sabato 16 ottobre 2010
Code del Novecento
La vita delle comunità cristiane in Medio Oriente non è delle più facili, anzi, leviamo l’eufemismo: c’è il rischio che i cristiani scompaiano dai luoghi nei quali è nato il cristianesimo. Anche se è sunnita – è consigliere politico del Gran Mufti del Libano – a Muhammad al-Sammak la cosa dispiace tanto.
Non è la prima volta che esprime la sua apprensione al riguardo: qualche mese fa, per esempio, affermava che “la diminuzione del numero e del ruolo dei cristiani in quella regione è un disastro non solo per i cristiani ma anche per i musulmani e porta alla disintegrazione di quella società e alla mancanza della ricchezza della diversità e delle competenze di carattere scientifico, economico, intellettuale e culturale dei cristiani che emigrano”; e aggiungeva che “l’emigrazione non è una perdita solamente per i cristiani quanto piuttosto una perdita per i musulmani e allo stesso tempo una sconfitta della convivenza islamo-cristiana” (zenit.org, 26.2.2010). Comprensibile, dunque, che la Chiesa lo senta amico, anzi, leviamo l’eufemismo: è normale che lo coccoli.
Est modus in rebus, ovviamente, ma in rebus del genere – parliamo del Santo Patrimonio della Santa Sede in Terra Santa – il modus non è sempre controllabile. Capita, così, che L’Osservatore Romano tolga una frase imbarazzante (quella che qui è sottolineata) dal suo intervento al Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente: “I cristiani d’Oriente sono parte integrante della formazione culturale, letteraria e scientifica della civiltà islamica. Sono anche i pionieri della rinascita araba moderna e hanno salvaguardato la loro lingua, quella del Sacro Corano. Come sono stati in prima linea nella liberazione e nella ripresa della sovranità, oggi sono in prima linea anche nell’affrontare e nel resistere all’occupazione, nel difendere il diritto nazionale violato, a Gerusalemme in particolare e nella Palestina occupata in generale. Ogni tentativo di affrontare la loro causa senza considerare questi dati autentici e radicati nella coscienza delle nostre società nazionali, porta a conclusioni errate, fonda giudizi errati e conduce quindi a soluzioni errate”.
I cristiani come alleati storici dei musulmani nella resistenza all’occupazione, ieri, dei francesi e degli inglesi, oggi, degli ebrei: è frase che condensa splendidamente la strategia politica della Santa Sede in Medio Oriente per tutto il Novecento, almeno a leggerla con gli occhi di un arabo che creda nelle buone intenzioni di Lawrence d’Arabia. Gianni Maria Vian ha cercato di evitare l’ennesimo scazzo diplomatico con Israele, ma non solo: ha pure messo i mutandoni all’ingenuo beduino che fida nella Riscossa Araba come a chiodo-scaccia-chiodo.
Sulla preterintenzionalità
“Hanno cominciato dentro il bar… Lei inveiva contro di lui, lui le diceva: «Ma che vuoi? Chi ti conosce?»… Lei lo ha preso ripetutamente a schiaffi… A un certo punto, lui è uscito e lei ha continuato a prenderlo a schiaffi e a calci…”. La testimonianza sembra congrua con quanto ha fatto seguito e che la videocamera della stazione Anagnina ha registrato: si è trattato del tragico epilogo di un alterco per futili motivi che la Hahaianu ha insistentemente prolungato inseguendo chi cercava di sottrarsi come possibile alle sue aggressive escandescenze e che, infine, ha reagito. La manata con la quale il Burtone cerca di allontanare da sé la donna, che ha ripreso a inveire e a spintonare, le arriva al volto e dal modo in cui la Hahaianu cade sembra evidente essersi stata la repentina perdita dei sensi da rotazione del tronco encefalico che manda al tappeto il boxeur colpito da un uppercut al mento.
