L’avessero
arrestato, ci sarebbe stata una rivoluzione: un anno e mezzo fa ne
era sicuro, o almeno ci teneva a farlo credere. Oggi vuole almeno
sperarlo, e butta lì la cosa per vedere l’effetto che fa a chi
dovrebbe scatenarla, la rivoluzione. Sì, la rivoluzione è evocata
in contesti diversi, ma questo basta a spiegare che una minaccia si
sia trasformata in preghiera? L’ometto è volubile, si sa, poi non
ci avrà creduto neanche un anno e mezzo fa, figuriamoci ora – son
robe che potevano venire in mente, a lui o a chiunque altro, solo ai
tempi in cui si girava Il Caimano, che è del 2006 – e
tuttavia lo scarto implica una presa d’atto che va ben oltre il
rovinoso calo di consenso che ha accusato in questi nove anni: oggi
sa che lo zoccolo duro è assai meno duro di quanto lui o chiunque
altro immaginasse. Forse non ha mai avuto la durezza che potesse
assicurare una reazione violenta a un suo arresto, ma prima era
possibile un bluff, oggi non più. Ulteriore conferma, se mai ce ne
fosse stato bisogno, che la fidelizzazione non è il nocciolo del
consenso, ma la sua buccia.
venerdì 17 luglio 2015
giovedì 16 luglio 2015
Passo
A
me piace schierarmi, anche quando per farlo è necessario quel
pizzico di disonestà intellettuale indispensabile all’esercizio anche della più blanda
faziosità. Beh, nel caso Crocetta non riesco proprio a farlo. Mi sta sul
cazzo lui, mi stanno sul cazzo le vedove e le orfane degli eroi che
scendono in politica sfruttando il proprio cognome, mi sta sul cazzo
chi cerca di sfruttare il contenuto di intercettazioni telefoniche
dal contenuto penalmente irrilevante per far cadere un amministratore della cosa pubblica che non riesce a far cadere in altro modo, mi sta sul cazzo chi passa
a un giornalista degli atti secretati, mi sta sul cazzo il
giornalista che li pubblica, mi sta sul cazzo il politico che dalla
caduta di Crocetta si attende possa venir fuori l’occasione
perché il suo boss lo metta a sminestrare al posto lasciato vacante, mi sta sul
cazzo chi inserisce il pilota automatico della sua indignazione per andare inevitabilmente a sbattere col muso contro la morale, mi
sta sul cazzo la macchietta del garantista che scatta per riflesso pavloviano a prendere le
difese di Tutino. Per questa volta, dunque, rinuncio a schierarmi,
perché, anche volendo, non saprei proprio con chi solidarizzare.
mercoledì 15 luglio 2015
[...]
Ad
ogni strofa che maledice l’Europa-così-com’è segue il
ritornello che non-è-quella-del-Manifesto-di-Ventotene, ma fra
quelli che cantano ’sta canzone – me lo chiedevo sentendola
cantare pure da Renzi – vorrei sapere quanti l’hanno veramente
letto.
Piluccando: «La rivoluzione europea, per rispondere alle
nostre esigenze, dovrà essere socialista... Le caratteristiche che
hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di
successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi
privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi
rivoluzionaria in senso egalitario... Pensiamo ad una riforma agraria
che passi la terra a chi la coltiva... Il concordato con cui in
Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà
senz’altro abolito...».
martedì 14 luglio 2015
Fra parentesi
Non
sembrerà, ma io sono assai sensibile alle critiche che mi muovono i
miei lettori, e proprio oggi uno di loro mi ha rimproverato il «grave
errore»
di usare, per l’«azione
politica di una nazione»,
lo stesso metro di giudizio che potrebbe anche essere legittimo per
l’«azione
di un individuo»
nell’affermare
che «nel
momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per
onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame».
Anzi, fatemi dir meglio: il metro di giudizio che sostiene la mia
affermazione sarebbe senza dubbio errato nell’analisi
dell’«azione
politica di una nazione»,
ma non è detto che non lo sia pure nel caso di un individuo che
contragga un debito infischiandosene della possibilità di onorarlo,
e dico questo perché sul punto il lettore in questione mi è
sembrato vago, limitandosi a definire il mio giudizio come operante
attraverso gli «strumenti
dell’etica»,
termine che occorre maneggiare con cautela perché assai pericoloso,
e che infatti io cerco di evitare anche quando il contesto basterebbe
a dargli il significato che vorrei gli fosse dato da chi mi legge, e
chi mi legge da qualche tempo non dovrebbe ignorare che per me il
«bene» a fondamento del discorso etico equivale a quell’«utile
per il maggior numero di individui» che dovrebbe far coincidere la
regola morale alla norma giuridica. In tal senso, sì, non ho fatica
ad ammettere che l’«utile per il maggior numero di individui» sta
nel fatto che ciascun individuo si assuma fino in fondo la
responsabilità delle proprie azioni, per potersene dichiarare
pienamente libero.
Ora, a me pare che la propria libertà non possa che consistere nel muoversi entro i limiti posti dalla libertà altrui, e che questi
limiti debbano necessariamente essere concordati nella sede di un
contratto sociale, nazionale o sovranazionale, che può anche essere violato, a patto di saperne
subire le conseguenze, e senza avere alcun diritto di lamentarsene. Sarà per questo che, pur riuscendo a cogliere
la differenza che corre tra un popolo e un individuo, presumo che
entrambi siano tenuti ad essere responsabili delle proprie azioni?
Certo, la differenza che corre tra un popolo e un individuo non mi
impedisce di constatare che, per le scelte fatte da un governo, la
responsabilità di un popolo che lo ha espresso sia solo indiretta,
ma in fin dei conti non rimane tutta sua? Nel caso dei greci, è fuor
di dubbio che il debito pubblico sia stato cumulato per le politiche
di governi democraticamente eletti da un popolo che non è stato in
grado di ponderarne a sufficienza le conseguenze.
Bene, il governo
in carica non avrà le responsabilità di quelli che l’hanno
preceduto, questo è perfino ovvio, ma il popolo greco è sempre quello, e non può pretendere
che le conseguenze di scelte errate in precedenza siano emendate in
virtù di un cambio di governo. Del debito che la Grecia ha cumulato
può darsi non abbiano goduto in modo equo tutti greci, su questo non
c’è dubbio, ma è di tutti i greci la responsabilità che questo
sia accaduto, e questo mi pare che destini al solo dibattito interno
l’analisi del come e del perché sia potuto accadere. Non è detto
che da questa analisi possa necessariamente maturare un senso di
responsabilità che riesca a farsi carico di ciò che il passato
chiede all’oggi, ma può darsi aiuti finalmente a capire che
dall’oggi dipende il domani.
Hanno solo lo yogurt?
Restano
dubbi su Tsipras? A me pare che dopo la dichiarazione ufficiale da
lui rilasciata al termine dell’eurosummit del 12 luglio – la
riporta il
manifesto,
oggi, e qui vale la pena di analizzarla in dettaglio – non ne
restino neppure per chi ha commesso la leggerezza di considerarlo, se
non un rivoluzionario, uno tosto, uno con le palle, uno capace di
mettere l’Europa con le spalle al muro, costringendola ad accettare
una ristrutturazione del debito, se non un suo drastico taglio, che
consentisse alla Grecia di riprender fiato dalla morsa delle misure
alle quali era stata sottoposta dai governi precedenti, sennò
fanculo all’euro, fanculo all’Europa, e che i burocrati
dell’Eurozona se la sbrigassero a far fronte alle conseguenze di
una Grexit, che a chiacchiere poteva essere una liberazione, ma
poteva pure rivelarsi un buco nero in cui sarebbero finite prima o
poi il Portogallo, la Spagna, l’Italia e tutto il resto. Macché,
neanche capace di un ricatto che, se andava fatto, doveva essere
fatale: un demagogo da quattro soldi, uno buono solo a infinocchiare
qualche fessacchiotto dei nostri.
In realtà, almeno per quanto mi
riguarda, non restavano dubbi già al momento in cui ha deciso di
indire un referendum che non era difficile intuire si sarebbe
rivelato inutile e dannoso proprio se il risultato fosse stato quello
cui sembrava mirasse, anche se poteva non essere così balzana
l’ipotesi che mirasse a perderlo, per potersi dimettere,
risparmiarsi la figura di merda che oggi lo inscrive nella galleria dei
più patetici bluffer di ogni tempo, tornare a fare l’opposizione, che in fondo è
la più bella delle occupazioni per chi non sa governare, se vuole
scansare ogni altro lavoro di un comune mortale.
