lunedì 3 gennaio 2011

Senza pudore, probabilmente nella convinzione di essere brillante





Signor sceicco


[Lo sceicco Ahmed El Tyeb, che è una delle più alte autorità dell’islam e da nove mesi ricopre la carica di grande imam di Al Azhar, ieri stava per essere linciato al Cairo da una folla di cristiani inferociti, intenzionati a vendicare le vittime dell’attentato terroristico che un gruppo vicino ad Al Qaida – al momento è l’ipotesi più verosimile – ha compiuto ad Alessandria d’Egitto, lo scorso 31 dicembre. Si è salvato per miracolo, pare, ed è questo che ieri mi faceva riflettere su quanto sia difficile per i cristiani mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori.
Scampato al linciaggio, Ahmed El Tyeb si è trovato sotto gli occhi un’agenzia con le parole pronunciate da Benedetto XVI poche ore prima, all’Angelus, e – saranno stati i nervi – gli sono sembrate un atto di ingerenza, almeno così ha detto. Da italiani abituati alle prolusioni del cardinal Ruini, ieri, e del cardinal Bagnasco, oggi, ci sarebbe d’obbligo un grande vaffanculo al grande imam: se due paroline di cordoglio sono ingerenza, come dovremmo definire i diktat della Cei? Tuttavia – vedrete il perché – merita un altro trattamento.]

Est modus in rebus, signor sceicco: abbia maggior cura dei termini che usa e scelga meglio i suoi argomenti. Lei ha chiesto: “Perché Benedetto XVI non ha chiesto la protezione dei musulmani quando venivano massacrati in Iraq?”. Perché non era ancora lui, il papa, e comunque il suo predecessore non restò zitto, né nel 1990, né nel 2003, mentre l’allora cardinale Ratzinger sosteneva che “non esistevano motivi sufficienti per scatenare una guerra contro l’Iraq” (30giorni, IV/2003).
Se non erro, signor sceicco, lei ha detto meno di un anno fa: “The Qur’an […] states unequivocally that if God has willed to bring just one religion, one creed, one color of skin, or one language, He would’ve done so, but in fact He has not willed it so; instead, He willed divergence to continue to the end of time. […] As consequence of the divergences that God has willed for mankind, religions and doctrines must also diverge and must remain divergent, until God inherits the earth and whatever is on it. Thus we can safely say that doctrinal divergence is both a Qur’anic and a universal truth. Indeed, no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself. If such be the case, then the relationship of the Muslim to the non-Muslim is one of seeking to know each other or to learn about each other”.
Questo le fa onore, sa? Lei è quello che qui da noi chiamiamo “musulmano moderato”. Con la sparata fatta ieri contro Benedetto XVI, però, lei corre il rischio di sembrare l’energumeno che non è, facendo apparire lui il mite che non è. Metta a confronto la sua tolleranza con la Dominus Iesus: perché passare dalla ragione al torto?

“Il perenne annuncio missionario della Chiesa – scriveva Ratzinger – viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso”, che è proprio quello al quale lei invece sembra accordare consenso sulla base di quei “presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che – per Ratzinger – ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata”. Non c’è paragone: lei è una personcina a modo e Ratzinger è un fottuto fanatico, perché invertire i ruoli?
Lei sostiene che “no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself”, e invece Ratzinger ha scritto che “le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità [alle quali] tuttavia non può essere attribuita l’origine divina e l’efficacia salvifica”, sicché “i seguaci delle altre religioni […] oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici”.
Rispetto a un integralista del genere, signor sceicco, lei ci fa una figura da galantuomo: perché buttare tutto al cesso? Solo perché quelle furie cristiane volevano ficcarle un crocifisso su per il culo? Via, si calmi.

Comicità protesica



La comicità basata sullo stravolgimento della lingua può essere occasionale (come era in Totò, per esempio, che di tanto in tanto storpiava un termine, per lo più colto, aulico o – già allora – desueto, per godere nel vederlo – e far godere nel mostrarlo – degradato in uno sgorbio buffo, talvolta mostruoso) oppure essere continuo (sull’errata pronuncia di un termine o su un suo doppio senso, sugli errori grammaticali e sintattici, sull’acciaccamento del lessico, vuoi alto, vuoi basso) e allora trae efficacia dall’invenzione di una specie di neolingua che in fretta diventa la cifra del comico, che così finisce per diventare strumento della sua stessa invenzione (se i testi sono i suoi).
Ne abbiamo visti tanti, di questo secondo tipo – fittissime sequenze di strafalcioni e fraintesi, di tempi e modi verbali pressoché anarchici e di doppiette anacoluto-pausa, di frasi dalla demenza surreale o di luoghi comuni stravolti (quasi sempre scivolando nella maniera) – e quasi tutti negli ultimi due o tre decenni: da Frassica a Bergonzoni, dai Fichi d’India ad Albanese, da Banfi a Zalone, molte neolingue, molto manierismo.
Questo tipo di comicità esige uno sforzo inversamente proporzionale al risultato: l’inaudito e l’estemporaneo hanno spesso efficacia dirompente, il meditato e il collaudato annoiano presto, quasi sempre (e perdono spontaneità, che poi è grave ipoteca su tutti i tipi di comicità).
[Sì, confesso che non mi piace affatto questo tipo di comicità. Mi pare troppo protesico e nelle protesi non scorre mai sangue.]