Nulla di intenzionale: le lesioni che hanno portato a morte la donna sono state dovute al trauma cranico riportato nella caduta. Sulla preterintenzionalità, invece, c’è molto da discutere: da giudice – e meno male che non è il mio mestiere – io propenderei per qualcosa tra eccesso colposo di legittima difesa e omicidio colposo. Più in generale, inclinerei a condoglianze generiche e a ribadire il principio che chi alza per primo le mani si mette dalla parte del torto.
giovedì 14 ottobre 2010
Che editorialista, che poeta!
Noi laicisti siamo gente seria, mica ci mettiamo a mungere farfalle per quel crocifisso tatuato sul braccio di Ivan Bogdanovic. E nemmeno ci verrebbe mai in mente di imbastire una polemica sui Pater e gli Ave che Michele Misseri ha recitato per Sarah Scazzi dopo averla strangolata, eppure ci sarebbe da discutere: le preghiere sono state recitate prima o dopo aver scopato col cadavere? Ma – dicevo – siamo gente seria e solitamente glissiamo sul dettaglio da buon cristiano che impreziosisce questa o quella merda d’uomo. Il mafioso è devotissimo? Ci pare brutto approfittarne per malevoli generalizzazioni: trattiamo il credente e il criminale separatamente, al massimo ci scappa qualche innocente cenno alle analogie culturali tra le due Cupole. Siamo così, noi laicisti: non ci piace approfittare, evitiamo la reductio ad hitlerum, ci sembra poco carino far di tutta l’erba un fascio. Poi, naturalmente, può scappare l’eccezione, ma sempre quando provocati. E cos’è più provocatorio di una excusatio non petita?
Scrive il poeta Davide Rondoni, editorialista di Avvenire: “Ecco la preghiera delle nostre nonne e dei nostri figli divenire materia, elemento di cronaca nera. Divenire anche questo. Eppure, se così si può dire, proprio quelle parole, quell’inizio di preghiera, pronunciata certo da una mente ottenebrata e persa [lo zio della Scazzi], finiva per l’essere in mezzo ai titoli tutti gridanti e anche astutamente montati, una specie di pallida luce, di bava di lume come d’alba nella fittissima nebbia di quel delitto. L’aver pronunciato quelle parole - per chissà quale sperduto riflesso della mente o forse barlume di coscienza per quanto poi di nuovo sepolto e vanificato - è stato forse un confuso, ma non per questo meno necessario, primo gesto di preghiera su quel luogo e su quel corpo che poi ha meritato e chiamato la folla, lo sciame e il sacrosanto rituale di preghiere dei dolenti e dei giusti. Ma è come se da subito, come per una urgenza di fronte alla orrida realtà dell’evento, e di fronte al povero corpo di Sara derubato di vita e violato di tutto ma non della dignità, ecco, è come se da subito fosse dovuta scendere, medicamento e supplica, la preghiera semplice, la richiesta di abbraccio alla Madre dolce «ora e nell’ora della nostra morte». E non potendo esser pronunciata dai sassi, dal cielo muto, dalla terra arsa o dai rami neri di quel luogo, quella necessaria preghiera si è fatta largo proprio nel punto più nero e riarso, in lui, l’assassino medesimo, orante e non per questo meno assassino...”.
Bello, eh? Non si riesce a capire dove finisca l’editorialista e dove cominci il poeta, tanto sono amalgamati bene. E mica è tutto, perché il pezzo continua: “«Ave Maria, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte…». E poi sono tornate, dunque, rilanciate sui giornali; se pur agitate per fini di nuova morbosità o solo per dare altro macabro tocco, di fatto quelle parole povere e sacre sono tornate. Quelle uniche parole dicibili veramente tra tutte le parole rovesciate dai media. È come se quelle parole di supplica per lei e per tutti (sì anche per lui, più belanti, deboli ma più vere di ogni sinistra richiesta di condanna a morte) si fossero fatte avventurosamente largo, non solo sulle labbra di preti celebranti e di fedeli, ma tutto intorno, per l’aria italiana, sui tavolini del bar, tra le pagine aperte, nelle autoradio. Nate nel punto più oscuro della vicenda sono diventate poi in un certo senso la corale, la ventosa orazione mille volte rilanciata. Le parole semplici della fede...”.