«Abbiamo
lottato duramente per sei mesi, fino alla fine», ha detto questo
stronzo cagato a forza, e c’è da supporre non sia nemmeno risparmiato uno di quei sorrisi da piacione coi quali ha mandato in sollucchero la climaterica sinistra di mezza Europa. «Abbiamo lottato duramente per ottenere il miglior risultato
possibile, un accordo che consentirà alla Grecia di rimettersi in
piedi e al popolo greco di essere in grado di continuare a
combattere». La pressoché unanime opinione è che sia stato
costretto ad accettare tutto quello che gli hanno imposto, fatta
eccezione per il contentino di avere i controllori in casa, che già
è cosa umiliante, piuttosto che dover portare i registri di cassa a
Bruxelles. Ancorché unanime, tuttavia, l’opinione che abbia dovuto
cedere su tutto può anche essere fallace. E allora c’è da chiedersi
cosa ci abbia davvero guadagnato, la Grecia. Oggettivamente, nulla. Per
meglio dire, è solo Tsipras che ci guadagna il mantenere la guida
del governo, ma solo a patto di rimpiazzare in Parlamento chi gli
toglierà la fiducia con chi al referendum si è espresso per il sì,
il che neanche è sicuro, sicché sarà più comico che tragico dover
vedere la caduta del suo governo non per un «golpe post-moderno»
deciso a Berlino, ma per una resa di conti tutta interna a Syriza,
mentre in piazza i delusi ne bruciano le bandiere. Perfino il fatuo
Varoufakis finisce per ricavare un’inimmaginabile aura di serietà
gridando al tradimento.
Ma Tsipras, come tutti demagoghi, ha una
faccia a prova di schiaffi: «Abbiamo affrontato decisioni difficili
e difficili dilemmi. Ci siamo assunti la responsabilità di una
decisione per evitare l’attuazione degli obiettivi più estremi
portati avanti dalle forze conservatrici più estreme dell’Unione
europea». Come chi, dopo aver subìto uno stupro, vanti di aver
ridotto lo stupratore a un poveraccio col cazzo moscio.
«Questo
accordo prevede misure severe. Tuttavia, abbiamo impedito il
trasferimento di proprietà pubbliche all’estero, abbiamo impedito
l’asfissia finanziaria e il crollo del sistema finanziario - che
erano già stati pianificati nei minimi dettagli e alla perfezione -
che erano in corso di attuazione. Infine, in questa battaglia dura,
siamo riusciti a ottenere la ristrutturazione del debito e un
processo di finanziamento a medio termine. Eravamo consapevoli che
non sarebbe stato un compito facile, ma abbiamo creato un patrimonio
molto importante. Un lascito importante, e un cambiamento tanto
necessario per tutta l’Europa. La Grecia continuerà a combattere,
noi continueremo a combattere, in modo da poter tornare a crescere, a
recuperare la nostra sovranità nazionale persa. Abbiamo guadagnato
la nostra sovranità. Abbiamo inviato un messaggio di democrazia, un
messaggio di dignità, in Europa e nel mondo. Questa è l’eredità
più importante di questi giorni». Tutto sta, adesso, nel cercare di
convincere i greci che si è trattato proprio di questa strabiliante
vittoria. Non ci riuscisse, pazienza. Però ai greci sarebbe data
un’occasione irripetibile per mostrare all’Europa intera che, a
dispetto dell’odiosa vulgata che li dipinge come italiani appena un
po’ più scemi, sono un popolo serio. Hanno solo lo yogurt? Una
volta tanto ci affogassero dentro un premier.
[...]
Il
quesito posto ai greci col referendum del 5 luglio era il seguente:
«Deve
essere accettato il progetto
di
accordo presentato da Commissione
europea,
Bce e Fmi
nell’Eurogruppo
del
25 giugno 2015, composto da due parti che costituiscono la loro
proposta?».
Dobbiamo dare per scontato che chi si è recato alle urne abbia letto
i due documenti che costituivano il progetto di accordo? Ne avrà
avuto il tempo, visto che il referendum è stato indetto solo pochi
giorni prima del voto? In altri termini, i greci sapevano con
esattezza a cosa stessero dicendo sì o no? Non lo sapremo mai,
ovviamente, ma un’idea
possiamo ricavarla a posteriori, per la delusione che accompagna chi
in Grecia e fuori dalla Grecia voleva vincesse il no. Se, infatti,
l’accordo
che Tsipras ha sottoscritto ieri è meno pesante di quello che ha
rifiutato il 25 giugno, la
delusione avrebbe senso solo a ipotizzare che chi è stato
soddisfatto dell’esito
del referendum non fosse a conoscenza di cosa fosse scritto in quei
due documenti. C’è
da chiedersi, dunque, a cosa abbia detto no. Per meglio dire, c’è
da chiedersi a cosa gli sia stato fatto credere dicesse no, e poi se
il farglielo credere sia stato intenzionale o meno.
Per risolvere la
questione non c’è
che da riandare ai giorni che hanno preceduto il referendum per
rileggere le dichiarazioni di chi parteggiava per il no.
Rileggendole, si capisce il perché della delusione: nulla di ciò
che avrebbe dovuto far forti le ragioni della Grecia con la vittoria
del no ha trovato modo di realizzarsi nel modo che si riteneva
dovesse esser ovvio. Si dirà che è proprio la vittoria del no ad
aver irrigidito l’Eurogruppo
del 12 luglio nella richiesta di condizioni che sono in tanti, fra
quanti parteggiavano per il no, a ritenere pesanti almeno quanto
quelle del 25 giugno. Bene, non era prevedibile? Voglio dire: chi ha
deciso di indire il referendum non doveva mettere in conto questa
reazione?
Si badi bene: qui non ho alcuna intenzione di dare un
giudizio di merito sull’intera vicenda, voglio limitarmi a
considerare perché sia stato indetto il referendum, quale
significato avesse realmente e quale invece gli si è voluto dare, e
quali risultati pratici abbia avuto. Se mi astengo dall’esprimere
la mia opinione sull’intera vicenda, è per una ragione
estremamente semplice: non le do molto peso, perché è della stessa
natura che ha spinto tanti a parteggiare per il no, ma di segno
diametralmente opposto. Io, ad esempio, ritengo che nel momento di
contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si
debba essere disposti anche a morire di fame. Poi ritengo che, nel
momento di entrare a far parte di una comunità che si è data alcune
regole, quelle regole vadano rispettate, sennò si possa trarre la
sola conclusione di non farne più parte. Più in generale, ritengo
che la Grecia non avrebbe mai dovuto entrare nell’Eurozona o
uscirne già da tempo. Per parametri che avrebbero imposto analoghe
misure anche per altri paesi? Non mi interessa, d’altronde qui
stiamo parlando della Grecia, ma in ogni caso, sì, sarebbe stato
meglio se analoghe misure si fossero prese anche per altri paesi, se
avessero posto gli stessi problemi posti dalla Grecia. Di fatto,
almeno fino ad ora, questi problemi si sono posti solo per la Grecia,
e a mio modesto avviso questo doveva bastare a dichiararla fuori
dall’Eurozona. Sarebbe stato un problema anche per i paesi che ne
fanno parte? Peggio per loro, se non in grado di far fronte ad una
decisione che era imposta dalle regole che si erano dati.
Come
vedete, si tratta di ragioni che non tengono in alcun conto la logica
che guida verso il compromesso per motivi di opportunità. Insomma,
sono le ragioni di uno che non può pretendere di avere alcuna voce
in capitolo nella costruzione di un’Europa come quella che abbiamo.
Ecco, credo che sarebbe bello se allo stesso modo la pensassero anche
quelli che ritengono impensabile una Grecia fuori dall’Europa o una
Grecia in default, e pensano che questo debba essere evitato ad ogni
costo, anche a fronte delle resistenze della Grecia ad uniformarsi
alle richieste che le vengono dagli organismi che a torto o a ragione
sono deputati a dettare una linea comune: sarebbe bello se anche loro
ammettessero di non poter pretendere di avere voce in capitolo, e si
limitassero a considerare le questioni di metodo. Su queste,
soprattutto per come si sono messe le cose, credo si possa
concordare: Tsipras ha ingannato il suo popolo, il referendum si è
dimostrato ancora una volta uno strumento inutile e dannoso.
Giorni,
settimane, mesi a parlare della Grecia come culla della democrazia,
dimenticando che nella stessa culla vi è cresciuta pure la
demagogia.
lunedì 13 luglio 2015
[...]
«Se
sento ancora qualcuno dire che
il
referendum di domenica non è servito a niente,
metto
le mani alla pistola»
Gilio’,
quando hai finito le munizioni, mi faresti il piacere di spiegarmi a
cosa è servito il referendum greco?
sabato 11 luglio 2015
venerdì 10 luglio 2015
[...]
Parlo
a quei due o tre che mi hanno rimproverato di aver scritto
che lo strumento referendario è quasi sempre inutile o dannoso,
sennò inutile e dannoso. Ecco qui un ottimo esempio ad illustrare il
paradigma: la democrazia diretta è detta così perché c’è sempre
qualcuno a dirigerla, e quasi sempre in culo a chi ci crede.
[...]
In
Platone è «pseudoargomento
filosofico»,
ma non ha ancora la specifica connotazione di categoria retorica che
in Aristotele troverà la specie del «sillogismo
eristico»
e il modo della «ignoratio
elenchi» (αγνοια
ελεγχου),
che poi sarebbe l’errore del presumere di confutare un’affermazione
senza avere «esatta
conoscenza dei motivi, materiali o formali, che possano determinare
tale confutazione» (Guido
Calogero, Storia
della logica antica).
Parlo di quello che è più comunemente conosciuto come «ragionamento
a cazzo di cane»,
di cui abbiamo avuto in questi giorni un saggio nello pseudoargomento di chi contesta la
condanna in primo grado che Silvio Berlusconi aggiunge alla sua
collezione, perché
«tanto andrà tutto in prescrizione»,
con ciò intendendo suggerire (ma in taluni casi arrivando ad
affermarlo esplicitamente) che il processo neanche andasse celebrato,
e che quindi, se s’è
celebrato, l’accusa
non voleva far giustizia, ma solo molestare un povero cristo.