Zalone, per esempio, cioè Luca Medici. Per quanto ancora potrà continuare a strapparci quel sorriso che certifica la nostra compiaciuta soddisfazione nel trovarci culturalmente e moralmente superiori ai suoi coatti tanto sguaiati (però dalla disarmante innocenza animale)? Tra poco avranno dignità di citazione e ci supereranno in caratura iconica.
E per quanto tempo potrà riproporci – in parodia – la precipua fenomenologia del cantante imitato? Già Vendola si sforza di aderire il più possibile all’imitazione e tra poco l’imitatore si troverà senza più neolingua, scippatagli da Vendola: sarà vero teatro – o cabaret – dell’assenza, e Zalone sarà esiliato in qualche genere serio. Fine.

Due o tre cose


Quest’anno parleremo molto dell’Unità d’Italia, sicché da subito conviene dire due o tre cose che a mio parere non possono e non devono restare sottintese, come vorrebbe chi ha interesse a che siano deliberatamente eluse, per essere meglio rimosse o, peggio, mistificate. Vorrei legarle tutte in una – e vedrete che non è solo per comodità espositiva – nel pensiero di uno di quei tizi che fu fra i primi ai quali scappò detto un “noi italiani”. Più d’uno, in verità, perché parlo di Niccolò Machiavelli e dei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), dove l’Italia non è più solo mito, come in Dante o in Petrarca, ma storia e – più di tutto – questione politica. Qui, infatti, l’Italia è detta “provincia divisa”, e nella divisione è inteso un limite, posto a tutti e a ciascuno come impedimento a farsi nazione. È in questo limite che la nazione resta irrealizzata ed è oltre questo limite che invece supera – eccede – l’insieme di quanto è dato come etnico, geografico, linguistico, ecc. Possiamo dire che l’Italia si comincia a intravvedere quando infine – e finalmente – si postula il primato della politica sulla morale, e quello della volontà sul carattere. In Machiavelli la nazione non è destino, tantomeno è incarnazione di un narrato mitologico, forse non è nemmeno nostalgia dell’antica Roma come è parso a molti: l’italiano che non c’è – quello del quale Machiavelli lamenta la mancanza – non è l’erede dell’impero che fu smembrato dai barbari, ma è la prefigurazione del cittadino nel suo primordiale stadio di suddito. La polis è superata, la foederatio l’assorbe e la proietta in Stato.

So bene che per certi versi questa lettura di Machiavelli sembrerà “troppo moderna”, ben oltre la modernità che il suo pensiero ha contribuito a fondare. Tuttavia penso che su Machiavelli pesi un pregiudizio: si dice che nel suo pensiero non vi fosse posto per la morale, ma il fatto è che per “morale” si intende “morale cristiana”, mentre si trascura il fatto che una morale regge la sua costruzione, ed è quella precristiana (se si vuole, pagana). “La nostra religione [il cristianesimo] ha glorificato più uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra [se si vuole, il paganesimo] lo poneva nella grandezza d’animo e nella fortezza del corpo e in tutte le cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra [quella cristiana, da intendersi come “religione che ci ha reso tali qual siamo”] richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vedere, adunque, pare che abbia renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare vedendo come l’universalità degli uomini per andare in paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle”. Qualche dubbio su chi siano gli “uomini scelerati”? Un aiutino? Il termine si trova anche nei Ricordi di Guicciardini, col quale Machiavelli ebbe molto a conversare, e qui compare quando si parla della “caterva di scelerati preti”. Il cristianesimo e i suoi propagandisti – gli “scelerati preti” – come veri nemici della nascita di un’Italia unita.

Il mai dimostrato assunto che la grandezza degli italiani sia in relazione alla particolare coincidenza di Stato e Chiesa sulle vestigia dell’antica Roma è interamente ribaltato: “Poiché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno ripugnanza [cioè non possono essere contestate]. La prima è che per gli esempi rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione […] Abbiamo adunque colla Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obbligo di essere diventati senza religione e cattivi”. La religione della Chiesa romana come corruttrice dell’antica morale e come impedimento ad ogni nascere di religione civile. “Ma di obbligo ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa […] Non essendo adunque stata la Chiesa potente da occupare la Italia né avendo permeso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo ma è stata sotto più principi e signori dai quali è nata tanta disunione e debolezza che la si è condotta a essere preda, non solamente dei barbari possenti ma di qualunque l’assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri”. E qui, volendo, si possono saltare a pie’ pari tre secoli e mezzo, dal 1519 arrivare al 1861 o al 1870, e trattare dell’“obbligo” che infine si risolse con quel “metro cubo di letame” (come affettuosamente lo chiamava Garibaldi) che dai tempi di Machiavelli, e da molto tempo prima, sedeva sul Soglio Pontificio a tenere la “provincia divisa”.

domenica 2 gennaio 2011

Sto aspettando



Oh, ha citato il Sermone 34 del suo Agostino, uno dei suoi sermoni più belli... E poi ha detto che “la bella musica è in grado di esprimere qualcosa del mistero dell’amore di Dio per noi e del nostro per Lui”... Oh, sfavillante sineddoche. Ci conferma che Ratzinger è davvero uno coi coglioni: uno teologico, l’altro liturgico... Poi ha ricordato ai ragazzini che il loro canto è un servizio e ha paragonato il loro coro a quello degli angioletti in cielo: oh, quanto è sensibile, ’sto Papa, e quanto è delicato...

