domenica 27 giugno 2010

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Gentile lettore, ti sei risparmiato quattro recensioni (Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005; Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse, Einaudi 2009; Paul Verhoeven, L’uomo Gesù, Marsilio 2010; Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocattoli, Einaudi 2010): 32.000 battute che la pen drive rifiuta di restituirmi e che io mi rifiuto di riscrivere. Però ti consiglio il Verhoeven e, soprattutto, il Bartezzaghi. Soprattutto il Bartezzaghi. 

Alla faccia dell’equipollenza


Francesco D’Agostino scrive: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva»…”. Non sbuffate, siate carini: sta riscaldando la solita minestrina, è vero, però adesso metterà quel tanto di piccante da renderla mangiabile: una correlazione farlocca.
E dunque: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva» e, per soprammercato, ce n’è una «pessima». Qualcosa del genere capita anche per un altro termine di estrema complessità e cioè «religione». C’è una religione «buona» […] c’è una religione «cattiva» […] e c’è (purtroppo) una religione «pessima»”.

Di qualsiasi cosa possiamo dire, se vogliamo, essercene una buona, una cattiva e una pessima: provate, funziona con tutto. Ma di là da questa comune (comunissima) qualità, laicità e religione sono equipollenti? Solo se rendiamo equipollente ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di laicità a ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di religione, e così con «cattivo» e per «pessimo». Ora, la correlazione suggeritaci dal D’Agostino dà per scontato che “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” (il buono che starebbe nella «buona» laicità) si possa definire equipollente alla “percezione che in tutti gli uomini c’è un autentico anelito all’infinito” (il buono che starebbe nella «buona» religione). Ma questo è corretto?

C’è equivalenza di valore tra un principio includente come “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” e quello escludente di chi dà per assodato che l’“anelito all’infinito” dimostri il trascendente? Sì, perché il D’Agostino dice che il «buono» che sta nella laicità dà due sole opzioni: “un Dio personale” o “un divino impersonale”. Né l’uno né l’altro? Vi fottete: senza una qualche divinità non siete «buoni» laici, tutt’al più dei laicacci o, “per soprammercato”, dei laici di merda.
Idem con la «cattiva» religione e la «cattiva» laicità, dove l’equipollenza è posta tra ciò che “guarda con disprezzo le confessioni di fede diverse dalla propria” e ciò che porta a “ritenere che tutte le religioni siano forme premoderne, infantili, mitologiche o comunque immature di pensiero”. Ma c’è equivalenza di valore tra il ritenere che tutte le religioni siano “forme immature di pensiero” e il ritenere che lo siano tutte tranne una (la propria)? Solo dando per assodato che il disprezzo per tutte le “forme immature di pensiero” abbia qualcosa in comune al disprezzo per “le confessioni di fede diverse dalla propria”.

Ma è così? Non avevamo detto che un laico è già «cattivo» se nega il trascendente? Stiamo mica cercando di deformare le accezioni di laicità e di religione per adattarle a forza a ciò che per assodato diamo per «buono» e «cattivo» per l’una e per l’altra? Possibile che il D’Agostino ricorra a trucchetti del genere? Vediamo con la «pessima» religione e la «pessima» laicità.
La prima “ritiene che i credenti in altre religioni vadano perseguitati, convertiti coercitivamente o addirittura sterminati”, la seconda “ritiene doveroso perseguitare ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa”. Ce n’è di che considerare il cristianesimo una «pessima» religione fino a qualche secolo fa e la Dominus Iesus, che a giorni fa dieci anni, non troppo «buona», quasi «cattiva»: possibile che il D’Agostino voglia osare tanto?
Di più: c’è di che considerare «pessima» solo la laicità di quanti hanno perseguitato ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa (ce ne sono più?), ma già «cattiva» la laicità di chi nega il trascendente (e non sono pochi).