È qui
che la definizione di «ragionamento
a cazzo di cane»
rivela quanto sia impropria. Se, infatti, un argomento può darsi in
paragone a un cazzo, quello del cane non rappresenta in modo congruo
questo pseudoargomento: più appropriata l’immagine
del pene umano affetto da induratio
penis plastica
(morbo di La Peyronie). Giacché «tanto
andrà tutto in prescrizione»,
il magistrato avrebbe dovuto archiviare? Non arrivano a dirlo perché sanno bene che non sarebbe stato possibile, dunque è il caso di illustrare i
motivi materiali e formali che in questo caso rendono risibile la
contestazione quanto la pretesa di mandare la pallina in rete per finire a pisciarsi sui piedi?
giovedì 9 luglio 2015
Cazzabubboli rozzi e cazzabubboli sofisticati
Quanti
parlamentari sono passati dal centrodestra al centrosinistra? Tutti
corrotti come De Gregorio? E poi il governo Prodi è caduto per la
campagna acquisti che Berlusconi avrebbe promosso al Senato? Non è
caduto perché gli venne meno l’appoggio
di Mastella?
Più o meno a questo si riducono gli argomenti dei
berlusconiani all’indomani della
condanna di Berlusconi, come se l’articolo
del Codice Penale che ci dice cos’è corruzione non avesse al centro
quella «retribuzione non dovuta»
che in questo caso l’accusa è
riuscita a dimostrare esserci stata: in questione non era il cambio
di casacca, né il fine che si intendeva raggiungere col promuoverlo,
tanto meno poi se il mezzo si sia rivelato efficace, ma il fatto che
sia intercorso un «contratto illecito» tra soggetti che in esso si
son fatti corrotto e corruttore.
Niente di nuovo, sia chiaro. Ogni
volta che Berlusconi è raggiunto dalle conseguenze delle sue
disinvolture – chiamiamole così, va’ – i rozzi cazzabubboli
che per contratto gli reggono l’ormai logoro strascico da reuccio di operetta sono capaci
delle più inverosimili piroette logiche. Quello che in questa occasione, invece, risulta notevole è lo spuntare, qua e là, di
cazzabubboli un po’ più sofisticati, che per quel malsano
esercizio di mettersi in posa da personcine libere dal pregiudizio antiberlusconiano – preferisco non fare nomi – sfidano il buonsenso, prima che il diritto, sostenendo che
addirittura non sia ipotizzabile il reato di corruzione per chi, da parlamentare, sia costituzionalmente sciolto da vincolo di mandato. In
sostanza, un eletto potrebbe fare ciò che vuole del proprio voto.
E grazie al cazzo, diciamo loro, ma non può venderlo. Perché è suo
solo finché è gratis, o almeno riesce a dimostrarlo tale. Per
meglio dire: finché non è dimostrabile il contrario, come è
accaduto nel caso in questione.
De Gregorio ha dichiarato, dando
prova di quanto dichiarava, che per togliere il suo voto al
centrosinistra, e darlo al centrodestra, ha percepito un bel pacco di
milioni di euro, e da Berlusconi. Sbraitassero pure, i suoi servi,
ormai siamo abituati a sentirne il coro che lamenta di persecuzioni
giudiziarie e di sentenze politiche. Ma i garantisti un tanto
all’etto, per piacere, avessero il buon gusto di star zitti.
martedì 7 luglio 2015
Corrispondenze (Tutto è ormai già perso)
Dove
ho mai scritto che «i
greci sono un popolo di fannulloni»?
Dove ho mai scritto che «per
anni e anni hanno scialacquato allegramente a spese dell’Europa»?
Ho riletto gli unici due post che ho dedicato alla questione greca,
caro ***, e non ho trovato traccia di affermazioni simili, né mi
pare di aver insinuato nulla del genere: in uno mi sono limitato a
dire che la Grecia d’oggi
non c’entra
niente con la
Grecia antica,
il cui lascito è ormai da secoli patrimonio dell’intera
umanità, sicché è ridicolo pretendere che possa pareggiare o anche
soltanto alleggerire i debiti che la Grecia ha cumulato negli ultimi
decenni nei confronti di mezzo mondo; nell’altro
ho posto l’attenzione
su ciò che fa del referendum uno strumento inutile o dannoso,
cercando di dimostrare perché quello voluto da Tsipras non risolva
nulla, ed anzi possa rivelarsi addirittura pericoloso, innanzitutto
per la Grecia, ma anche per l’Europa.
In realtà, alla questione
greca ho dedicato anche un terzo post, ma si trattava solo del
copia-incolla di un’intervista concessa a Libero
da Antonio Martino: la facevo precedere da una rapida nota con la
quale dichiaravo di far mia la sua opinione
(«Se
la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli
diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una
perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi
di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno
fatto l’investimento sbagliato»).
Ecco, rileggendo quest’intervista,
trovo un’affermazione
dalla quale, forse, avrei fatto meglio a dissociarmi: «I
greci sono abituati a vivere a spese degli altri».
Ti riferisci a quest’affermazione
nell’attribuirmi
frasi che comunque non sono mai uscite dalla mia penna? Allora, sì,
ti devo una spiegazione, e ovviamente non sono autorizzato a chiarire
il senso che Antonio Martino voleva dare a quella frase, ma penso di
poter dire che anche lui, come me che ho sottoscritto quella frase,
non intendeva
generalizzare. Voglio dire che gli stereotipi sono sempre da
rigettare quando si parla di realtà complesse come un’intera
nazione, e aggiungerei che questo è tanto più sentito da un
liberale, che in una nazione non perde di vista la varietà degli
individui che la compongono, vedendoli accomunati da una storia, non
da un carattere. «I
greci sono abituati a vivere a spese degli altri»,
dunque, sarà un’affermazione
che si presta ad essere fraintesa – convengo – ma che trova
ragione nell’assunzione
di un dato inoppugnabile: i governi greci hanno amministrato la cosa
pubblica in modo irresponsabile, facendo affidamento – un folle
affidamento – sull’inesauribilità
delle risorse che derivavano dall’emissione
di titoli di stato. La Grecia, in sostanza, ha pensato di poter
vivere facendo debiti il cui pagamento potesse essere rinviato
all’infinito.
La cosa assurda è che pensa di poterlo fare ancora, rifiutandosi di
metter mano ad un riassetto del sistema che l’ha
portata al fallimento.
Un sistema, bada bene, che è la vera causa
dell’impoverimento
di tanti greci, a dispetto di chi blatera che sia Germania ad
affamarli. Mentre l’economia
greca aveva un tasso di crescita del 4% – parlo del periodo tra il
1998 e il 2007, prima che la crisi economica si abbattesse sugli
Stati Uniti e da lì all’Europa
– la spesa sociale ammontava a meno della metà di quanto
ammontasse in Germania. Certo, si tratta di un’odiosa
vulgata che i greci siano dei fannulloni, e infatti sono al primo
posto in Europa per ore
annue di lavoro pro capite, sta di fatto che si sono dati dei governi
che hanno continuato a concedere esenzioni fiscali ad armatori,
grandi
proprietari terrieri e Chiesa ortodossa. Prendi quest’ultimo
caso: la
Chiesa ortodossa è il più grande proprietario terriero del paese,
possiede catene alberghiere, centri turistici, proprietà
immobiliari, aziende nei più svariati settori, e non ha mai pagato
una dracma di tasse, né un euro, grazie ad un articolo della
Costituzione del 1975, un articolo che neppure la nuova classe
dirigente del paese riesce ad emendare, alla faccia del
marxismo-leninismo che li ispira. Si calcola che negli ultimi dieci
anni siano quasi 600 i miliardi di euro che dalla Grecia siano stati
trasferiti all’estero:
passi che i governi di destra chiudessero un occhio, ma ’sti
benedetti bolscevichi di Syriza, invece di andare col cappello in
mano a chiedere la carità in Europa, cosa aspettano a nazionalizzare
tutto?
Ok, stavo scaldandomi, ora mi calmo. Vedi, caro ***, non c’era
bisogno che la Grecia danzasse sull’orlo del default per capire che
l’Europa
non va assolutamente bene così com’è,
ma, se doveva essere la Grecia a farlo capire a chi ancora non l’ha
capito, non c’era
altro modo? I greci sono stati fottuti per l’ennesima
volta, e stavolta da un cazzaro, uno che è della stessa pasta di
Renzi, solo un poco più disperato, perché davvero ha poco da
perdere, perché tutto è ormai già perso.
lunedì 6 luglio 2015
Un Oxi che non vuol dire niente
Giusto
due anni fa intrattenevo il mio lettore sulle ragioni che mi avevano
portato a rivedere la mia posizione sull’istituto
referendario, arrivando a definirlo inutile o dannoso. Non starò qui
a ripetermi, dirò solo che la mia riflessione era partita dagli
articoli che Arturo Labriola dedicò a questo strumento di democrazia
diretta, su Critica Sociale,
nel 1897, per poi passare all’analisi
di ciò che l’istituto
referendario ha significato in Italia, ma al netto di tutta la
retorica che ne ha magnificato i risultati, com’è
evidente soprattutto per quello sul divorzio del 1974 e per quello
sull’aborto
del 1981, che in fondo non servirono ad altro che a confermare due
leggi approvate da un parlamento di eletti. Chi ne ha voglia potrà
riandare a quei post per prendere atto che la critica all’istituto
referendario veniva a trarre ulteriore motivo dalla natura
inevitabilmente ambigua che assume un quesito quando sia posto come
variabile indipendente dal contesto generale nel quale trovi modo di
essere formulato come chiave di un cambiamento che si ritenga
possibile in virtù del mero desiderio di realizzarlo, perché non
c’è
mai stato velleitarismo che alla lunga non abbia mostrato i propri
limiti nel trascurare le resistenze al cambiamento.