Sto aspettando che uno stronzo qualsiasi dei nostri vaticanisti – dei nostri lo sono quasi tutti, non aspetto invano – si strugga nel consueto esercizio di sdolcinato servilismo laudatorio, stavolta a commento del messaggio che Benedetto XVI ha rivolto alle voci bianche della Federazione Internazionale dei Pueri Cantores, giovedì scorso. Neanche il più lontano cenno al fatto che per secoli il Papato tenne bianche quelle voci con la castrazione, quanto scommettiamo?


Si potrebbe dire


Pare che il Riformista perda in un sol colpo la direzione di Polito e la proprietà di Angelucci. Non fosse già morto da un pezzo per colpa di entrambi, si potrebbe dire: che culo!


E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci


Il Motu proprio per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario del 30 dicembre è stato accolto per lo più con grande favore: si è parlato di “serietà e impegno” (La Stampa), di “trasparenza” (Corriere della Sera), di “Mani pulite in Vaticano” (il Giornale), e c’è chi ha scritto che ora “il Vaticano non è più un paradiso fiscale” (Il Sole-24 Ore), che “il Papa ha chiuso i cancelli del paradiso fiscale” (Libero) e che da oggi in poi “basta misteri” (Il Secolo XIX), il Papa impone norme antiriciclaggio” (Il Tempo). È davvero così? Basta leggere il documento per capire che in pratica non cambia niente e che è davvero esagerato parlare di “una rivoluzione” (Ansa). Tutto sta nel cogliere la differenza troppo spesso trascurata tra Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. In pratica, col Motu proprio, la Santa Sede si riserva il controllo delle operazioni finanziarie e monetarie dello Stato della Città del Vaticano, e si impegna a far propri i principi e gli strumenti giuridici dei quali la comunità internazionale si è già dotata da tempo. Sì, molto bene, ma in ultima analisi quale autorità sorveglierà sui sorveglianti? Quis custodiet ipsos custodes? Il Papa. E non potrebbe essere diversamente, perché è il Papa che assume nella sua persona il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. La legge CXXVII dello Stato della Città del Vaticano che il Papa firma il 30 dicembre, e alla quale fa richiamo nel Motu proprio, è una sua emanazione, come l’Autorità di Informazione Finanziaria contestualmente costituita lo è sul piano esecutivo, come gli organi deputati a esercitare una eventuale azione penale lo sono su quello giudiziario: il Papa si dà delle regole, si fornisce dello strumento per rispettarle e si riserva di darsi sanzione nel caso vengano violate. E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci, anche se è una evidente presa per il culo.

Dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede

Discutendo sui cattolici perseguitati in Cina, abbiamo messo in evidenza il fatto che “non sono fatti oggetto di persecuzione in quanto credenti, né in quanto cristiani, né in quanto seguaci della dottrina cattolica”, ma “perché riconoscono come loro vescovi solo quelli nominati da Roma, disconoscendo quelli nominati da Pechino” e abbiamo sollevato obiezione a Benedetto XVI che ha definito tutto ciò una “limitazione della libertà di religione e [addirittura] di coscienza”. Ci è d’obbligo, ora, parlare dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede. Non già di cattolici ai quali lo Stato scippa la libertà di avere vescovi d.o.c., imponendo loro il solo ma insopportabile giogo dell’obbedienza a una gerarchia diversa da quella vaticana, non apostolica ma di partito: parliamo di cristiani (anche non cattolici) perseguitati e uccisi per il solo fatto di essere cristiani, per lo più da musulmani.
È il caso dell’orribile strage di copti ortodossi in Egitto, ieri, e delle deprecabili violenze ai danni dei metodisti dell’Associazione cristiana in Nigeria e dei cristiani della Chiesa Caldea in Iraq, a Natale. [En passant, è da segnalare il fatto che non si tratta di cattolici apostolici romani, ma che il Papa ne lamenta la persecuzione come fosse ai danni di membri della comunità sulla quale vanta “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale” (Codice di Diritto Canonico, can. 331), includendovi dunque anche i cristiani che non riconoscono tale autorità nell’ambito della “Chiesa universale” come promanazione di Cristo. Si tratta di una forzatura ecumenica che si traduce in una ulteriore ma assai più sottile violenza ai danni dei cristiani non cattolici – o ai cattolici di rito non romano – perseguitati dai musulmani: annessi come martiri di una fede che per tanti aspetti (ecclesiologici, ma anche cristologici) non è da essi pienamente condivisa.]

Superfluo dire che l’uso della forza è una costante di tutti i conflitti interconfessionali ed è da condannare sempre: non potremmo soffermarci, come qui facciamo spesso, su quella che Karlheinz Deschner ha giustamente definito Kriminalgeschichte des Christentums senza essere sensibili in egual misura ai crimini commessi in nome dell’islam. Superfluo dirlo, ma diciamolo lo stesso, a scanso di ogni equivoco: bruciare un uomo – un cataro del XIII secolo, un templare del XIV secolo, un ebreo del XV secolo, un nolano del XVI secolo, una strega nel XVII secolo, ecc. – è cosa brutta e non si fa.
Le ragioni principali sono due. La prima, di natura religiosa, vieta all’uomo di compiere violenza sul suo simile, in quanto creatura di Dio; c’è tuttavia da segnalare che sul concetto di simile c’è (o c’è stata) sempre controversia in ogni confessione religiosa, con la tendenza a restringerlo all’ambito dei simili per fede. La seconda, di natura umanistica, allega alla vita umana un valore sacro (non necessariamente trascendente: il sacro può non essere riflesso del divino, ma del primato umano sul mondo) e che perciò può essere negato al simile che sia identificato come nemico dell’umanità; anche qui non è raro constatare controversia, però sul concetto di umanità.
Ci sarebbe una terza ragione, capace di sanare ogni controversia: per quanto possa essere diverso da me, per quanto diversa dalla mia possa essere la sua idea di umanità, nessun uomo può essere bruciato: né in nome di Dio, né in nome dell’umanità. Trattandosi di assoluti, Dio e umanità tendono infatti a eliminare i relativi e quasi sempre finiscono col non farsi scrupoli nel ricondurre il molteplice all’unità. Questa terza ragione rigetta il fondamento totalitario che è nelle altre due e trae argomento dal diritto intenso come convenzione tra diversi che si danno uguale regola, in libera e responsabile autodeterminazione. In virtù di tale ragione nessun Dio e nessuna idea di umanità possono porre una ipoteca sulla convenzione, che così non può essere data come universale né eterna, e perciò non può sacrificare l’individuo a un assoluto.