Voilà, anche «orcoddio!» mi diventa una preghiera. Che editorialista, che poeta!
“Cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più”
Le indimenticabili Homiliae adversus judeos di Giovanni Crisostomo sono del 404, ma bisogna aspettare il 438 perché il cristianissimo Teodosio II emani le prime Leggi antiebraiche. Da allora le persecuzioni non avranno più sosta, raggiungendo inaudita efferatezza tra il XIII e il XVII secolo (cataste e cataste di morti). Di lì in poi gli ebrei saranno sgozzati e bruciati sempre più raramente, perché i cristiani si limiteranno a discriminarli e a segregarli. L’odio antigiudaico si raffina, il giudeo diventa sempre più simbolico e diventa sempre meno deicida, per diventare sempre più nemico della società cristiana, e la violenza diventa sempre meno teologica per farsi sempre più culturale e sociale, cioè politica: l’illuminismo, il liberalismo, la massoneria, il comunismo sono perfidi strumenti ebraici per secolarizzare l’occidente cristiano. Alla perdita del potere temporale della Chiesa – siamo a poco più di un secolo fa – l’odio diventa quasi soltanto livore, la violenza quasi soltanto diffamazione, gli argomenti riciclano vecchie mistificazioni. Ultime vampate antigiudaiche: le annate della Civiltà Cattolica a cavallo tra il XIX e XX secolo (per poi passare il testimone all’antisemitismo nazista) e l’ostruzionismo alla fondazione dello Stato di Israele (la Santa Sede lo riconoscerà solo nel 1993, 45 anni dopo). Dopo tutto, sempre perfidi, ’sti giudei!
Ora, nel leggere sul giornale del papa che “cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più” (L’Osservatore Romano, 16.10.2010), le labbra mi si schiudono in un sorriso, che subito diventa obliquo. Conoscersi più di quanto già si conoscano? Il sorriso mi si raddrizza a leggere quanto segue: “Soprattutto in Terra Santa”. Tutto normale: i cattolici vogliono dare una rivincita agli ebrei e sono disposti alla partita di ritorno. Gli ebrei dovrebbero pensarci due volte. Continuano a chiamarla Terra Santa invece che Israele o Palestina?
Apposito
L’occidente si va scristianizzando, urge rivangelizzarlo: il Papa istituisce un apposito Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e ci mette a capo questo bel pezzo di ricristianizzatore.
Comunque vada, adesso abbiamo almeno un responsabile della secolarizzazione a venire.
Brrr
Un grande esperto di araldica aveva subito parlato di uno “stemma assurdo”, dalla “sciatta e scadente qualità artistica e grafica”, e, fra le tante “novità il cui significato non è chiaro, e che nel linguaggio araldico hanno significati confusi e forse non previsti o voluti” (il quarto non brisato, l’anomala posizione delle chiavi, l’inedito inserimento del pallio, il colore delle infule, ecc.), aveva posto la maggiore attenzione proprio alla “strana e irrimediabilmente brutta mitria” ornata da quelle tre strisce che, almeno all’apparenza, avrebbero voluto “ricordare le tre simboliche corone della tiara”, che pure si era deciso di rimuovere, contro l’uso risalente ad oltre otto secoli: giudizio estetico, ma non solo, perché “l’araldica è la precisa rappresentazione visiva e codificata di una realtà” e, “come ogni linguaggio strutturato, ha un suo vocabolario ed una sua grammatica” che non si possono eludere senza stravolgere i significati (Maurizio Bettoja, Lo stemma di Sua Santità Benedetto XVI, 2006). E tuttavia lo “stemma assurdo” piacque molto al Papa che espresse gratitudine a chi gliel’aveva disegnato.