Inutile o
dannoso, il referendum, perché strumento che si rivela quasi sempre
essenzialmente inefficace a opporre la volontà degli elettori a
quella dei propri governanti, quando queste confliggano, o
addirittura facilmente utilizzabile per coartare le forze che si
esprimono attraverso l’una ai
disegni che mirano a realizzare l’altra,
nelle forme di quella deriva plebiscitaria che quasi sempre ha per
fine l’asservimento
delle masse agli interessi di uno o di pochi, non importa se folli
avventurieri o freddi delinquenti. Ma direi di più: quand’anche
il referendum non riveli la sua
inutilità con l’irrilevanza sostanziale data a ciò che
formalmente ha espresso come volontà popolare, resta il problema che non possa far tabula rasa delle conseguenze che il passato ha sul presente. Un referendum può trasformare una monarchia in repubblica, ma questo, di per se stesso, non trasforma un tracollo bellico in vittoria militare.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che d’altronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso dell’euro in Grecia, ma l’intenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come d’altronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che l’Europa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è l’Europa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per l’assenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che d’altronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso dell’euro in Grecia, ma l’intenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come d’altronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che l’Europa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è l’Europa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per l’assenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
È chiaro, poi, che si possa
chiedere di rinegoziare gli impegni presi, ma pretendere che questi
vengano rinegoziati nei modi voluti, e senza che la controparte batta
ciglio, in virtù poi del fatto che un referendum abbia solo
aleatoriamente dichiarati nulli quegli impegni, prima assunti con
evidente leggerezza, non dice nulla riguardo al fatto che chi è
investito della responsabilità di rappresentare il proprio paese lo
inganni al punto da rappresentarne anche l’inaffidabilità
rispetto agli impegni presi? La Grecia è libera di uscire dalla
Comunità europea, è libera di tornare alla dracma, è libera
perfino di non pagare i propri debiti, e ovviamente è libera di
diventare uno stato socialista, però deve assumersene tutti gli
oneri e le conseguenze. Non può pretendere di farlo solo a parole,
per giunta con un Oxi che non vuol dire niente. Perché una cosa deve
esser chiara, al netto del tanto rumore che ha preceduto questo
referendum, e la cui eco ancora sarà udibile per qualche settimana:
la Grecia è nella stessa situazione in cui era prima, e di certo non
è più forte, anche se ieri sera si è illusa d’esserlo.
Meditazioni trascendentali / 1
Adesso
è facile capire la differenza che c’era
tra i due, ma nel 1972 tutti pensavano che Alan Sorrenti fosse una
specie di Demetrios Stratos, è che i gargarismi in falsetto del
primo sembravano apparentati alle diplofonie e alle trifonie del
secondo, colpa del cerume che da un po’
intasava l’italico orecchio
medio (e qui «medio» ha il suo bravo doppio senso). Non ci fu bisogno
di aspettare molto per capire che appartenevano a due razze diverse,
perché Alan Sorrenti passò
quasi subito dalla progressive alla disco e Demetrios Stratos morì.
Non fosse morto, poteva passare dall’overtone
a un qualche inutile trallallèro, chi può dirlo? Sicché laudato
si’,
mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu
homo vivente po’
scappare, salvo scoraggiarla, mostrandosi al naturale.
domenica 5 luglio 2015
[...]
Un
lettore mi ha chiesto: «Perché
lei evita sempre di entrare nel merito delle questioni economiche?».
Alla domanda ho risposto in modo elusivo: «Perché
implicano una dichiarazione di fede».
Me ne sono subito pentito, ma ho rimosso. Poi mi è capitata sotto
gli occhi l’intervista
che Antonio Martino ha concesso a Sandro Iacometti (Libero,
3.7.2015) e mi ci sono specchiato di quel tanto che qui mi consente
di riparare, riproducendola.
Professor
Antonio Martino, perché siamo arrivati a questa situazione con la
Grecia, di chi è la colpa?
«La
responsabilità fondamentale è dell’Europa. Dagli alti ideali del
processo di unificazione economica, partito proprio in Italia grazie
anche a mio padre, del cui lavoro sono molto orgoglioso, si è
passati ad un meccanismo con cui redistribuire reddito da un Paese
all’altro. Fuori dai denti, per dare fregature ad alcuni Stati e
vantaggi ad altri».
Ma
ora come si risolve?
«La
parola spread è inglese,ma non ho mai sentito un americano che si
preoccupasse dello spread fra il tasso di interesse californiano e
quello texano.
Perché
a uno è mai venuto in mente che se la California non riesce a
collocare i titoli di Stato i texani li debbano comprare. La
California fallisce e quelli che hanno i titoli se ne fanno una
ragione».
Quindi
la Grecia dovrebbe fallire?
«Quello
che vale per il governo federale americano da oltre due secoli perché
non dovrebbe valere per l’Europa? Se la Grecia non può onorare i
suoi debiti deve fallire, i titoli diventano carta straccia e quelli
che li hanno comprati subiscono una perdita in conto capitale, del
resto hanno lucrato sugli alti tassi di interesse per molto tempo.
Vuol dire che gli è andata male, hanno fatto l’investimento
sbagliato».
Però
ci sono gli aiuti pubblici da restituire...
«E’
stato sbagliato, insensato e demenziale darglieli. Si rende conto che
i protagonisti di questo psicodramma sono tre persone che nessuno ha
eletto, una delle quali è a capo di una istituzione che avrebbe
dovuto essere abolita nel 1967? La signora Lagarde del Fondo
monetario internazionale non ha ragione di mettere bocca. L’Fmi è
stato creato nel 1944 a Bretton Woods con lo scopo di finanziare i
Paesi in deficit per evitare che svalutassero la loro moneta. Quando
nel 1967 venne sciolto il Consorzio dell’oro e la convertibilità
dei dollari in oro smise di essere pensabile, il Fondo avrebbe dovuto
essere abolito. Invece fu mantenuto in vita, malgrado non serva
assolutamente a niente tranne che a distribuire laute prebende a
quelli che ci lavorano».
E
i soldi che ha messo l’Italia, che fine fanno?
«Non
dobbiamo più dare un euro a nessuno».
Ma
quelli già dati?
«Niente,
quelli sono persi».
Se
la Grecia fallisce non rischia di saltare anche l’euro?
«Luigi
Einaudi riteneva che la moneta unica avrebbe impedito agli Stati di
pagare le spese pubbliche facendo stampare denaro alle banche
centrali e dando vita alla più iniqua di tutte le imposte che è
l’inflazione. Ma quell’idea è stata tradita, perché quello che
sta facendo Mario Draghi con il QE altro non è che monetizzare il
debito degli Stati membri, una cosa non prevista dai trattati».
Molti
sostengono che se non ci fosse stata la Bce andava tutto all’aria...
«Molti
sbagliano. Il QE produrrà i suoi effetti tra un anno e mezzo o due e
la sua utilità è ancora lungi dall’essere provata. Il lavoro
della Bce è stato superfluo e potenzialmente pericoloso perché
potrebbe far partire un processo inflazionistico difficile da
controllare».
Atene
avrà pure qualche responsabilità...
«I
Paesi europei devono capire che non si può avere contemporaneamente
sviluppo economico, alta spesa pubblica e pareggio di bilancio. I
greci inoltre sono abituati a vivere a spese degli altri, il problema
è che gli altri prima o poi finiscono».
giovedì 2 luglio 2015
Moria di gatti
I
Suor
Angelina, al secolo Genoveffa Poltronieri, era zoppa da sempre.
«Cumme me lassaje cummenzaje a truculia’», confessò un giorno
che era in vena di confidenze. Displasia dell’anca, probabilmente,
ma a settant’anni e più, tanti ne aveva ai tempi cui rivanno
queste memorie, con l’artrosi e l’osteoporosi che dovevano aver
fatto il resto, sarebbe stata impossibile una diagnosi certa. Aveva
sempre rifiutato una radiografia, disse, e da bambina era stata
convinta dai suoi ad accettare la cosa come la volontà di Dio, col
sollievo di sei centimetri di rialzo al tacco di una scarpa, che
davano al suo passo il ritmo di una duina: struscio di spazzola e
pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di
spazzola e pedale di cassa. Praticamente da sempre era il factotum
nella clinica in cui da una dozzina d’anni tenevo ambulatorio il
mercoledì e il sabato, e nella quale era riuscita a sistemare tre
nipoti, giardiniere, cuoco e barelliere, fatti venire dal paesino
incastrato su un cocuzzolo del Molisano nel quale era nata.