Anche qui dobbiamo sollevare obiezione a Benedetto XVI, che su questi ultimi episodi di violenze a danno di cristiani si è così espresso: “Assistiamo oggi a due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza” (Angelus, 1.1.2011).
L’obiezione è data dal fatto che solo nella sfera privata gli assoluti possono avere piena dignità: in quella pubblica hanno tendenza a generare conflitti che sono sempre violenti, anche quando non cruenti. A farne le spese sono sempre i più deboli e così è stato per un lungo tratto della storia del mondo cosiddetto cristiano. Non si è ancora spenta l’eco dei papi che condannarono chiunque rifiutasse la piena obbedienza alla loro autorità morale e sociale: sul piano storico è assai prematuro chiedere all’islam ciò che al cristianesimo è riuscito solo tardivamente e con grande difficoltà. Parrebbe, insomma, che a lamentare i morti di queste ultime settimane abbiano più titolo i cosiddetti laicisti che il Papa.
Si tratta di vittime cristiane, ma non solo: sembra che anche stavolta sia stato difficile mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori e che sia in Egitto che in Nigeria a violenza sia stata opposta violenza, anche se di minore entità per la considererevole sproporzione di forze in campo.


sabato 1 gennaio 2011

venerdì 31 dicembre 2010

[...]



Passeggere: Mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Venditore: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere: Ecco trenta soldi.
Venditore: Grazie, illustrissimo: a rivederla.

giovedì 30 dicembre 2010

Un altro giornale-partito





Boh


Aruba è un internet service provider che prende il nome dall’isola caraibica sulla quale è ambientato lo spot che pubblicizza i suoi prodotti. Non può esservi sfuggito: è quello che apre sul primo piano di una ragazza che dice: “Benvenuti in Aruba!”, poi lento zoom indietro a mostrare una serie di armadioni rack zeppi di server, piantati su una bianca spiaggia da sogno… Ecco, io continuo a non capacitarmi della scelta: la sabbia e la salsedine non dovrebbero essere micidiali insidie per quelle delicatissime apparecchiature? E tu, signor Aruba, dove vai a piazzarmi il gioiellino?

Dopocena


Ogni libertà – anche quella che l’individuo esercita sulla sua proprietà privata – deve darsi un limite nel rispetto dell’altrui libertà: nessuna teoria può dirsi liberale immaginando tali differenze tra individui da generare ingiustizia sociale. Non già perché l’ingiustizia sociale sia moralmente deplorevole, ma perché contraddice il fine ultimo di una società pienamente liberaldemocratica (dunque liberata da ogni condizionamento della morale) che è il massimo utile per il massimo numero di individui. E tuttavia, dinanzi a un vero e proprio ricatto come quello che la Fiat pone ai suoi dipendenti, quale soluzione può dirsi liberaldemocratica? Ritenere che gli operai debbano cedere al ricatto o farsi tentare dal filoperaismo di Gobetti? Andare oltre e dichiarare legittime, in casi come questi, le azioni di tipo luddistico?
Dice: le macchine sono mie e, se voglio, devo poterle trasferire a Cracovia o a Tirana? D’accordo, ma se io ti garantisco che prima te le distruggo, sei più liberaldemocratico tu o io?


“l’hobby di dio”


Un commento anonimo a un post qui sotto mi ha dato molto da pensare. Ambiguo, laconico e fuori tema – “l’hobby di dio” (tutto in minuscolo, non una parola di più) – mi è parso poter essere puntuale, eloquente e pertinente, come una specie di insulto, in qualche modo meritato. L’avrei fatto scivolare via con noncuranza – mi sarei detto d’averlo frainteso – se non fosse che ieri sera ho dovuto compilare una lista di “opere che reputi necessarie per iniziare a studiare la Chiesa da un punto di vista storico-scientifico”, chiestami via email da un lettore, e mi sono reso conto di ciò che già sapevo, ma che è stato doloroso constatare: da due decenni e più, quasi tre, ho una lettura ossessivo-compulsiva, pressoché monotematica anche se il tema è infiltrato in ogni dove: insomma, coltivo una mania, mi diletto di un vizio: ho “l’hobby di dio”.
Fosse un mestiere, avrebbe senso anche da ateo, ma come dopolavoro che mi significa? Ho trovato una risposta, ma non avrebbe senso senza aver prima detto del commento di Berlicche a due articoli su La Stampa di ieri (Le amnesie dei cattolici in politica di Gian Enrico Rusconi e I cristiani e il peccato colonialista di Vittorio Emanuele Parsi): nell’obiezione a Berlicche c’è la risposta che mi sono dato. Sarò breve, nei limiti del possibile.