In definitiva, basta poco a un cristiano per essere «buono»: basta che rinneghi una dozzina di secoli. A un laico, invece, un po’ troppo: ammettere una dimensione trascendente, antecedente e superiore all’“arbitrio di chi detenga occasionalmente il potere (chiunque esso sia, un soggetto individuale o un soggetto collettivo, come nelle democrazie moderne)”. Il laico «buono», insomma, è quello che nega anche alla democrazia il diritto di toccare i cosiddetti “valori non negoziabili”, fra i quali occorrerà rammentare l’indissolubilità del matrimonio e l’indisponibilità del proprio corpo, a mo’ d’esempio.
Basta che un cattolico rinunci a sgozzare protestanti e a definire “perfidi” gli ebrei, e già è un «buon» cattolico. Per essere un «buon» laico ci vuole molto di più: praticamente pensarla come un cattolico su tutto ciò che un cattolico ritiene essere “bene comune di tutti”. Alla faccia dell’equipollenza.


Postilla
Avevo in mente un post di tutt’altro genere: “La lettura di Francesco D’Agostino [e qui ci avrei piazzato il link] mi eleva, nel senso che mi fa due palle enormi”. Stop. Però mi sembrava troppo ellittico, così mi sono dilungato. Chiedo scusa ai patiti della brevitas.

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256 passanti

Robe che invocano la vendetta di Dio



La foto ritrae un vescovo all’uscita dall’arcivescovato di Malines nel quale è stato trattenuto per 0,001027397260 anni (9 ore) subendo un trattamento peggiore di quello che era riservato ai vescovi nei regimi comunisti, come dimostrano gli occhiali rotti, i vestiti laceri, le vaste ecchimosi e l’espressione stravolta.


“Il fascino del calcio”


Ciò che per Joseph Ratzinger (*) spiegherebbe “il fascino del calcio” vale per ogni gioco di squadra, anche assai meno popolare e, dunque, non spiega niente. Anche il curling “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere, con l’allenamento, la padronanza di sé”, anche nel curling “il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto”, anche col curling “la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione”, e tuttavia il calcio ha una platea che il curling non ha mai avuto.
Pagina infelice, riflessione superficiale, però di un qualche interesse se si tiene conto che è del 1985, l’anno del famigerato Sinodo straordinario dei vescovi, dal quale sarebbero venute le linee tattiche della reconquista cattolica. Se leggiamo ciò che Joseph Ratzinger scrive sul calcio come una meditazione su ciò che ha da essere valorizzato in una impresa che miri ad affascinare grandi masse, la pagina si fa più felice, la riflessione diventa meno superficiale e il calcio si rivela strumento di metafora: “Riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina...”. Affascinante.

(*) Joseph Ratzinger, Cercate le cose di lassù, Edizioni Paoline 1986 – riproposto da Avvenire, venerdì 25 giugno, col titolo Il campo insegni la disciplina.

Ghana



Uno ci rimette la faccia, ma ci vuol niente a rifarsela



“Uno passa buona parte della sua età adulta a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico, che il Cavaliere ha successo perché ha un messaggio e non soltanto un mezzo (televisivo), che vince le elezioni perché incarna un’idea e una speranza e non perché l'Italia è fatta di una maggioranza di corrotti e di evasori che si identifica con lui. Uno passa gli anni a dire che il berlusconismo va compreso e non demonizzato, che perfino nelle sue menzogne c’è del vero. Che, certo, lui si fa le leggi per salvarsi dai processi, ma anche i processi che gli fanno non sono proprio tutti a prova di bomba. Che, di sicuro, non si può permettere di insultare la magistratura e di contestare l’autonomia costituzionale del potere giudiziario, ma che a vedere come si comportano certi magistrati e come talvolta usano la loro indipendenza si capisce che la Giustizia italiana ha comunque urgente bisogno di una radicale riforma. Uno ci mette la faccia e ci rimette anche qualche rapporto di amicizia per spiegare che perfino l’immunità pro-tempore per il capo del governo non è in sé una bestemmia, che anzi in alcuni paesi è prevista, e che comunque esiste la necessità di proteggere l’esercizio del mandato popolare. Poi Berlusconi, con il favore delle tenebre, senza dire niente a nessuno, nomina l’amico, sodale e imputato Aldo Brancher ministro del nulla, e Aldo Brancher attua immediatamente - invece del federalismo - il legittimo impedimento per evitare il suo processo. E ti chiedi dove hai sbagliato”.

