L’art.
56 della Costituzione è fra quelli risparmiati dalla riforma che il
4 dicembre sarà sottoposta al vaglio referendario, e dunque, anche
nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, al suo terzo comma
continuerà a recitare: «Sono
eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della
elezione hanno compiuto i venticinque anni di età».
Nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, però, al Senato
entrerebbero 95 amministratori locali (74 consiglieri regionali e 21
sindaci) eleggibili al compimento del 18° anno di età, sicché
potremmo avere dei senatori anche di sette anni più giovani dei
deputati, e questo in barba al fatto che in latino «senator»
significa «più
vecchio».
È col segnalare questa assurdità che intendevo aprire il seguito di
Una
merda di riforma costituzionale (Malvino,
3.10.2016), ammettendo che sostanzialmente fosse irrilevante e tuttavia
emblematica di quel patente analfabetismo istituzionale che ha dato
il peggio di sé in assurdità ben più rilevanti sul piano pratico. E ad analizzare queste mi disponevo quando un déjà vu m’ha
paralizzato: mi sono rivisto alla tastiera del pc ai tempi dei
referendum sulla legge 40, e ho ripensato a tutti i post scritti a
quei tempi. Sono andato a rileggerli, e vi ho trovato tutti gli
argomenti che sarebbero stati fatti propri dalle sentenze che in
questi ultimi dieci anni hanno fatto a pezzi la legge, ma che a quei
tempi su queste pagine potevano tutt’al
più aspirare a rinsaldare nella propria convinzione chi già fosse
convinto che quella legge fosse cretina e crudele.
Non è tutto,
perché poi è accaduto un fatto decisivo nel togliermi ogni residua
motivazione nel continuare la mia personale rassegna degli spropositi contenuti nella riforma: ho scoperto che non ero stato il primo a notare
l’assurdità
dei senatori più giovani dei deputati, l’aveva
già segnalato Emanuele
Rossi (Una
costituzione migliore?
– Pisa University Press, 2016). Ecco, mi son detto, non c’era certo bisogno che lo facessi notare io.
E qui ho tirato i fili: su alcune
questioni, e in certi contesti, la ragione è impotente, e i suoi
tentativi di farsi valere possono aver senso solo come contributo
testimoniale, e solo a futura memoria, dunque nell’atto
di fede, assurdo come tutti gli atti di fede, che la ragione abbia un
futuro. Atto di fede, questo, che oggi pare assai più assurdo che in
passato: già da tempo la discussione pubblica è impermeabile alla
logica della retta argomentazione, e la persuasione è sempre più
spesso affidata allo strumento delle più rozze fallacie, che oggi, molto
più di quanto sia stato in passato, risultano straordinariamente
efficaci in un foro animato da impulsi primordiali che spesso
rivelano la neutra cogenza che domina la materia inorganica.
È tempo
di decidere, mi son detto: mettersi in posa da martiri o ritirarsi in un discreto
silenzio su tutte le questioni che esigerebbero uno sforzo di
intelligenza, inesigibile da un’opinione
pubblica ormai abbrutita dalla paura e dall’ignoranza.
Io credo che a prevalere saranno i Sì,
credo che sia del tutto inutile discutere della riforma
costituzionale sulla quale si voterà il 4 dicembre, credo che nel
merito interessi a pochissimi, e che dunque il voto la toccherà
solo come pretesto. D’altronde,
via, siamo onesti, questo paese merita di essere governato da Matteo
Renzi, e chi siamo noi, sparuta minoranza di irriducibili cultori
della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri, per poter pretendere di togliergli dal
grugno quelle smorfie da dittatorello in erba?