Era
lei a venirmi ad aprire, verso le sei del mattino, e la scena si
ripeteva sempre uguale: il trillo del campanello, l’inconfondibile
rumore dei suoi passi, le due mandate di chiavistello, la sua faccia
da topo, l’immancabile «venite, ché mo è asciuto ’o cafè».
Una chiavica di caffè, a onor del vero, ma per fumarci sopra la
seconda sigaretta della mattinata si poteva pure chiudere un occhio.
La
prima sigaretta della mattinata la fumavo in auto, una mezz’ora
dopo essermi mosso da casa. Per arrivare in clinica alle sei partivo
intorno alle cinque, passavo a prendere i giornali all’unica
edicola aperta a quell’ora in città e mi avviavo, controllando di
tanto in tanto nello specchietto retrovisore l’alba che mi seguiva
fino a superarmi.
Era
il momento più bello della giornata. Ormai conoscevo la strada così
bene che avrei potuto percorrerla ad occhi chiusi, ma i fari
dell’auto proiettavano una luce imperdibile sui costoni di tufo che
bordavano da un lato la carreggiata, di un ocra che trascolorava ad
ogni curva in suggestioni sempre diverse, talvolta davvero
sorprendenti.
Di
tanto in tanto incrociavo un camion carico di ortaggi o di legname,
qualche pazzo che si allenava per una gara di fondo e, data l’ora,
i cumuli di spazzatura che al ritorno non avrei visto più perché di
lì a poco rimossi dai netturbini. Al ritorno non c’era più
traccia neppure dei topi stecchiti dagli pneumatici delle auto che,
abbagliandoli nel bel mezzo del guado, li paralizzavano al centro
della carreggiata, lasciandoli lì, ridotti a oscene poltiglie dalle
forme a volta davvero assai bizzarre. Spettacoli da dare il
voltastomaco, comprensibile che la vita ridotta a carne scomposta
venga sottratta alla vista delle donne che vanno a far la spesa e dei
bambini che vanno a scuola, e così, premurosamente, accadeva. Tanto
più se si trattasse di un gatto o di un cane.
Quei
fagotti di viscere esplose sotto le ruote di un’auto mi
infliggevano ogni volta domande che non trovavano risposte. Cosa
poteva aver valso il rischio di attraversare la strada? Domanda
idiota, cui un’altra tentava una risposta: un topo è in grado di
concepire ciò che noi umani chiamiamo rischio? Ma pure questa mi
sembrava idiota, e un’altra domanda, in risposta a quella, non meno
idiota di quella, veniva a tentare invano una risposta: quella
inutile traccia di frenata era un segno di superiorità dell’uomo
sull’animale? Non sul piano dei riflessi, concludevo, ma senza aver
concluso niente. Tutte le questioni sollevate restavano aperte,
sicché passavo a un altro ordine di problemi. È più pena o
ribrezzo? E perché si tratta in ogni caso di un sentimento che
inesorabilmente è via via crescente all’aumentare della taglia
dell’animale ucciso?
Anche
queste erano domande che rimanevano senza risposta, ma il caffè di
suor Angelina le dissolveva, e senza che ne restasse traccia lungo la
giornata. Tornavano lungo la strada che mi riportava a casa, dopo il
lavoro, ma in altra forma. Ripensavo al cancro ovarico della
quindicenne, al seminoma testicolare del trentenne, al linfoma del
settantenne, e con dispetto facevo i conti con quella gerarchia
emotiva che mi dettava una palese disparità di pena da caso a caso.
E anche qui non sapevo se fosse giusto o no.
II
Intorno
alla fine di gennaio dell’anno in cui si svolsero i fatti che mi
accingo a narrare accadde qualcosa di inquietante: settimana dopo
settimana aumentava il numero dei gatti che trovavo morti sulla
strada che facevo. A pensarci bene, la cosa doveva essere cominciata
già negli ultimi mesi dell’anno che si era appena chiuso, ma ora
non c’era settimana che non ne contassi almeno quattro o cinque, e
il numero era destinato a crescere, perché nella sola seconda
settimana di aprile ne contai quattro il mercoledì e tre il sabato.
Non
era solo questo a darmi inquietudine. I corpi giacevano senza vita
lungo un tratto di strada relativamente ridotto, non più di quattro
o cinque chilometri, gli ultimi prima del mio arrivo, ma nell’area,
almeno quando vi passavo, non vi era alcun segno del movimento cui i
gatti avrebbero dovuto dar vita per dare in qualche modo spiegazione
di un così elevato numero di cadaverini: non un gatto vivo ai
margini della carreggiata, solo gatti morti. Era come se si dessero
appuntamento in gran numero in quella zona apposta per farsi mettere
sotto le ruote delle auto che passavano di lì, per poi sparire, e
darsi appuntamento la notte dopo.
Un
convegno suicidiario? Decine, forse centinaia di felini, per qualche
ora si affollavano lungo quei quattro o cinque chilometri di strada,
in attesa di un’auto, di un furgone, di un camion, per andare
spiaccicarvisi sotto? Per essere una strada così poco trafficata di
notte, la cosa sollevava molti dubbi, in primo luogo riguardo al
fatto che nessuno se ne fosse accorto. Di fatto, nessuno ne parlava.
Altri
dettagli rendevano il mistero ancora più inspiegabile. In primo
luogo, col crescere del loro numero, i gatti morti non giacevano più
in modo casuale sulla carreggiata, ma quasi esclusivamente sul suo
lato destro, a un metro o poco più dalla striscia gialla che la
delimitava. Poi, e qui la cosa dava davvero da pensare, non vi era
alcuna traccia di frenata degli pneumatici sull’asfalto. L’ipotesi
del convegno suicidiario perdeva peso, ma forse era più credibile
che qualcuno si fosse inventato un nuovo sport? Una combriccola di
automobilisti batteva quel tratto di strada per la loro notturna
caccia al gatto? Ipotesi ancor più balzana. Per cercare di capirne
qualcosa avrei dovuto dedicare del tempo alla faccenda, ma non potevo
permettermelo, sicché cercai di accantonarla, anche se ogni
mercoledì e ogni sabato tornava a pungolarmi.
Durò
poco, perché un sabato mattina mi si presentò davanti Angelo
D’Esposito, un omino sulla cinquantina, capo netturbino. Da qualche
tempo aveva una febbricola accompagnata da nausea, inappetenza,
dolore al fianco destro, un lieve ittero e perdita di peso.
L’ecografia chiarì che si trattava di un grosso ascesso,
presumibilmente amebico, che gli aveva mangiato quasi tutto il lobo
sinistro epatico. Accolse la diagnosi quasi sollevato, perché aveva
pensato si trattasse di molto peggio e, giacché era l’ultimo
paziente della giornata, ci trattenemmo un po’ a chiacchierare. E
così arrivai a chiedergli dei gatti.
«Com’è
che ne muoiono così tanti da queste parti?».
Fece
una smorfia come se si trattasse di una questione ormai archiviata
senza spiegazione.
«Non
me ne parli. Ne abbiamo discusso per settimane coi colleghi dei
comuni della zona e non siamo riusciti ad arrivare a niente. Nessuno
che sia riuscito a capire cosa accada, ma per i nostri uomini il
mercoledì e il sabato sono i giorni più faticosi. Perché non è
tanto la rimozione dei corpi, ma pulire l’asfalto è un lavoraccio
che richiede...».
«Come?
– lo interruppi – Li trovate solo il mercoledì e il sabato?».
«Non
se n’è accorto? Solo in quei
due giorni».
III
Tornando
a casa, cercai di mettere un po’ d’ordine ai pensieri che avevano
cominciato ad affollarsi attorno a quanto avevo appreso dal
D’Esposito.
E
dunque. Da alcuni mesi sempre più gatti morivano sotto le ruote
delle auto su un tratto di strada lungo sette o otto chilometri,
perché a quelli che percorrevo io – così mi aveva rivelato il
D’Esposito – se ne dovevano aggiungere almeno altri due,
proseguendo oltre, sui quali la cosa era fin lì stata in tutto
simile. I corpi venivano trovati quasi soltanto il mercoledì e il
sabato, era solo grazie a questa coincidenza coi giorni in cui avevo
ambulatorio in clinica che avevo potuto accorgermi della cosa. Chi
investiva i gatti non accennava neppure a un tentativo di frenata e
tuttavia non era evidente un chiaro intento di passarci sopra perché
la posizione in cui venivano trovati i corpi era compatibile con una
traiettoria dell’auto sulla carreggiata del tutto ordinaria, sicché
la cosa risultava due volte inspiegabile, sia a voler ipotizzare una
caccia al gatto, sia a pensare che si trattasse di un suicidio di
massa. La cosa, poi. Continuavo a dire «la cosa», ed era solo per
negare a me stesso che fosse diventata una vera e propria ossessione.
Cominciavo a sognare gatti morti, e risparmio a queste pagine i
dettagli. Risolsi che avrei dovuto interessarmi alla faccenda.
