oggetto (crf. Mattarelliana / 1) è di 21'09", bassa se rapportata alla prolissità dei politici della Prima Repubblica, bassissima se rapportata a quella degli esponenti della Sinistra democristiana. Almeno per la parte fin qui trattata (1986-1989), sono anni in cui l’intervento pubblico di un politico, soprattutto se democristiano, ha i tratti tipici della retorica largamente impiegata nella Prima Repubblica: periodi lunghi e infarciti di proposizioni secondarie, insistito uso della perifrasi, costante ricorso all’eufemismo e, soprattutto, come carattere che a mio modesto avviso può essere considerato tra i più significativi del fine ultimo cui si consegna il discorso, tendenza a bilanciare ogni asserzione con tutti i «benché», i «sebbene» e i «purtuttavia» sui quali esso intende dimostrarsi rettamente validato per un’onesta ponderazione. Sergio Mattarella non è un caposcuola di questa retorica, né si contraddistingue per una di quelle singolarità di stile che pure sono rintracciabili nell’uniformità del discorso data dai suddetti caratteri: è un retore minore, non brilla per incisività, non ha coloriture degne di nota, in più è penalizzato da un eloquio poco fluido, da una dizione che sembra subire un’urgenza di affrettarsi e che costantemente lo induce a microfratture che sacrificano per lo più le sillabe finali delle bisdrucciole. Anche sui contenuti, niente di notevole: è il caratteristico esponente della sinistra democristiana che declina come meglio può, e meglio sa, la Dottrina Sociale della Chiesa, meno vibratile di una Rosy Bindi, senza i cromatismi di un Pierluigi Castagnetti, ma soprattutto assai al di sotto della versatilità di un Leopoldo Elia o di un Nino Andreatta. E tuttavia c’è un punto, che a me pare di poter datare tra il 1990 e il 1991, in cui si evidenzia uno scarto di un certo significato, oltre il quale rimane retore minore, ma acquistando un peso polemico: non è Sergio Mattarella a diventare meno opaco, ma è il contesto in cui i suoi interventi pubblici vanno a calare a renderlo più incisivo, almeno per l’uditorio del momento. Sono gli anni in cui monta il malcontento del paese contro il malcostume dei partiti e la Dc, com’è ovvio per un partito che è al governo da quasi mezzo secolo, è tra quelli maggiormente fatti oggetto di una critica che spesso assume i toni dell’aggressione. La reazione è quella dell’arroccamento, d’altronde già adottata in passato (si pensi al «non ci faremo processare nelle piazze» di Aldo Moro), ma i tempi ormai sono cambiati e il sistema manda sinistri scricchiolii che annunciano la prossima implosione. Sergio Mattarella, qui, mostra le energie di chi è in politica da nemmeno dieci anni, e dunque non dà per acquisite le rendite di posizione: insiste sulla necessità di un rinnovamento della Dc, che deve riscoprirsi partito popolare, abbandonando gli intrecci col malaffare e riguadagnando il credito che la rese centrale nel paese. Pochi anni prima sarebbe stata una proposta da anima bella, nel 1991 diventa un posto da vicesegretario. Ed è proprio nel 1991, ad un convegno su Crisi del sistema politico e ruolo dei partiti, tenuto a Chianciano, il 18 ottobre, che in uno dei suoi discorsi più lunghi (56'11") Sergio Mattarella si offre in una summa. L’eloquio ha un tratto che gli conferisce un piglio spiccio e sbrigativo, mentre i contenuti, e perfino certi passaggi, certi modi di dire, certe formule sintattiche, sono i soliti.
Quello non è un gretto incontro di corrente, dice. Se appena l’anno prima la sinistra democristiana era una forza di opposizione, oggi è guida, almeno come patrimonio di valori tutti intatti, e si fa carico delle istanze di tutto il partito, anche se ci sono rigurgiti della posizione che fu a lungo maggioritaria per mettere la sinistra in una «riserva indiana». I tempi cambiano, e cambiano velocemente: accade quello che si pensava non sarebbe mai potuto accadere, e non solo per la caduta del comunismo, non solo per il riaccendersi nel mondo di focolai di guerra che ci mettono un niente ad allargarsi (il Golfo Persico, i Balcani), ma anche per una «forte messa in discussione della centralità della Dc», e quando s’era visto mai, puttana Eva. Il cittadino è cambiato: è un concentrato di delusione e attesa, di sfiducia nel passato e di un bisogno di rinnovamento morale che lo spinge ad atteggiamenti demolitori. I nodi vengono al pettine, e uno riguarda la Dc, come partito dei cattolici. La questione non è quella dell’unità politica dei cattolici, l’ha detto il Papa a Loreto, l’ha detto Ruini nell’ultima prolusione, ma delle ragioni storiche di una classe politica che si ispira alla Dottrina Sociale della Chiesa, giacché nessuno ha scelto di essere democristiano per un altro motivo. Viene meno il Pci, almeno nel nome, che sembra poco ma è più di molto, però questo non deve in alcun modo significare che vengano meno le ragioni della Dc, cui spetta ribadire il suo ruolo di promozione del rispetto della persona umana e a tutela dei più deboli. Ridare corpo al popolarismo, come coinvolgimento della società che crede nel processo di perfezionamento della «città dell’uomo», nella quale l’uomo non potrà mai realizzarsi pienamente (sottinteso: questo potrà accadere solo nella «città di Dio»), senza perciò dover rinunciare a renderla più vivibile. Questa è la dimensione della laicità sulla quale insiste: il temporale è autonomo, ma non può non guardare al magistero della Chiesa, che qui si è da poco rinnovato nella Centesimus Annus, che cent’anni dopo la Rerum novarum rideclina la terza via tra capitalismo e socialismo, offrendo un compromesso inservibile. D’intanto, tutto d’attorno è bufera. Si fa strada – dice – un modo di far politica che consiste nella denigrazione dell’avversario, mentre l’opinione pubblica mostra un’urgenza di una condanna di tutto e di tutti, come per una palingenesi che non risparmi nulla. E i partiti hanno le loro colpe, e le élites finanziarie pure, e il potere per il potere porta al peggio, e contro il popolarismo c’è solo il plebiscitarismo, e certo sbranarci di tra di noi non reca alcun vantaggio: cose così, con continui richiami alla Cei. E una democrazia senza valori equivale ad un totalitarismo subdolo, e la classe politica si è chiusa man mano che aumentava la voglia di partecipare, e la forma di partito è superata, e sì alle privatizzazioni, ma non si può demolire il patrimonio pubblico: cose così, e l’uditorio applaude.
L’anno dopo, alla Festa dell’Amicizia che si tiene a Pesaro, più che un anno, sembra passato un secolo: Mani pulite ha scoperchiato la fogna e Sergio Mattarella può lamentare che s’è perso un anno. Non presente che la Dc è ormai agonizzante, ma già è pronto per diventare il custode di un pezzo della reliquia. Non si sa mai, dovesse tornar comodo. 


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