Parsi scrive: “Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, […] la religione cristiana viene […] strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico […] Una tale identificazione assoluta […] è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalistici e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato”. Io penso che qui Parsi volesse scrivere “geopoliticamente”, ma sia stato trattenuto da un pudore – diciamo – ruiniano.
Oltre: “L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni”. Qui Parsi non lo scrive, e chissà se lo pensa, ma lo dico io al posto suo, mettendomi nei suoi panni: “Tutto questo sbatterci per ricristianizzare l’Occidente e cosa ce ne viene in cambio? Che ci bruciano vivi in Asia e in Africa”. Parsi si limita a scrivere: “Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo e l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione”.

Questo articolo sembra ingenuo – ripeto: sembra – perché sembra ignorare che due religioni potenzialmente universali sono rivali di fatto, prim’ancora che nel portato culturale (cioè politico), in quello confessionale (cioè teologico). Non è ingenuità, quella di Parsi: in solido ai tentativi della Santa Sede di mediare con l’islam un’alleanza contro il secolarismo (cioè la modernità), lamenta l’incompenetrabilità degli incompenetrabili, in pratica Parsi e la sua Chiesa piangono perché non riescono a fottere. Un professorone del suo livello non può ignorare che, a cimentarli l’uno con l’altro, degli highlanders (cioè dei monoteismi) “there can be only one”: lamenta che al cristianesimo non sia data questa opportunità dove le sue radici sono “oggettivamente evidenti” e le sia preclusa dove non lo sono affatto, anzi, dove vi è traccia solo del portato geopolitico che si è espresso col colonialismo. A Parsi pare sfuggano le linee strategiche e tattiche dell’inculturazione cristiana nei paesi extra-europei. Non è ingenuità: è malafede.

Poco da dire su ciò che scrive Rusconi, tranne il fatto che come al solito è chiaro e onesto. Una sola cosa, che poi è quella ripresa da Berlicche: “una constatazione” che a Berlicche sembra “quasi un avvertimento”. Rusconi scrive – lo dico come l’ha letto Berlicche – che “se i cattolici vogliono contare in politica, il fatto religioso nella politica non deve entrarci”.
Questo entrarci – che in Italia, almeno dal 1985 in poi, ha avuto il segno del ruinismo, cioè della reconquista arcigna – è quello che è intollerabile, e si resiste come si può: qui, in Occidente, con la forza degli argomenti; con la violenza, dove gli argomenti supportano solo la stessa violenza che è in ogni monoteismo. Se qui in Occidente ci si limita alle “pallottole di carta” come le ha chiamate Ruini, irridendole, è solo perché si ha coscienza che di più non è lecito: alla violenza del monoteismo cristiano, che ormai si esprime solo nella pretesa di una morale universale, eterna, trascendente e non negoziabile, che in passato non si è mai fatto scrupolo di imporre con la forza temporale e che oggi non ha smesso di imporre con quanto gliene è residuato, si oppone la nuda ragione, depurata da ogni ipoteca che la fede pretenderebbe di imporle. Dove il rifiuto della pretesa cristiana non è depurato da ogni fede, ma anzi prende quella che ha a disposizione e la brandisce come un’arma, è difficile far differenza tra attacco e difesa: “there can be only one”, e tutto è lecito. E un ateo davvero non riesce a far differenza tra un Dio e un altro: tutti ugualmente sanguinari, o sgozzano tra urla e schizzi o vampirizzano dolcemente svenando. Sempre sangue umano è.

Poi ci sarebbe una questioncella: se e quanto il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico”. Ma qui sarebbero necessarie pagine e pagine. Poi ci sarebbe ancora da dire due parole sulla foto scelta da Berlicche per fortificarci nella certezza che in Pakistan e in India, in Iraq e in Egitto, in Sudan e in Nigeria, i cristiani vengano bruciati vivi: foto di carbonizzati, da fidarsi siano cristiani (neanche vado a controllare in rete, ci credo, ci credo). Qui è tutto più semplice: i cadaveri carbonizzati si somigliano un po’ tutti e basta far finta che quelli della foto siano tutti ebrei mandati al rogo dal XIV al XVII secolo (i musulmani lo fanno con quei 6 secoli di differenza che li fa più giovani dei cristiani), tranne quello in primo piano, che invece faccio finta sia Giordano Bruno – e capisco l’ardore teologico di tutti i monoteismi.
Che obietta, Berlicche, all’articolato de La Stampa? “Il cristianesimo, in quelle terre, è di gran lunga più antico delle ideologie di coloro che cercano di distruggerlo. Maometto, nella sua resistibile ascesa, di seguaci di Gesù che stavano lì prima di lui ne accoppò parecchi. […] È chiaro che questa storia del colonialismo è una scusa, un costrutto ideato da chi vuole vedere versato quel sangue per poi, nella migliore delle ipotesi, lavarsene le mani. Da chi maschera la ferocia dell’odio accusando la vittima di colpe immaginarie. E che è molto più presente qui, sui nostri media, che là, dove le stesse pietre parlano in modo diverso”.
Se e quanto – qui – il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico” è in bella evidenza: la teoria (costrutto culturale) che il Medioriente sia cristiano da ben prima di diventare musulmano (6 secoli) non è declinazione dell’assunto (messaggio teologico) che il tuo Dio sia antecedente a tutto? Ma gli dei precolombiani che Pizarro rimpiazzò con la Santa Trinità non le erano antecedenti? Non erano radicalmente autoctoni alle Americhe? Inti e Quilla possono dirsi di gran lunga più antichi dell’ideologia di Gesù e Maria che li ha distrutti per mano gesuita? E a cosa può servir loro, ora, che lo si riconosca?