Così, su il Riformista di venerdì 25 giugno, il suo ineffabile direttore. Il quale, con la rinuncia di Brancher a usare il legittimo impedimento, potrà tirare un sospiro di sollievo e pensare che non ha sbagliato niente. Potrà perfino pensare di rifarsi la faccia persa.

sabato 26 giugno 2010

La metafisica


Con l’ordinanza di sequestro degli archivi dell’arcidiocesi di Malines, contenenti dati cui la Chiesa non intendeva dare accesso alla magistratura inquirente facendo vera e propria resistenza fisica, in Europa si risveglia un bisogno di metafisica, ma di quella sana.

O Vaticano de Bento XVI


In 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 spezzoni (ciascuno di circa 5 minuti) è reperibile su Youtube un documentario di produzione portoghese dal titolo O Vaticano de Bento XVI, che merita attenzione. Il commento è in portoghese, naturalmente, e si sovrappone all’audio sorgivo delle riprese, che è in lingua inglese, tedesca e perfino latina, mentre le scritte in sovraimpressione sono in spagnolo, ma se adottate l’interfaccia giusta – vedete voi un po’ quale – ve la cavate.
Riprese interessantissime, ravvicinate, che s’offrono allo studio di ogni singola espressione, di ogni occhiata, di ogni accento, e tono, e posa degli eminentissimi: soprattutto del cardinale Joseph Ratzinger, lì eternato sul finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ma anche del cardinale Edmund Skoza, numero uno dell’Operazione Giubileo e a quei tempi Governatore della Città del Vaticano. Di questi è interessante la lezioncina giuridica in 5 (0:54-2:07), di Ratzinger è interessante il passaggio in cui spiega come sente il suo passaporto diplomatico, in 4 (2:42-3:22).
È tutta roba che può tornare utile nel dare al caso Sepe la corretta misura, che – ripeto – non è giudiziaria, ma politica: la politica dei rapporti tra Santa Sede e Repubblica italiana. Punta di rilievo del documentario, in questo senso, sta in un futuro Benedetto XVI che avrà tra le mani il caso Sepe e che dice: “Direi che lo Stato del Vaticano e l’amministrazione che qui si svolge non è molto differente, né più misteriosa, di quella di una grande impresa o di una organizzazione politica”. Bene, tutt’è che a dare conto della bestia sia chi ne è indiscutibile padrone, così usa tra i laici.

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Sull’origine extraterrestre degli Ufo non si discute, ma non si tratta di navicelle spaziali che arrivano da chissà quale luogo nella nostra galassia o addirittura da fuori: la Madonna ci ha rivelato, fin dal 1973, che si tratta di “mezzi di trasporto dell’inferno” e che “vengono da Satana”, “per far credere all’esistenza di altri esseri viventi sugli altri pianeti”.
Roberto mi segnala un post di pontifex.roma.it e, riprendendo una mia ipotesi, commenta: “Se non è un fake, è da trattamento sanitario obbligatorio”. Sì, ma in entrambi i casi, sul piano teologico, la rivelazione fattaci dalla Madonna riguardo agli Ufo sarebbe meno compromettente delle dichiarazioni fatte da padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, non molto tempo fa: “La possibilità che esistano altri mondi e altre forme di vita non contrasta con la nostra fede” (L’Osservatore Romano, 13.5.2008), mai dichiarata errata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Materia bollentissima, Malvino 16.5.2008).
Pazzi, quelli di pontifex.roma.it, e però in quella pazzia c’è un metodo. Se si tratta di pazzerelloni, invece, bisogna riconoscer loro una solidissima preparazione su quanto è oggetto delle loro parodie.