Quasi
avesse intuito, il D’Esposito mi lasciò in clinica un plico con
una relazione dettagliata su quanto aveva registrato negli ultimi
mesi, corredata perfino da alcuni grafici, da alcune foto, da
fotocopie di circolari, di esposti alle autorità competenti: dal
dicembre dell’anno precedente al luglio corrente, centoundici gatti
morti trovati il mercoledì e il sabato, a fronte dei soli quattro
trovati negli altri giorni della settimana; conferma dell’uniformità
dei dati relativi alla posizione dei corpi sulla carreggiata, quasi
tutti giacenti sul suo margine destro, col loro asse maggiore
perpendicolare a quello della corsa degli pneumatici; dato che mi
sorprese, perché fin lì non ero stato in grado di rilevarlo,
uniforme era anche il tipo di lesione che aveva causato tutte quelle
morti, quasi sempre a carico del solo cranio, tutt’al più del
cranio e del torace; a ulteriore e maggiore sorpresa, la concorde
strafottenza alle segnalazioni che il D’Esposito aveva inviato alle
forze dell’ordine, agli uffici comunali, alla locale società
protettrice degli animali, ecc.
Il
plico era accompagnato da una lettera:
«Caro
dottore,
le
scrivo da Brescia, dove sono arrivato la settimana scorsa, perché
non mi fidavo delle cure che avrei potuto aspettarmi rimanendo a
casa. Qui il primario mi prega di farle i complimenti per la
diagnosi: dice che non era facile pensare che si trattasse proprio di
un ascesso amebico, e infatti prima di crederci mi hanno fatto una
tac e un sacco di altre analisi. Ora sono in terapia e ogni tre
giorni mi fanno un’ecografia di controllo. Pare che l’ascesso
vada regredendo, adesso è di quarantadue millimetri, e comunque la
febbre va sparendo. Insomma, se Dio vuole, tra due o tre settimane
dovrebbero dimettermi, almeno così dicono.
Come
ha visto, le ho lasciato un po’ di materiale relativo alla
questione di cui discutemmo. All’inizio ci stavo perdendo la testa
e mi ero fatto delle idee assai strane che comunque abbandonai subito
perché tiravano in ballo persone che non riuscivo neanche a
immaginare capaci del fatto. Ho pensato che sia meglio se ne
interessi lei, se ne ha voglia e se riuscirà a trovare tempo, ma
l’impressione che la faccenda nasconda qualcosa di grosso non mi è
mai passata, quindi avrei piacere se al mio ritorno mi facesse sapere
cosa è riuscito a capire, visto che qui mi dicono che avrò bisogno
di un’ecografia ogni tre mesi per almeno un anno. Dicono che si
tratta di ascessi che possono dare recidiva e qui mi consenta, con
rispetto parlando, una scaramantica grattata di palle.
A
presto, suo
Angelo
D’Esposito
P.S.:
Pensa che quello che mi è accaduto possa avere qualche relazione col
mio lavoro? Crede possa esserci possibilità di iniziare una pratica
per il pensionamento anticipato da malattia professionale?».
Cosa
intendeva dire, il D’Esposito, quando parlava di «persone che non
riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto»? A cosa l’avevano
portato, le sue indagini? Quali erano i suoi sospetti?
IV
Decisi
di procedere in modo sistematico. Anche troppo, in verità, perché
cominciai con l’infliggermi la lettura del più voluminoso trattato
sui gatti che riuscii a procurarmi: due tomi per un totale di oltre
tremila pagine. L’opera si apriva con un’ampia e dettagliata
trattazione dell’anatomia e della fisiologia dei felini, per
passare poi ad una sezione relativa alle loro patologie più comuni,
fino a quelle più rare. A chiudere il primo tomo, una più che
esauriente sezione dedicata alla loro alimentazione e alle loro
abitudini, insieme ad una infinita serie di consigli relativi alla
perfetta convivenza dell’animale con la specie umana.
Assai
più interessante il secondo tomo, quasi interamente dedicato alla
storia dell’animale dagli albori della storia ai nostri giorni:
ittiti e atzechi, impero di Carlo V e antico Egitto, Roma dell’età
repubblicana e Inghilterra vittoriana, e in tutto la sorniona e fiera
presenza del gatto. Cose che in gran parte già conoscevo, ma ad ogni
pagina scoprivo qualcosa di nuovo, perfino di incredibile.
Puntai
l’attenzione a tutto ciò che fosse in relazione all’uccisione
dei gatti nel corso della storia. Poca roba. Una setta assira li
sacrificava al plenilunio nella certezza che fossero le vittime
preferite dal proprio dio. Un altro gruppetto di folli, nel primo
Rinascimento, vicino ad Amsterdam, li squartava vivi dopo averli
nutriti con latte di capra per trenta giorni, tenendoli al buio, per
prelevarne la bile, ingrediente base per la preparazione di uno dei
tanti elisir di lunga vita ideati dalla ispirata cialtroneria umana.
E poi per secoli erano stati uccisi per far cappelli e baveri con la
loro pelliccia, nella versione povera di quella di volpe. Ma i gatti
di cui mi interessavo io non morivano nei pleniluni, né venivano
trovati scuoiati, e agli elisir di lunga vita, infine, chi poteva
credere ancora?
Proseguendo,
trovai i gatti uccisi nel XVI secolo dagli studenti di medicina cui
era interdetto lo studio dell’anatomia sui cadaveri umani, e ancora
quelli che vennero mangiati a Leningrado, prima che l’assedio ad
opera dell’esercito del Terzo Reich costringesse gli assediati,
finiti i gatti, a passare ai topi. Si parlava degli studi neurologici
che Charcot per qualche tempo condusse sul cervello di gatto, e di
quelli, in parte analoghi, di Ramon y Cayal: gatti che finivano in un
inceneritore, non ai bordi delle strade. Poi, naturalmente, The
Great Cat Massacre sul quale qualche anno prima Robert
Darnton aveva scritto un fortunato saggio... Nulla, insomma, che
facesse al caso mio.
Quasi
nulla, per meglio dire. Perché una decina di righe era dedicata a un
vecchio rito pagano riesumato intorno al 1500 ad Amalfi, ad opera di
un certo Eugenio Sormani e dei suoi accoliti, tutti finiti al rogo
per stregoneria tra il 1517 e il 1521: impiccavano gatti e traevano
aruspici dalle oscillazioni della corda durante la loro agonia.
Pensai che anche in questo caso non si trattasse di una traccia
utile, ma d’un tratto, come trafitto da una rivelazione, mi
ritrovai a chiedermi: «Ma siamo sicuri che muoiano sotto gli
pneumatici delle auto? Non è possibile che siano uccisi altrove, e
in altro modo, per essere portati dove poi vengono trovati allo scopo
di celare il vero scopo per cui vengono uccisi? E il fatto che le
ruote passino esclusivamente sulle loro teste non può servire
proprio a cancellare ogni segno che indichi in che modo sono stati
uccisi?». «Fosse così – conclusi – si spiegherebbe tutto ciò
che fino ad ora è stato inspiegabile».
Presi
le foto scattate dal D’Esposito per cercare di cogliervi qualcosa
che potesse essermi sfuggito. Niente, le teste dei gatti erano
ridotte in uno stato da rendere impossibile qualsiasi supposizione.
Dovevo procedere di persona.
Un
sabato di ottobre, alle cinque e un quarto, accostai la mia Renault
al bordo della solita strada, tirai il freno a mano e spensi il
motore. Uscii dall’auto armato di una Polaroid e di un nastro
centimetrato e mi avvicinai al corpo di un gatto che mi ero lasciato
una ventina di metri dietro. Aveva la testa spiaccicata sull’asfalto,
quasi esplosa sotto il peso della ruota che le era passata sopra.
Sulla poltiglia sanguinolenta era visibile perfino l’impronta dello
pneumatico in due strisce di poco divergenti l’una dall’altra.
Vincendo il ribrezzo, scattai quante più foto possibili, per poi
prendere le misure che potessero tornarmi utili. Procedendo verso la
clinica, vidi altri cinque cadaverini, ma solo con due ripetei le
stesse operazioni, perché avevo esaurito la scorta di caricatori per
la Polaroid.
V
Per
qualche giorno non fui in grado di metter mano al materiale che avevo
raccolto: potrà far sorridere, ma era come se temessi qualcosa.
Quando finalmente poi mi decisi, ogni timore si dissolse, ma per
lasciare posto ad una frenesia che non mi lasciò più.
I
tre casi di cui avevo raccolto gli estremi erano in tutto simili. Li
confrontai con quelli delle foto del D’Esposito e tutto coincideva
con i miei. Le impronte degli pneumatici appartenevano tutte allo
stesso modello: era sempre la stessa auto.
D’un
tratto riuscii anche a spiegarmi la sovrapposizione delle due
impronte tra loro lievemente divergenti: l’autore del fattaccio
fermava la sua auto sul bordo della carreggiata, scendeva col gatto
già morto, lo piazzava con la testa davanti alla ruota anteriore
destra e ripartiva, sicché la ruota posteriore destra passava
anch’essa sul cadavere ma con l’angolo di scarto dovuto alla
sterzata necessaria a rimettere in carreggiata un’auto che aveva
precedentemente accostato al suo bordo tenendosi di poco obliqua alla
sua parallela.
Mancava
la cosa più importante: a chi apparteneva quell’auto? Era
credibile che appartenesse a un tizio in grado di procurarsi da solo,
e in meno di un anno, più di un centinaio di gatti? No, era
praticamente certo che fosse solo un anello della catena,
probabilmente l’ultimo. E dunque si trattava di qualcosa che
implicava più persone. Di cosa si trattasse, ero ancora lontano dal
capirlo, e infatti infilai un vicolo cieco: «Passare con lo
pneumatico sempre sulla testa e sul collo dei gatti – mi chiesi –
non servirà per caso a cancellare i segni di un cappio? Vuoi vedere
che Eugenio Sormani ha ancora dei seguaci?».