Per chi è riuscito ad arrivare fino a qui, eccoci a spiegare questo mio “hobby di dio”. La mania che coltivo, il vizio col quale mi diletto, è questo Dio del cazzo che ormai sta tutto nella costruzione psicologica, culturale, politica – antropologica – che s’è eretta addosso e che ormai abita come fantasma. E dunque l’hobby è della storia, eventualmente dell’architettura.


lunedì 27 dicembre 2010

D’istinto


“Si tratta di polpette avvelenate che hanno come
obiettivo quello di intaccare la credibilità di Libero?”


L’ipotesi che siano andati a raccontare balle a Belpietro per smerdargli la testata non si può escludere del tutto, almeno in via teorica, ma che c’è più da smerdare? Libero è già da tempo un giornale di merda, forse da sempre. L’ipotesi che le balle se le sia inventate lui, invece, è già più verosimile, ma solo se si accoglie quel pregiudizio che Belpietro non ha mai scoraggiato, ma anzi ha costruito e consolidato sulla sua persona e sul suo stile professionale. C’è una terza ipotesi, la più inquietante, che però nessuno ha finora preso in considerazione: l’editoriale di oggi è un depistaggio anticipato.
Un attentato a Fini sarebbe realmente in programma, e realmente potrebbe essere stato deciso da soggetti vicini a Berlusconi ma, col mettere in giro la voce che invece sarebbe una messa in scena organizzata dai finiani o dallo stesso Fini per trarne un qualche vantaggio alla vigilia delle elezioni politiche di primavera, si prepara il terreno a insinuare, a cose fatte, che Fini è morto perché qualcosa nella finzione è andato storto e il ferimento, che doveva essere lieve, è poi risultato letale.
Con l’editoriale di oggi, insomma, sarebbero poste in essere – insieme – un’intimidazione, se l’attentato non abbia ad esser messo in atto o sì per poi fallire, e una falsa pista, nel caso che si attui e ottenga l’esito voluto. In tal senso non è necessario che Belpietro stia giocando un ruolo attivo, anche se al momento è troppo presto per capirlo: è probabile, anzi, che davvero qualcuno gli abbia rivelato quanto oggi riferiva nel suo editoriale e che, pienamente consapevole o meno di farsi strumento del piano, si sia mosso a fare la sua parte, come al solito, d’istinto. L’istinto del servo che capisce al volo, senza che il padrone debba aprire bocca.

«Primogenito di molti fratelli»


Nell’omelia tenuta la notte di Natale – nel punto in cui ha spiegato come debba correttamente leggersi il «primogenito» che sta scritto in Lc 2,7 – Benedetto XVI ha dato prova esemplare di cosa sia quell’esegesi teologica che definì essenziale al Sinodo della Parola del 2008, quando richiamò “attenzione ai rischi di un’esegesi esclusivamente storico-critica” e ribadì che “non ha fondamento un’esegesi che non sia teologica”: “La conoscenza esegetica – disse – deve intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture”. In pratica, la Bibbia deve esser letta in modo da non entrare in contraddizione con la dottrina e, se la dottrina vuole che Gesù sia figlio unigenito di Maria (sennò cadrebbero due o tre dogmi), «primogenito» non può affatto significare che abbia avuto fratelli: “Luca qualifica il bambino come «primogenito». Nel linguaggio formatosi nella Sacra Scrittura dell’Antica Alleanza, «primogenito» non significa il primo di una serie di altri figli. La parola «primogenito» è un titolo d’onore, indipendentemente dalla questione se poi seguono altri fratelli e sorelle o no”. In pratica, bisogna chiudere un occhio su tutte le altre fonti – testamentarie (1) e non testamentarie (2) – che parlano estesamente di fratelli e sorelle di Gesù (3); e il termine «primogenito» dovrebbere essere inteso in questo senso: “Ci viene detto: Egli è il primogenito di molti fratelli. Sì, ora Egli è tuttavia il primo di una serie di fratelli, il primo, cioè, che inaugura per noi l’essere in comunione con Dio. Egli crea la vera fratellanza – non la fratellanza, deturpata dal peccato, di Caino ed Abele, di Romolo e Remo [sic!], ma la fratellanza nuova in cui siamo la famiglia stessa di Dio. Questa nuova famiglia di Dio inizia nel momento in cui Maria avvolge il «primogenito» in fasce e lo pone nella mangiatoia. Preghiamolo: Signore Gesù, tu che hai voluto nascere come primo di molti fratelli, donaci la vera fratellanza”. Se si rifiuta questa lettura dei vangeli, si incorrerebbe nei “rischi di un’esegesi esclusivamente storico-critica”; se la si accetta, tutto ok, si è letto come si deve. Non so a voi, a me viene da sorridere.
Tutto qui? Non tutto. Nel riportare sul suo sito il testo dell’omelia, Sandro Magister sceglie per titolo l’espressione «Primogenito di molti fratelli», facendo così propria, del tutto acriticamente, l’esegesi teologica rifilataci da Benedetto XVI, senza una sola nota in calce, come se la questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù non fosse altrimenti risolvibile che nel modo suggerito dal Papa. Qui il sorriso mi si trasforma in una smorfia amara.