venerdì 25 giugno 2010

Era meglio che non lo spiegavi e lo lasciavi nel vago


“Luciano Canfora ha riferito di aver letto con «una certa impressione» […] una lettera del 24 febbraio 1934, in cui Guido Gonella, «collaboratore de L’Osservatore Romano» negli anni del fascismo […] richiede all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede la tessera d’iscrizione al Partito nazionale fascista” (L’Osservatore Romano, 25.6.2010), e si capisce che con «una certa impressione» ci avrà messo pure un poco di ironia, forse. Ma L’Osservatore Romano dà notizia di un documento che spiega tutto: si rimangi l’ironia, se c’era: “È una lettera ufficiale della Regia Università degli Studi di Roma che [comunica] al giovane […] l’assegnazione di un sussidio di lire duemila”.
Un venduto, si direbbe? Ma no: “Nel 1931 in Italia era stata fondata l’Associazione fascista della scuola, diretta emanazione del Pnf […] e per i docenti universitari c’era l’obbligo del giuramento di fedeltà. Nel 1933 poi fu stabilito l’obbligo della tessera del Pnf per accedere ai concorsi. Chiunque avesse prestato servizio all’università (salvo quanti beneficiassero di rendite personali o di beni al sole) era costretto a iscriversi”. Rammentando che ci fu chi non si piegò, il Gonella pare proprio un venduto: L’Osservatore Romano ci impedisce solo l’ironia.

L’inconsapevolezza


Giovanni Paolo II non voleva che sulla Humanae vitae di Paolo VI restassero quei dubbi che avevano portato perfino alti prelati e qualche teologo di peso a contestarne l’autorità, sicché ne ribadì con forza i contenuti nella sua Evangelium vitae. Lo fece con tanta forza – afferma il cardinale Carlo Maria Martini (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori 2008), citato da Paolo Rodari (Il Foglio, 25.6.2010) – che “pare avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”.
Ora è evidente che Sua Eminenza sia fra quanti ritengono che il Papa non parli necessariamente ex cathedra quando scrive un’enciclica. Non è mia intenzione entrare nel merito, andremmo troppo lontano da una questione che qui intendo circoscrivere a un solo punto: oltre al farci un pensierino, Giovanni Paolo II non l’ha fatto?
“Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore, è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale” (Evangelium vitae, 57). È azzardato leggervi un “qui sto parlando ex cathedra”?
Si dice che solo la materia dogmatica è quella data ex cathedra, ma allora come spiegare il riferimento che in chiusa alla suddetta formula rimanda ad una Costituzione dogmatica (Lumen gentium, 25)?
Ancora: cosa significa “ex cathedra” per quel Concilio Vaticano I che ha sancito il dogma dell’infallibilità papale? Significa: “Quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore [l’enciclica non è un momento pastorale?] e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale [l’aborto non vi attiene?] dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro [Giovanni Paolo II non la richiama?], [con] quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi” (Pastor aeternus, IV).
Giovanni Paolo II parlò ex cathedra, anche se Martini, forse inconsapevolmente, vuol darci a bere che vi abbia rinunciato, servendosi dell’inconsapevole Rodari.

Non è metter mano alla materia vivente?