Bene, cinque anni e mezzo dopo, lo stemma rimane brutto, ma al posto della mitria torna la tiara: è una parziale correzione estetica (e “grammaticale”), ma per un vaticanista italiano, di quelli che stanno ai colleghi di scuola anglosassone come Porro sta a Pulitzer, è inammissibile parlare di correzione e, se la tiara torna al posto della mitria, la cosa avrebbe “un valore simbolico da non sottovalutare” (Il Foglio, 13.10.2010), come se col simbolo mutasse l’idea che questo pontificato ha di se stesso. E il nostro scrive: “L’espunzione della tiara dallo stemma fu un preciso ordine di Ratzinger che voleva dire basta agli orpelli e ai segni rinascimentali. Il segnale che per lui era giunto il tempo di un pontificato «francescano», che nello stemma ricordasse che il Papa è «unus inter pares»: il sogno ancora in vigore di una collegialità democratica. Chi è Benedetto XVI? Nel 2005 molti lo descrissero a partire dal suo stemma: un Papa bavarese e, come tale, deciso a tutelare il patrimonio di identità ripulendolo dalle tentazioni temporalistiche. Ma oggi l’antica corona è tornata sullo stemma. E di Benedetto XVI e del suo pontificato dice molto”.
Cosa dovrebbe significare, dunque? Forse che Benedetto XVI voleva dar di sé l’idea di un «unus inter pares» nel 2005, ed oggi ci ha ripensato? Giacché, “con le sue tre corone, la tiara parla del triplice potere del Papa (padre dei re, rettore del mondo, vicario di Cristo)”, Benedetto XVI intende ribadire l’incoercibile natura temporale del Papato? Brrr.
State tranquilli, è solo una ipotesi (neanche la sola) buttata lì per darvi il brivido. Anche Porro, d’altra parte, si è formato a Il Foglio.
mercoledì 13 ottobre 2010
martedì 12 ottobre 2010
Non devo essere io, il candido
Aristotele metterebbe il candido all’opposto della faccia di culo e nel giusto mezzo metterebbe chi imbroglia ma con stile e misura. Non è questo il caso di monsignor Walter Brandmüller, che a me pare una gran faccia di culo, ma sarà che sono un candido e non vedo né stile né misura nell’articolo che firma su L’Osservatore Romano di ieri (Misteri di un viaggio).
Si avvicina il 500° anniversario del viaggio di Lutero a Roma, la “Prostituta babilonese” che gli fece venir nausea del Papato, la fabbrica di indulgenze, il supermarket delle reliquie, e il Brandmüller comincia col lamentare che ci sarebbe altro da commemorare: il 200° della nascita di Liszt, il 300° di quella di Hume… Volendo, dico io, ci sarebbe pure il 600° della morte di Külüg Khan. Ma a volerlo proprio commemorare, questo viaggio a Roma di Lutero, si faccia onore alla verità storica: la Roma di Giulio II era davvero così prostituta? Volendo, dico io, ci si potrebbe anche chiedere: era davvero così babilonese?
Il Brandmüller – è un cognome che mi mette buonumore, scusate se lo ripeterò spesso – concede che a quei tempi, a Roma, c’era “secolarizzazione [prima di tutto secolarizzazione], lusso sfrenato, immoralità e frivolezza […] della società [prima di tutto della società] e della Chiesa”, o almeno questo pare il “giudizio pressoché unanime” della storiografia.
“Pressoché”? Chissà a chi pensa, il Brandmüller? C’è qualche storico che definisce moralmente virtuosa la Roma di Giulio II? Ce n’è qualcuno che trova il suo clero meno corrotto del mondo laico? Non risulta. E dunque, volendo essere giusti, Roma era proprio così male?
Un papa sifilitico e violento, vabbe’, ma il Brandmüller – ho capito perché mi mette buonumore: sembra un nome da operetta – invita a considerare Bramante, Raffaello e Michelangelo. Sì, sotto quegli affreschi s’inculava e si sgozzava, ma che begli affreschi! E chi era il committente? Giulio II. Corrotto forse, ma sensibile alla bellezza, e infatti aprì i Musei Vaticani. Non è da escludere che Lutero non fosse troppo sensibile all’arte.