(1) Il già citato Luca: “Maria diede alla luce il suo figlio primogenito” (Lc 2,7), che poco oltre scrive: “Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli annunciarono: «Tua madre e i tuoi fratelli son qui fuori e desiderano vederti»” (Lc 8, 19-20). Poi Marco, in due passaggi: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano»” (Mc 3, 31-32); “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” (Mc 6, 3). Altre due volte in Matteo: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre ed i tuoi fratelli che vogliono parlarti»” (Mt 7, 46-47); “Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?” (Mt 13, 55-56). E due volte in Giovanni: “Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e là si fermarono solo pochi giorni” (Gv 2, 12); “Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne; i suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e và nella Giudea…»” (Gv 7, 2). Poi, negli Atti degli Apostoli: “Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1, 14); e ancora in Paolo: “In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo attesto davanti a Dio che non mentisco” (Gal 1, 18-20). Per tacere dei vangeli apocrifi, naturalmente.
In realtà, anche in Matteo era presente un «primogenito» prima che fosse espunto, non più di una ottantina di anni fa. Nel Novum Testamentum Graece et Latine secundum Matthaeum si legge: “Non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum et vocavit nomen eius Iesum” (1, 25), che implica peraltro una conoscenza carnale di Maria da parte di Giuseppe dopo la nascita del primogenito. Orrore!  Ed ecco che nella editio princeps del 1971 tutto è sterilizzato in un tranquillizzante senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”.

(2) Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa, che per Benedetto XVI è da considerare “l’esponente più qualificato della cultura cristiana del suo tempo in contesti molto vari, dalla teologia all’esegesi, dalla storia all’erudizione” (Udienza, 13.7.2007), nella sua Historia Ecclesiae scrive: “Egli comparve a Giacomo, uno dei fratelli del Salvatore” (I, 12, 5); “In quel tempo Giacomo, fratello del Signore, figlio di Giuseppe…” (II, 1, 2); “Giacomo, fratello del Signore, succedette all’amministrazione della Chiesa insieme con gli apostoli” (II, 23, 4); “Giuda, che era fratello carnale del Salvatore...” (III, 19, 6);  “Della famiglia del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, suo fratello secondo la carne…” (III, 20, 1).

(3) Sul punto si è spesso opposta l’obiezione che ai tempi di Gesù, in Galilea, il termine fratello equivalesse a quello di cugino. Il fatto è che questo vale per l’aramaico, ma i vangeli sono scritti in greco e qui si parla di αδελφοι (fratelli), non di εξαδελφοι (cugini). C’è chi ha provato a sostenere che si trattasse di fratellastri, figli di Giuseppe nati da un precedente matrimonio con una Maria di Cleofa che però sarebbe ancora viva quando Giuseppe prende in moglie Maria, madre di Gesù. Giuseppe bigamo? Orrore! [Sulla questione si consiglia la lettura di David Donnini (Cristo, una vicenda storica da riscoprire, Erre Emme Edizioni 1994) e di Robert Eisenman (James, the brother of Jesus, Faber and Faber 1997).]

In Cina non è in discussione la libertà di culto


Ufficialmente atea, la Repubblica Popolare Cinese concede all’individuo la libertà di credo religioso, ma solo dal 1982. Già dal 1979, comunque, ai cristiani era stato concesso di poter celebrare pubblicamente il Natale ed era stata autorizzata la riapertura delle chiese cattoliche chiuse nel corso della Rivoluzione culturale (1966-1969). Sono notizie che traggo da Wikipedia, alla voce Chiesa cattolica in Cina, che non registra discussioni sul punto. Altrettanto incontestata, alla voce Cina, è la notizia che è cristiano il 3,5% dei 1.330.503.015 cinesi: poco più di 46 milioni, 16 dei quali sono cattolici (1,1%).
Nessuna discussione neppure sulla cifra dei cattolici che sono perseguitati (circa 4 milioni), che – questo è il punto troppo spesso trascurato non sono fatti oggetto di persecuzione in quanto credenti, né in quanto cristiani, né in quanto seguaci della dottrina cattolica: sono perseguitati per il solo fatto che su un punto – un solo punto disobbediscono al governo della Repubblica Popolare Cinese per tener ferma obbedienza a quello della Santa Sede. Contrariamente a quelli dell’Associazione patriottica cattolica cinese (poco più di 12 milioni), che infatti non subiscono alcuna persecuzione, quelli della cosiddetta Chiesa sotterranea sono i soli cattolici perseguitati e solo perché riconoscono come loro vescovi quelli nominati da Roma, disconoscendo quelli nominati da Pechino.
Possiamo considerarla persecuzione per motivi di fede? Non proprio. E tuttavia, urbi et orbi, il Papa dice: La celebrazione della nascita del Redentore rafforzi lo spirito di fede, di pazienza e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché‚ non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza. L’amore del Dio con noi doni perseveranza a tutte le comunità cristiane che soffrono discriminazione e persecuzione, ed ispiri i leader politici e religiosi ad impegnarsi per il pieno rispetto della libertà religiosa di tutti”.