“Mi accorgo che non so disegnare né dipingere”
Pierre-Auguste Renoir



I nostri occhi e il nostro cervello ormai si sono abituati al fenomeno che impropriamente è detto impressionismo, ma ci è ancora possibile fare uno sforzo di immaginazione per figurarci la vertigine dei sensi, la rivoluzionaria traveggola di una macchia che per la prima volta dava l’impressione di cosa artificialmente riprodotta, dinanzi ad una tela che ti ridà una rosa in 23 macchie. Con ardita noncuranza, rasente alla sfacciataggine, l’artista – questa fottuta scheggia impazzita della Tradizione che da poco si è liberata dalla commessa del Principe – non cura di dare vita autonoma alla riproduzione, ma costringe l’osservatore a finire il lavoro coi propri mezzi, di quelli fin lì mai usati.
Ci sono correnti pittoriche che hanno attivato aree cerebrali latenti e, anche se la crescita della capacità di vedere è poco celebrata rispetto alle altre acquisizioni della modernità, c’è una bella fetta di cervello che dobbiamo all’esercizio forzato di vertigine e traveggole cui ci hanno sottoposto i maestri dell’arte degenerata. La loro rosa veniva a rappresentarsi tale seguendo altra via, altro circuito, anche altra biochimica, chissà. La rappresentazione s’è decostruita e ricostruita in altro modo, alternativo ma parallelo, acquisito per diventare connaturato.

Non è metter mano alla materia vivente? Non è il tentativo di snaturare la Creazione? E tuttavia si censurano le velleità della scienza ai danni della cosiddetta Natura, mentre nessuno più lamenta la corruzione del processo di rappresentazione: continuano a imporci mordacchia e cintura di castità, ma continuano a dimenticare il paraocchi. E non capiscono che si può tradire la Tradizione e la cosiddetta Natura anche soltanto con un altro modo di guardare.
Né un Prometeo, né un Faust, ma a sovvertire l’ordine ci pensa il figlio del sarto, quello che ti ridà una rosa in 23 macchie.


giovedì 24 giugno 2010

E vinceremo



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È strano che chi qui da noi sostiene il primato della politica anche a discapito dell’autonomia della magistratura, come nel caso in cui si vuole che l’eletto sia ingiudicabile, spezzi una lancia in favore di McChrystal, contro Obama: alle forze armate non si può accordare alcuna autonomia, e qui abbiamo un militare che si permette di contestare ordini che sarebbe tenuto solo ad eseguire. Assai più scandaloso del veto di una Procura su una legge in discussione in Parlamento su proposta del Governo. E tuttavia, giacché imbarazza fortemente Obama, McChrystal è una specie di eroe per i neocon de noantri, sempre più tragicamente fuori tempo massimo, ancora a spararsi pippe sulla Palin. Certo, dà un brivido di piacere vedere che Obama rimuove in quattro e quattr’otto il mero dipendente statale macchiatosi del crimine di lesa maestà, ma è che Obama non incarna la maestà dell’eletto del popolo quando il popolo elegge un repubblicano, e il brivido è moscio. Sì, c’è stato un grave vulnus al primato della politica, ma non l’ha inflitto la magistratura, e non a Berlusconi. Si aggiunga il fascino che la divisa esercita su chi ama l’uomo forte. Si aggiunga il fatto che Obama non somiglia troppo a Bush. Sicché “McChrystal è rock e Obama è lento”.

O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra


           

62%                                   36%

Vedremo


Una madre aveva chiesto, senza ottenerla, la rimozione del crocifisso dalle aule scolasticche dell’Istituto «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova) frequentate dai suoi figli. Rivoltasi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha visto riconosciute le proprie ragioni nello scorso novembre. A tale decisione l’Italia ha opposto un ricorso che sarà preso in esame mercoledì prossimo per essere accolto o rigettato.
Non si capisce, in realtà, come possa essere accolto: difende l’obbligatorietà del crocifisso in classe sulla base di elementi che la Corte ha già dichiarato incompatibili con l’aconfessionalità di uno stato laico e in patente contraddizione con l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Più probabile venga rigettato ribadendo quanto già estesamente argomentato: (1) il crocifisso è un simbolo religioso; (2) è chiaramente identificabile come simbolo di una ben precisa religione; (3) la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede e a chi non ne ha alcuna; (4) questa violenza è lesiva del principio di libertà di credo religioso e di quello di laicità delle istituzioni pubbliche.
Ogni argomento in difesa del crocifisso in classe deve giocoforza contraddire almeno uno di questi quattro punti, che però sono assai più che impliciti nella Convenzione firmata dagli stati membri del Consiglio d’Europa. E dunque perché l’Italia ha presentato questo ricorso? Perché lo doveva alla Chiesa.