Mi
tornarono in mente le parole del D’Esposito: «persone che non
riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto». Mi sembrò che lo
sgomento potesse ricadere su quelle «persone» in ragione del
«fatto»: una setta che impiccava gatti mi sembrò che incastonasse
a dovere quello sgomento. Decisi di scrivergli per aggiornarlo su
quello che avevo scoperto, per metterlo al corrente dei miei
sospetti, in realtà sperando che li confermasse, dandomi
un’ulteriore traccia. Fu solo dopo aver spedito la lettera che
cominciai ad avere dubbi sull’ipotesi dei sormaniani, ma intanto
avevo già deciso di fare un salto ad Amalfi. Mi imposi di
soprassedere in attesa della risposta del D’Esposito. Intanto avrei
fatto qualche domanda a Gaetano Nicolella, il mio meccanico.
VI
«È
un copertone della Pirelli che è in commercio solo da due o tre anni
– disse Gaetano Nicolella – ma è montato su almeno cinque o sei
tipi d’auto».
«E
dall’angolo col quale divergono le due impronte non si può
risalire alla distanza tra l’asse anteriore e quello posteriore, e
quindi all’auto che monta questo pneumatico?».
Scosse
il capo: «Se si sapesse con quale angolo di sterzata ha accostato
l’auto – rispose – ma questo non lo sappiamo, né c’è modo
di saperlo».
Tentai:
«Ma l’angolo col quale divergono le due impronte è praticamente
uguale in tutte le foto...».
«Questo
– disse – ci consente di essere sicuri solo del fatto che accosta
l’auto praticamente sempre con la stessa angolazione rispetto al
bordo della carreggiata: niente di più, niente di meno».
Un
buco nell’acqua, pensai, e feci per andarmene, scusandomi per il
tempo che gli avevo fatto perdere. Tornai subito indietro, gli chiesi
di non mandarmi al diavolo se gli ponevo un altro problema.
In
tutte le foto che inquadravano un’area relativamente ampia rispetto
al corpo del gatto, sia in quelle mie, sia in quelle scattate dal
D’Esposito, era presente sull’asfalto una macchia che sembrava
d’olio. Era un dettaglio che avevo notato solo guardando le foto e
di cui dunque non avevo dati relativi alla distanza che lo separava
dai punti che avevo preso in considerazione. Pasticciando nel
tentativo di spiegare cosa pretendevo di sapere, chiesi al brav’uomo
se una misurazione nota tra due punti considerati in una delle foto
permettesse di calcolare la distanza tra il dorso del gatto – e
dunque, con lieve approssimazione, tra l’asse anteriore dell’auto
– e il punto dal quale era colato il liquido che aveva dato luogo a
quella macchia.
«Cominciamo
col dire – fece Gaetano – che una perdita di questo tipo può
venire solo dal bocchetto posteriore della coppa. Se non fosse che la
distanza tra la macchia e il dorso del gatto non è quella tra il
bocchetto e l’asse anteriore...».
«Va
bene – dissi interrompendolo – ma si tratta dell’ipotenusa di
un triangolo rettangolo che ha per cateto lungo tra distanza tra il
bocchetto e il punto mediano dell’asse anteriore e per cateto corto
più o meno la metà della lunghezza dello stesso asse. Quindi,
volendo...».
«Volendo,
cosa?», fece.
«Sui
tabulati che la casa produttrice di un’auto rilascia – dissi –
ci sarà la distanza tra la coppa e l’asse, no?».
«No»,
rispose.
«E
calcolarla su tutti modelli d’auto che passano per un’officina
come questa...?», azzardai.
«Cosa
dovrei fare?», chiese.
Si
fece un po’ pregare, ma finì con l’accettare, e due giorni dopo
mi arrivò una sua telefonata. Solo due modelli d’auto avevano un
bocchetto posteriore della coppa dell’olio a un metro e
ottantasette dalla ruota anteriore destra, ma solo uno montava il
copertone della Pirelli la cui impronta era sulle foto: la Fiat Tipo.
«Che li impicchi o no – mi dissi – li va schiacciare sotto le
ruote della sua Fiat Tipo che perde olio dal bocchetto posteriore
della coppa dell’olio». Non era
molto, ma non era neanche poco.
Il
giorno dopo mi arrivò una lettera da Brescia:
«Gentile
collega,
le
rispediamo la lettera da lei inviata al signor Angelo D’Esposito,
che sappiamo essere stato suo paziente, e che egli non ha potuto
leggere perché deceduto due giorni prima del recapito, per sepsi
generale...».
Povero
Angelo, pensai, morendo s’è portato appresso un segreto che
probabilmente non mi avrebbe rivelato, per evitare grane.
VII
La
domenica dopo andai ad Amalfi. L’idea era quella di far visita a
don Pasquale Coviello, che conoscevo da anni, perché ogni sei mesi
veniva per una controllatina all’imponente gozzo tiroideo che una
fifa matta gli impediva di decidersi a farsi asportare. Di Amalfi
sapeva tutto, don Pasquale, e certamente avrebbe saputo dirmi se
eventualmente avesse avuto l’impressione che negli ultimi tempi i
sormaniani fossero riemersi dal buco nero che li aveva inghiottiti
cinque secoli prima. Arrivai che aveva appena finito di dir messa,
era in sagrestia a togliersi i paramenti.
«Qual
buon vento...?», mi fece.
«Passavo
da queste parti e mi son detto: “Andiamo a vedere se per caso il
gozzo non ha soffocato don Pasquale”».
«Eh,
no – disse sbottonando il colletto ed esibendo una cicatrice non
più vecchia di un mese – il gozzo non c’è più. E ringraziando
Nostro Signore è andato tutto liscio. Ma non credo che lei sia
venuto qui solo per questo, mi dica in cosa posso esserle utile».
«Mi
parli un poco di Eugenio Sormani».
«Oh,
Sormani. Il pazzo che fu bruciato a Napoli, vero?».
Annuii.
«Non
c’è molto da dire, in verità. Fu arrestato da queste parti nel
1513, insieme a una dozzina di suoi seguaci, dall’Inquisizione,
pare su segnalazione del cardinale Ottavio Baldacci. Lo portarono a
Napoli, dove fu processato per stregoneria e condannato al rogo. Al
momento dell’arresto gli trovarono in casa un impressionante numero
di teschi di gatti, il che non fu irrilevante per sostenere l’accusa
di maneggi con Satana. Sotto tortura rivelò le pratiche della setta
alla quale aveva dato vita, tanto astruse da dar corpo ai sospetti
che lo avevano portato in giudizio. In ogni notte di luna piena i
sormaniani impiccavano gatti a dei pali piantati a terra a comporre
la disposizione delle stelle in una data costellazione... Non saprei
essere più preciso... Ho letto gli atti del processo, ma la
confessione è un guazzabuglio di assurdità...».
«Pare
che traessero degli aruspici dalle oscillazioni delle corde, no?».
«Sì,
anche quello, ma non solo. Piluccando dai pitagorici e dai cabalisti,
il Sormani si era costruito un sistema mostruosamente complicato che
mischiava assieme astronomia e alchimia... Onestamente, non saprei
dirle nulla di più preciso. Ma mi dica: com’è che le interessano
i sormaniani?».
Gli
raccontai della faccenda.
«Oh,
povero D’Esposito! Non lo sapevo. Il Signore l’abbia d’accanto,
era un brav’uomo... Ma, se devo dirle la mia, qui il Sormani non
c’entra. In quei suoi riti macabri tutto presupponeva dei postulati
che oggi neanche un pazzo si sognerebbe di sostenere. E poi c’è la
questione dei crani... Alle teste dei gatti i sormaniani riservavano
un enorme rispetto, sostenevano che la loro volta cranica
riproducesse quella del Nono Cielo... No, qui le vanno a schiacciare
sotto la ruota di un’auto... Non ci siamo, non ci siamo proprio».
Capii
di aver imboccato una falsa pista.
VIII
Due
mercoledì dopo, senza che me ne avesse dato prevviso, don Pasquale
Coviello venne a farmi visita in clinica.
Iniziò
senza preamboli:
«Dobbiamo
fare l’autopsia ad uno di quei gatti».
Mi
lasciò senza parole, ma sembrò leggermi dentro tutte le obiezioni a
quell’idea, perché continuò: «Nick, il mio gatto, è sparito».
Raccontò
che di mattina presto si era fatta a piedi tutta la strada che da
mesi era coperta da cadaveri di gatti, e che ne aveva contati cinque,
ma Nick non c’era, «ringraziando Nostro Signore».
«Me
lo ammazzeranno venerdì notte o al massimo martedì prossimo, ne
sono sicuro. Dobbiamo fermarli, anche se il mio Nick non dovesse
farcela in tempo. Dobbiamo sapere chi sono, cosa ne fanno, di cosa
muoiono veramente, i gatti. Penserò a tutto io, le porterò io uno
di quei corpi, lei deve solo contattare qualcuno che sia disposto a
farne l’autopsia».