Non è bello che le sue parole siano state censurate in Cina, ma neanche è bello che Sua Santità dica cazzate: quali limitazioni alla libertà di religione e di coscienza sono poste in Cina a chi “cred[e] in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibilie in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli”  e nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio, ecc.? E come si può mettere sullo stesso piano un paese nel quale ben 42 milioni di cristiani godono di libertà di culto e quelli nei quali i cristiani sono sgozzati per il solo fatto di essere cristiani? Infine – ed è questo il vero nodo della questione si può perseverare nella fedeltà a Cristo solo avendo un vescovo nominato da Roma?
Evidentemente, sì. Evidentemente, un cattolico gode di piena libertà di religione e di coscienza solo quando a fargli da pastore sia un vescovo deciso dal Papa. Poco importa che in tutto sia obbediente alla dottrina cattolica e ai suoi dogmi, poco importa che sottoscriva il Credo, poco importa che onori i sacramenti, poco importa che tutto questo gli sia concesso da uno Stato che pure nega molti altri diritti civili: se il vescovo non è quello deciso dal Papa, il cattolico deve considerarsi perseguitato. Ma se aderisce dell’Associazione patriottica cattolica cinese, e così non è perseguitato, è da considerarsi cattolico? Sul punto parrebbe esservi almeno un po’ di ambiguità da parte della Santa Sede, che, quando deve dare i numeri dei cattolici in Cina, mette nel conto anche quelli che non sono della Chiesa sotterranea, come se quelli dell’Associazione patriottica cattolica cinese fossero cattolici a tutti gli effetti: evidentemente perseguitati, ma senza saperlo o complici della stessa persecuzione ai loro danni.

Ripetiamo: non è bello che le parole di Benedetto XVI siano state censurate in Cina. Ripetiamo: neanche è bello che Sua Santità dica cazzate, e al solo scopo di riaffermare la propria prerogativa di nominare vescovi. Altra cosa sarebbe se i vescovi fossero abitualmente scelti dai fedeli, perché in questo caso al gregge sarebbero imposti contro la loro volontà. Ma è allo stesso modo che vengono imposti quelli nominati dal Papa, come dimostrano i molti casi nei quali il gregge si è dovuto tenere un pastore non gradito, perché così si era deciso a Roma, e in questi casi non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi che si fosse in presenza di una limitazione alla libertà di religione e di coscienza, tanto meno si è ventilata la possibilità che il dovere obbedienza a un vescovo sgradito fosse persecuzione.
Considerazioni che valgono solo su un piano strettamente logico, perché ciò che è messo in discussione in Cina non è la libertà di culto, ma il pieno controllo dei fedeli: Roma lo esige e Pechino lo rifiuta, con una determinazione che non si fa scrupolo di arrivare a durezza. Non accade per i buddisti, per i confuciani e per i musulmani, non accade per i cristiani e nemmeno per tutti i cattolici, ma solo per i cattolici che pretenderebbero di fondare anche in Cina, come è concesso loro in gran parte del mondo libero, quel sistema di doppia cittadinanza che è lo strumento attraverso il quale alla Chiesa è assicurata ingerenza nella vita dello Stato. Questa ingerenza non è mai resa operativa senza una diretta azione episcopale, che a sua volta è direttamente guidata dalla Santa Sede. In Cina non è in discussione la libertà di culto, ma il peso che Roma vorrebbe avere anche a Pechino. E Pechino oppone resistenza, come avesse ben presente il pericolo.


sabato 25 dicembre 2010

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Buon sangue non mente



Com’era prevedibile, l’attenzione all’intervista che Barbara Berlusconi ha concesso a Nicoletta Ferrari (Vanity Fair, 51/2010) si è appuntata per lo più sulle risposte date da “figlia di”, anche se dopo le polemiche seguite all’intervista concessa l’anno scorso a Giovanni Audiffredi per la stessa rivista (Vanity Fair, 32/2009) non potevano essere che risposte prive di spontaneità, calibrate su un registro che salvasse la capra della sua personalità e quel cavolo di padre. Il risultato è infelice: sembra la sorellastra, ma farmacologicamente sedata. Più interessante è soffermarsi sull’unico passaggio che a mio parere illumina davvero il tipino.


Dunque, riassumendo: Barbara Berlusconi condivide l’analisi di Michela Marzano, ma a suo parere ci troveremmo dinanzi a una fissazione dell’immagine femminile, non già a una regressione. Non deve aver letto Sii bella e stai zitta o deve averlo letto male: Marzano non parla mai di regressione, ma appunto di antiquati stereotipi che la macchina berlusconiana ha legittimato e rinvigorito prima e dopo la sua discesa in campo”, prima col giustificarli in una compiaciuta celebrazione mediatica che li ha aggiornati e dopo nel  radicarli in quella dimensione dell’immaginario collettivo dove all’immagine del maschiocomesideve avesse a corrispondere quella di una femminacomesideve che è proprio quella bambola che anche a Barbara Berlusconi non piace. Pubblicità, tv e giornali hanno fissato e rafforzato questi stereotipi, sicché i modelli di comportamento hanno trovato in essi una ratio che li sosteneva e incoraggiava.
Si può non essere d’accordo con l’analisi di Michela Marzano, ma non si può formalmente condividerla per rigettarne la sostanza, tanto meno nell’individuare laicamente le cause della fissazione in una regressione della figura femminile in ambito domestico: è come se, a cercare le ragioni del perché le donne siano apprezzate solo e quando sono belle oche, si riuscisse a trovare solo l’avvenuta svalutazione del suo ruolo di madre e casalinga. Par di capire che per una donna non vi siano che due alternative: o regina del focolare o zoccoletta di Drive in, fatta eccezione, ovviamente, per quelle donne eccezionali che riescono ad essere ottime mogli, ottime madri, ottime casalinghe e ottime donne in carriera, come Barbara Berlusconi si dipinge con la buona grazia di una qualche falsa modestia. Per tutte le altre non dovrebbe esserci altra scelta che riprendere autorevolezza nel loro tradizionale ruolo domestico o rinunciarvi per chiedere parità di diritti e di opportunità, ma senza lamentarsi troppo se poi finiscono nella stalla di Lele Mora, amico del babbo, ma solo per caso.