Lo dimostra il fatto che, a pochi giorni dall’esame del ricorso, nel tentativo di far pressione sulla Corte, scendano in campo il presidente del Consiglio e il suo sottosegretario, gentiluomo della Casa Pontificia: non basta più un La Russa a dire che “possono morire, ma il crocifisso non lo leveremo” (questo fa colore, non pressione), c’è bisogno che l’Italia metta in campo i suoi massimi rappresentanti, e lo stesso presidente della Repubblica non si sottrae, invitando a riflettere che, a fronte di un principio pur sacrosanto come quello della laicità dello stato, ci sono in gioco sentimenti da non ferire.
Vedremo in quale conto sarà tenuto il sentimento identitario nazionale che allega a un simbolo religioso l’intero suo bagaglio culturale e l’intero suo patrimonio storico, ma non bastasse, d’appoggio, l’Italia porta alleati pronti a sottoscrivere le sue ragioni: Malta, Repubblica di San Marino, Romania, Monaco, Ucraina e Polonia.
Non è proprio il massimo per una battaglia così nobile. Dove stanno la Francia e la Germania? E il cattolicissimo Portogallo? Vedremo, ma pare che in ambito europeo si prepari un’altra figuraccia per l’Italia.
O per la Corte europea dei diritti dell’uomo, naturalmente. Perché smentire quanto scritto a novembre significherebbe violare principi lì dichiarati fondativi della stessa idea di un’Europa laica.

Siamo sicuri di volere una Chiesa povera?


Non so più dove, ma potrebbe trattarsi dei Frammenti postumi del 1888 o del 1889, Friedrich Nietzsche scrive – ne do versione grossolana – che preferisce polemizzare con un cattolico piuttosto che con un protestante, e con un cattolico tradizionalista piuttosto che con uno progressista, con uno zelante piuttosto che con un aperturista, con un fanatico ultramontanista piuttosto che con un cristiano-socialista.
Come non capirlo? Quando la fede in Dio non riesce ad adeguarsi alle ultime conseguenze della sua incarnazione in Cristo e del mandato di Cristo a Pietro, si polemizza col molle che è impenetrabile, con l’eclettismo dei cristianesimi fai-da-te, con le logiche di privati catechismi stretti in trecciolina coi disturbi della personalità e del comportamento, con declinazioni psicologiche e sociologiche della fede, lungo il gradiente tra fatalismo e superstizione… Insomma, si corre il rischio di impazzire: si polemizza con uno sciame di posizioni.
Dovendo polemizzare col cattolicesimo, meglio scegliersi un avversario serio, un cattolico come-si-deve, a misura di Catechismo e di Codice di Diritto Canonico, evitando quei cattolici per-modo-di-dire, che peraltro non contano mai un cazzo nella Chiesa e regolarmente devono essere ripresi dai pastori e dai loro cani da guardia laici, per essere riportati nell’ovile dell’obbedienza.
Se devo dimostrare il crimine che la Chiesa consuma da sempre, voglio polemizzare con chi pensa che quel crimine sia un diritto sacro, così non si cincischia e arriviamo al sodo: la pretesa di asservire l’intera umanità a un unico fine, che sta già nel mezzo impiegato: ricondurre alla verità dell’incarnazione e del mandato a Pietro: voglio dire: tra un cattolico che vuole una Chiesa povera e profetica e un cattolico che la vuole ricca e prospera, non ho dubbi: il vero cattolico è il secondo. E questa era la premessa.