[…]
Non devo essere io, il candido. Dev’essere il Brandmüller ad essere una gran faccia di culo.
La bicipite
“C’è chi in mezzo a questa fetida opacità si sente come a casa sua. […] La [sua] straordinaria diffusione ha un fine ultimo: diffondere l’idea che tutto è sporco e tutti sono sporchi. […] In un paese dove chi ha qualcosa da nascondere si sente più protetto quanto più si allarga il numero dei sospettabili. In termini tecnici, è un depistaggio di massa. In termini etici, è la perfetta mimesi dei disonesti”
Michele Serra, la Repubblica, 8.10.2010
“Il giornalismo è un mestieraccio sporco che partecipa dei conflitti tra poteri […] e che risente di tutte le belle e brutte opacità della lotta politica. Lo pratichiamo anche noi, questo sport, e non facciamo la morale a nessuno. Ma il senso del limite comincia seriamente a diventare un problema. […] Tutto si può fare in regime di libertà di stampa, ma «non costi quel che costi»”
Giuliano Ferrara, Il Foglio, 8.10.2010
Tutto si può fare in regime di libertà di stampa, anche il mestieriaccio sporco che partecipa dei conflitti tra poteri. Qualche dubbio sul fatto che almeno ad una delle forze in campo o anche a tutte, talvolta o sempre, torni utile diffondere l’idea che tutto è sporco e tutti sono sporchi? È un lavoro sporco per sua stessa natura: dovrebbe essere quel giornalismo che copre le spalle ai disonesti dimostrando che la disonestà è di tutti, peccato originale della carne pubblica e privata. Serra dice che questa è “fetida opacità”, Ferrara no, cioè, sarà pure fetida e opaca, ma anche il peggior fetente ha diritto di avere un avvocato, un cane che gli sia fedele e, se ha soldi per poterseli permettere, dei guardaspalle, dei pennivendoli depistatori, perfino dei poeti da brindisi che squittiscono smancerosi: “Com’è bello, il mio padrone! E come è giusto e/o come è umano!”. E tuttavia anche per Ferrara c’è un limite. Oltrepassarlo non sarà immorale, ma costituisce problema serio.
Ecco qui: di fronte a Vittorio Feltri – i due parlano di lui – avremmo solo da decidere se costui è una merda umana senza scrupoli morali (Serra) o è uno che ha solo esagerato con lo sporco, e però troppo (Ferrara). A mio parere, non è così. Anche nella palese difformità di criterio deontologico, i due fanno lo stesso errore: vedono il peccato. Il comedovrebbessere in Serra e il cosivailmondo in Ferrara attingono allo stesso universo mentale cristiano: nell’uno prevale il Dio della Giustizia che premia i buoni e maledice i cattivi, nell’altro il Dio della Misericordia che chiude sempre un occhio, però non devi approfittarne troppo. Inutile dire che sono entrambi segnati dall’essere stati del Pci oltre i trent’anni: anche virando verso l’azionismo, l’uno, e verso il malapartismo, l’altro, l’inculturazione di quel comunismo italiano (bleah!) nell’universo mentale cristiano che da Peppone arriva a Berlinguer o ad Amendola, mentre da Don Camillo arriva a Martini o a Ruini, c’è un nervetto in comune.
Maledetto compromesso storico: ha bruciato una generazione, rendendola refrattaria al metodo liberale. (Lo stesso liberalismo italiano, peraltro, te lo raccomando: tolto Salvemini, tutti con uno zio prete.) Severo in Serra, accomodante in Ferrara, il giudice è lo stesso e non sa giudicare Feltri col metro della norma dello stato di diritto, ma solo con quello della bicipite legge del cosivailmondo e del comedovrebbessere. Si propenda per l’uno o per l’altro, a Feltri si nega il diritto di essere giudicato da un tribunale laico.