Capii
il perché di tanta determinazione e un po’ mi rimproverai di non
aver avuto io quell’idea. Mi dissi che solo il professor Mele
avrebbe potuto darci un aiuto.
Il
professor Mario Mele era un caro amico, nonostante avesse una
trentina d’anni più di me. Ci eravamo conosciuti sette o otto anni
prima per la stesura di un volume sull’impiego dell’ecografia in
Medicina Legale e ne era nata un’istantanea simpatia che di tanto
in tanto si nutriva di piccoli favori reciproci.
Una
leggenda vivente, il Mele. Magrissimo, un centinaio di sigarette al
giorno, un sarcasmo più tagliente del suo bisturi, una fama
indiscussa che toccava punte di venerazione tra i suoi colleghi, uno
dei quali un giorno mi disse:
«Mele
lo fa parlare, il cadavere».
Al
telefono gli spiegai velocemente la questione, che mi parve
addirittura eccitarlo:
«Bellissimo,
mandami subito uno di questi gatti».
Ci
mettemmo d’accordo che per il sabato successivo, verso le undici,
don Pasquale gli avrebbe portato in istituto uno dei cadaveri.
Quel
sabato, verso le tre del pomeriggio, arrivò la sua telefonata:
«Che
caso coi controcazzi... Hai tempo o ti mando tutto a casa?».
Sul
lettino avevo una gravida con una bruttissima gestosi, gli dissi che
avrei preferito mi facesse recapitare il referto a casa e che poi
l’avrei chiamato l’indomani, in mattinata.
«Perfetto,
rimaniamo così. Ma che caso, cazzo, che caso!», concluse,
appiccicandomi addosso un curiosità che non smise di torturami fino
a quando, la sera, aprii la sua busta gialla. Insieme al referto
autoptico c’era una lettera. Lessi e tutto diventò chiaro:
«Caro
mio,
quel
prete ha uno stomaco di ferro. Mi ha portato tre sacchi con tre
gatti, ha detto che pensava che così fosse meglio, che avremmo
potuto avere più informazioni. Gli ho chiesto se avesse raccolto
dall’asfalto tutto il materiale o se per caso avesse lasciato in
loco qualche brandello di tessuto: mi ha assicurato di aver usato
tutte le accortezze del caso. E ha insistito per pagare, anche se gli
ho detto che non c’era bisogno perché eri tu ad avermi chiesto il
piacere. Poi ha voluto a tutti i costi assistere al lavoro, anche se
al secondo sacco s’è messo a piangere e ha cominciato a carezzare
il gatto. Lo chiamava Nic, Mic, non ho capito bene, e lì non ha
retto, s’è scusato ed è andato via. Gli ho detto che gli avrei
spedito una copia del referto.
Ti
risparmio le banalità pro forma che, se vuoi, potrai leggere dalla
relazione che qui ti allego e arrivo al nocciolo della questione: per
quanto le teste fossero massacrate, sono riuscito a ricostruire il
cranio dei gatti in tutti e tre i casi, e in tutti e tre mancava un
pezzetto della teca, più o meno della grandezza di un centimetro
quadrato, di forma circolare, coi bordi che recavano i segni
inconfondibili della trapanazione che è d’uso per gli studi di
stereotassi cerebrale.
La
morte risaliva a dieci-dodici ore dal ritrovamento, diciamo intorno
alle diciassette-diciotto di venerdì, da iniezione intracardiaca di
aria (in uno dei setti interventricolari ho trovato addirittura una
punta d’ago spezzata).
Ci
sentiamo domani, non farti problemi per l’ora ché anche di
domenica mi sveglio presto.
Ti
abbraccio,
Mario»
La
mattina dopo, verso le nove, lo chiamai.
«Bello,
eh? Chi può essere questo figlio di buona donna che si allena sui
gatti, hai qualche idea?».
Sì,
l’avevo.
IX
Il
dottor Massimo Russo era neurochirurgo e lavorava nella stessa
clinica dove il mercoledì e il sabato tenevo ambulatorio. Lo
conoscevo solo di nome, perché aveva studio in giorni diversi da
quelli in cui l’avevo io: il martedì e il venerdì, seppi.
L'amministrazione gli aveva concesso due stanzette al piano terra per
il suo ambulatorio della mattinata, ma sempre più spesso negli
ultimi anni vi si tratteneva fino a tarda serata con due o tre
giovani specializzandi che lo assistevano al lavoro. In cosa
consistesse questo lavoro, nessuno seppe dirmelo in clinica.
Gli
chiesi un appuntamento e il martedì sera arrivai in clinica. Mentre
varcavo l’uscio, incrociai uno dei suoi assistenti che stava
uscendo. Reggeva un grosso contenitore di plastica.
Non
persi un istante:
«Scusi,
è sua la Fiat Tipo che è nel parcheggio?», chiesi, anche se non
ero sicuro di averla vista.
«Sì
– rispose – perché?».
«Non
vorrei sbagliare – dissi – ma mi pare che abbia lasciato i fari
accesi».
«Oh,
grazie», fece, affrettandosi.
Arrivai
alla porta dello studio del dottor Russo e bussai. Venne ad aprirmi
con un sorriso di quelli che fanno della mandibola un pericoloso
corpo contundente. Mi fece accomodare e chiese:
«In
cosa posso esserti utile, caro collega?».
«Io
sto bene – iniziai goffamente – vengo qui per una questione,
diciamo così, personale. E vorrei che fosse una discussione civile.
Diciamo che sono uno dei pochi che si è accorto di questi troppi
gatti che vengono trovati morti da queste parti. Non importa come sia
arrivato a capire come finiscano con la testa spiacciata sotto la
Fiat Tipo del suo assistente che anche stasera è andato ad allestire
la solita sceneggiata, ma so perché vengono uccisi e so del buco che
hanno in testa quando escono da qui... Quanti erano stasera? Cinque?»
«Quattro.
Ma continua, e dammi pure del tu».
«No,
grazie, d’altronde c’è poco altro da dire. Volevo solo chiederle
se questo sconcio può finire. Ho saputo che si parla di aprire qui
in clinica una sala operatoria per la neurochirurgia, penso che ormai
la mano dev’essersela fatta...».
Tacque
per qualche secondo, poi mi disse:
«In
quanti siete a sapere di questa cosa?».
«In
tre», risposi.
Probabilmente
il tono gli suonò minatorio, perché parlò con la durezza d’accento
di chi come unica difesa abbia l’attacco:
«Bene,
inizio dicendo che, se volessi, il mio lavoro potrebbe continuare
ugualmente. Al massimo dovrei spostarmi da qui, dovrei trovare un
altro modo per liberarmi dei cadaveri, ma queste sono cose che si
risolvono in mezza giornata. D’altra parte, lei non ha alcuna
prova. Anche se ne avesse, non troverebbe porte aperte. Sa chi è il
presidente della società protettrice degli animali in questa
regione? Mia moglie. Al comandante della stazione dei carabinieri
della zona ho salvato un figlio da una brutta meningite. Mio fratello
lavora al Viminale. E sa che la clinica si è già impegnata per
l’acquisto delle apparecchiature della nuova sala operatoria di cui
sarò il responsabile? Due miliardi sono un investimento che deve
fruttare. Faccia quello che le pare, le rideranno in faccia. Ah, poi
ci sono i miei tre assistenti. Sono giovani, non vedono l’ora di
lavorare, per proteggere il progetto per il quale sudano da due anni
sarebbero capaci anche di sgradevoli colpi di testa...».
Dovette
intuire che dal disagio passavo all’inquietudine, perché ammorbidì
d’un tratto i toni:
«Ecco,
potrei risponderle così, ma invece la metterò in altro modo. Sa
quanti morti ci sono ogni anno in questa zona per ictus e trombosi
cerebrale, lei che va contando quanti gatti morti trova per strada?
Glielo dico io: l’anno scorso sono stati cinquantasette, e l’anno
prima sessantuno. E sa perché muoiono? Perché in più
dell’ottantacinque per cento dei casi non riescono ad arrivare a
Napoli in tempo utile».
Tacque
un attimo, poi riprese, quasi urlando:
«Non
me ne fotte un cazzo dei gatti e della sua delicatezza di stomaco. La
clinica deve avere una sala operatoria e un chirurgo esperto e
veloce. Se al mio caso fossero tornati utili i topi, lei non sarebbe
qui, ma a me servivano i gatti e, si sa, i gatti sono carini, fanno
le fusa... E poi mi dica: in quanti se ne sono accorti? Lei è arrivato
secondo, sa? E sa chi l’ha preceduta? Uno spazzino. Uno spazzino,
capisce? Che peraltro ha subito smesso di rompere il cazzo dopo una
amabile chiacchieratina... Vada, per piacere, vada. Abbiamo perso
entrambi del tempo. Per quanto mi riguarda, farò finta che questo
incontro non ci sia mai stato. Le consiglio di fare altrettanto, ma
si regoli come le pare».
Rimasi
di gelo. Ebbi solo la forza di replicare:
«Ho
capito. E per quanto tempo ancora continuerà tutto questo?».
Il suo
tono di voce tornò sereno, quasi cordiale:
«Se
tutto va bene, tre o quattro mesi. Dobbiamo lavorare soltanto sui
versamenti della fossa cranica posteriore».
Non
riuscii più a dire neppure un’altra parola. Mi alzai e andai via.
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