La convinzione che la pretesa abbia la sua ragione nella sua stessa fondazione fa della Chiesa un corpo mistico e il suo motore, sicché non c’è dubbio – non ci può essere – che legittimamente la Santa Sede Apostolica abbia bisogno di benzina. E tuttavia c’è chi – dentro e fuori la Chiesa – la vorrebbe povera, almeno per non vedersela di continuo in mezzo agli imbrogli lucrosi che ne compromettono la credibilità del magistero morale e sociale. Superfluo dire che “povera materialmente può essere una Chiesa rinunciataria, questo sì, che vive soltanto nei cuori, nello spazio individuale e comunionale, ma non in quello pubblico” (Il Foglio, 24.6.2010). E tuttavia qui siamo ancora reticenti: si sente ancora un poco di imbarazzo nel dichiarare il diritto di arricchirsi, infatti viene mischiato al dovere di farlo. Inutile polemizzare con questa posizione, meglio qualcosa di più fiero, giusto per cercare di individuare l’oggetto della fierezza.

Da un sito web gestito da cattolici tradizionalisti: “Immaginiamo una Chiesa povera... ma immaginiamolo veramente, fino in fondo! Essa di certo diventerà nel giro di qualche anno molto meno visibile sui mass media. Sarà soppiantata da altre religioni anche in occidente. Una Chiesa povera porterà a vivere delle sole offerte dei fedeli, quindi a dover rinunciare a tante opere che ora si sostengono con l’8 x 1000. Non avremo più fondi per costruire chiese nuove, ad esempio, al massimo riusciremo a riparare alcune delle vecchie, ma si sa, prima o poi ricostruire diventa più conveniente che rappezzare… Dovremo rinunciare a dare un po’ di stipendio ai nostri preti, che di conseguenza dovranno andare a lavorare per vivere e così avranno meno tempo per la pastorale. Una Chiesa povera forse sarà più evangelica, ma realisticamente perderà tanti fedeli perché verrà vista come qualcosa di troppo provocatorio, troppo diverso da ciò a cui siamo abituati. Ma diventare una minoranza, aver meno fedeli al proprio seguito significherà anche essere meno corteggiati da partiti politici e capi di Stato, che non troveranno più di grande utilità a stabilire una convergenza con le vedute del pontefice... Bene, siamo sicuri di volere una Chiesa così? Se la Chiesa fosse così, ci impegneremmo di più al suo interno o ne staremmo fuori ancora un po’ di più?”.

Cristo possedeva la tunica che portava addosso? Se dobbiamo tornare a discuterne, stavolta per Sepe come la volta scorsa per Marcinkus, lasciamo da parte la retorica de Il Foglio che cerca di dare nobiltà ai pacchi di denaro e ai milioni di metri cubi di immobili individuandone lo scopo nel tramandare la memoria di Francesco di Assisi. (Probabile che Lunardi si fosse impegnato col cardinale Sepe a imparare a memoria i Fioretti.) Meglio un cattolico come-si-deve, per il quale la Chiesa non deve essere “qualcosa di troppo provocatorio”, e che non deve proporre nulla che sia “troppo diverso da ciò a cui siamo abituati”: un sano conformismo, insomma. Una Chiesa che non perda visibilità sui mass media, che non conti sulle sole offerte volontarie, ma sappia escogitare i modi per mantenere il suo apparato, dandogli gli strumenti per vederlo sempre meno incisivo... O volete che il pontefice non sia più corteggiato da partiti politici e capi di stato? Senza potere e senza denaro come si creano le “convergenze”?
Eccoci ancora al centro esatto della questione: se il fine ultimo è sussistere, il mezzo è moralmente giustificato. Evviva. 

mercoledì 23 giugno 2010

Voglio morire





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Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini: “Credo che gli dispiacessero un pochino anche i miei successi con alcuni ragazzi che piacevano anche a lui. Sa, ero più giovane e carino di lui” (il Giornale, 22.6.2010).
“Anche”? In ogni “venerato maestro” rimane un po’ del “solito stronzo”.