lunedì 11 ottobre 2010
Qualche dubbio sul parlare di un “metodo Boffo” per il caso Marcegaglia / Premessa
Senza l’esatta comprensione di cosa davvero muovesse il caso Boffo era inevitabile che l’attenzione andasse tutta al direttore di Avvenire e al direttore de il Giornale, alla Cei e a Berlusconi, alla tenuta delle relazioni tra la Santa Sede e il centrodestra, addirittura a temi alti come la privacy e la libertà di stampa. Col passare del tempo, invece, si è fatto sempre più evidente che Boffo e Feltri abbiano avuto solo il ruolo di pedine in una partita che si andava giocando, e ancora si va giocando, tra Cei e Santa Sede, il primo come obiettivo sensibile dei ruiniani, il secondo come ignavo strumento dei bertoniani. Già il 3 settembre 2009 mi sembrava che “chi ha scritto quella pagina [l’informativa che accompagnava il certificato del casellario giudiziario di Terni] è senza dubbio un volgare galoppino di arcivescovato”. Ci sono tornato sopra fino ad alcuni giorni fa, quando ho scritto che “il Giornale fu usato nella partita dell’Istituto Toniolo”.
Cosa è accaduto realmente? In breve. Con l’arrivo di Bertone alla Segreteria di Stato, la Santa Sede decideva di riprendere il pieno controllo del Toniolo e dell’Università Cattolica, che col suo predecessore erano finiti in mano a Ruini. Era il 2002 quando l’allora presidente della Cei era riuscito a piazzare Ornaghi al rettorato dell’Università Cattolica e fu considerato un colpo di mano. L’anno dopo, travolto dallo scandalo che lo rivelò cocainomane, Colombo fu costretto ad abbandonare i vertici del Toniolo. I ciellini di Ruini avevano preso il posto degli ex democristiani di Sodano: era guerra per bande e ogni mezzo era lecito, anche se sporco.
Si trova una spiegazione delle dimissioni di Boffo, altrimenti anche adesso senza solide ragioni, solo a leggere in questo modo il plico anonimo fatto arrivare a Feltri, dopo che averlo inviato a tutti i vescovi non aveva sortito effetto: le due bande non potevano mantenere in campo pezzi indeboliti. “Feltri non si illuda – scriveva Boffo nella sua lettera di dimissioni – c’è già dietro di lui chi, fregandosi le mani, si sta preparando ad incamerare il risultato di questa insperata operazione”; e ancora: “Io sono, da una vita, abituato a servire [chi] ha altro da fare che difendere a oltranza una persona per quanto gratuitamente bersagliata [e che] potrà sempre in futuro contare sul mio umile [ma da oggi in poi] nascosto servizio ”.
Ciò detto, è corretto parlare di “metodo Boffo” nel caso Marcegaglia? Solo a ipotizzare che in Confindustria sia in atto una guerra per bande e che anche stavolta il Giornale sia stato scelto come strumento sicuro per colpire la fazione avversa. Può darsi, non si può escludere. Ma il fatto che Feltri abbia fatto marcia indietro – che abbia preferito far credere che il dossier sulla Marcegaglia fosse solo una scherzosa millanteria di Porro – più che alla telefonata di Confalonieri è dovuto all’aver finalmente capito di non essere mai stato il regista del “metodo Boffo”, tutt’al più l’attore principale, il killer sul quale si può contare a gratis. Me ne faccio convinto dopo L’Intervista Barbarica dello scorso venerdì, della quale converrà parlare a parte.
domenica 10 ottobre 2010
giovedì 7 ottobre 2010
L'aspetto decisivo
“Incontrai Ratzinger a Belluno poco prima dell’elezione al soglio di Pietro – rivela Antonio Socci (Il Foglio, 7.10.2010) – e gli chiesi di Medjugorje. Non si sbilanciò molto ma mi chiese cosa avessi visto io a Medjugorje. Gli raccontai del fiume di gente convertita… Mi disse: «Ovviamente questo aspetto è decisivo. Perché la Chiesa non può chiudere la porta dove la gente ritrova la fede»”.
Molto più che nei suoi scritti teologici, la visione ratzingeriana della fede è in questo aneddoto: la Madonna appare veramente dove la vedono in tanti. Quanti? Un fiume di gente. Viene il sospetto che il cardinal Ruini, messo da Ratzinger a capo della commissione investigativa che dovrà pronunciarsi sulla genuinità delle apparizioni mariane di Medjugorje, sia stato mandato lì solo a contare.
Questi semplici cittadini
“«Il condannato viene avvolto da capo a piedi in un sudario bianco ed interrato, la donna fino alle ascelle, l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre viene portato sul luogo e funzionari incaricati o semplici cittadini autorizzati effettuano la lapidazione…» [Il Fatto Quotidiano]. Ecco, questi «semplici cittadini» che fanno queste cose sarebbero da conoscere... Proprio i vicini di casa ideali...”
Massimo Bordin, Stampa & Regime (Radio Radicale, 5.10.2010)
Tiziano era etero
Non sapeva di essere gay, cioè, in fondo lo sapeva, e forse non solo in fondo, ma taceva a se stesso, figuriamoci se poteva parlarne con altri, e non sapeva se, né come, tanto meno perché. Poi, ritrova – in sequenza – coscienza, coraggio, serenità, pride. Mi pare l’incontrario di Luca era gay.
Vergognarsi per
Assunta Almirante, Muammar Gheddafi, Mario Adinolfi, Camillo Langone, Avvenire, Mariastella Gelmini, Livio Fanzaga, Augusto Minzolini, Silvia Avallone, me stesso, Giulio Andreotti, Pierferdinando Casini, Giorgio Stracquadanio, Franco Frattini, Francesco Nucara, Joseph Ratzinger, Oscar Lancini, noi tutti, Barbara Palombelli, Antonio Di Pietro, Dagospia, Tarcisio Bertone, Angelo Bagnasco, Lele Mora, Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, Ettore Gotti Tedeschi...
mercoledì 6 ottobre 2010
Ragioni grosse, medie e piccoline
Fra le ragioni che dovrebbero convincerci del fatto che il Premio Nobel a Robert Edwards sia un affronto a Dio e alla ragione possiamo distinguerne di grosse, di medie e di piccoline.
Le prime sono tutte in una: la fecondazione in vitro offende il disegno divino, e dunque è moralmente inaccettabile, sicché un alto riconoscimento pubblico a chi l’ha introdotta nella pratica clinica è doppia offesa contra Deum.
Le ragioni di medio peso, invece, sono relative all’offesa della tecnica contra personam: si sacrificano esseri umani, ancorché in embrione; si nega al nato il diritto di venire al mondo come Dio comanda (e solo se lo comanda); si producono aberranti sovvertimenti della fisiologia umana e del diritto naturale; e poi, a fronte degli impegnativi trattamenti clinici, la percentuale di successo della tecnica è bassa, con l’eventualità non trascurabile di strascichi fisici e psicologici, anche in caso di successo, e non solo per la donna. Celebrare l’uomo che ha reso possibile tutto questo è due volte offesa all’uomo.
Roba di un certo peso, fin qui. Più leggera è la materia delle ragioni piccoline, e due di esse meritano attenzione.
La prima è relativa al fatto che Edwards si sarebbe limitato ad applicare all’uomo una tecnica già in uso nell’allevamento animale. È un merito da Premio Nobel? E poi: non si mortifica la dignità umana trattando gli uomini come vacche o pecore? Ragione piccolina, e molto gracile: viene da quanti non hanno alcuna difficoltà a considerarsi gregge per affidare mente e corpo ad un pastore.
Quella più graziosa è la seconda: la fecondazione in vitro non guarisce dalla sterilità, ma la aggira, quindi è una falsa soluzione, probabilmente una truffa. In realtà, le lenti da vista non rimuovono le cause anatomiche che generano la miopia, ma si limitano a correggere il difetto del visus: l’oculista truffa il miope quando gliele prescrive? E in ogni caso: se non ho possibilità di correggere le cause anatomiche che generano la miopia, sono idiota a usare le lenti da vista?
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