giovedì 26 maggio 2011

32 minuti di Porta a porta


Troppi partiti, troppe liste civiche, la scheda era un lenzuolone talmente pieno di simboli che il povero elettore ha fatto fatica a trovare quello del Pdl. Col pragmatismo che lo contraddistingue, poco manca che butti lì l’idea di stamparli di dimensioni differenti, in proporzione al numero dei voti raccolti all’elezione precedente, un bel Pidiellone al centro.
Questo spiegherebbe il calo del suo partito, ma il calo delle preferenze a 28.000? Sul simbolo della lista c’era scritto il suo nome e quindi l’elettore avrà pensato che bastasse sbarrarlo per esprimere la preferenza in suo favore. Ma sul simbolo della lista non c’era il suo nome, quando ne prese 53.000? In generale, poi, com’è che le cose sono andate tanto male?
Colpa delle tv, tutte schierate contro di lui. Qui la balla è così grossa che perfino Bruno Vespa si vede costretto a fargli notare, giusto per darsi un tono da giornalista, che 5 emittenti su 7 sono state multate per averlo favorito. Non fa una piega: gli hanno chiesto un’intervista e non si è sentito di negarla, gli sembrava scortesia. Sì, ma la multa inflitta dall’Agcom? Garantisce che non sarà pagata, deve far pacchetto con la moratoria sugli immobili abusivi da abbattere e col condono delle multe per infrazioni al codice stradale (liberticida non meno di quello civile e di quello penale).

Milano e Napoli sono grandi aziende, hanno bisogno di un sindaco che s’intenda di gestione aziendale. Non vuole esagerare, è evidente, e infatti non chiude il sillogismo, ma lo lascia all’intelligenza degli elettori: solo un imprenditore può fare il sindaco, il governatore, il premier. Infatti, chi vota De Magistris, uno che non ha mai gestito neanche un chiosco di sfogliatelle, non ha cervello. Chi vota Pisapia non ne ha di più, e quel poco dev’essere cervello di frocio, di drogato, di brigatista o di musulmano. Votare quei due è una follia pura, se ne vuole un esempio? Ciò che il governo ha promesso a Napoli, se sarà eletto Lettieri, non le sarà dato, se vince De Magistris. Dimostrata la follia di votare contro la sua indicazione.
La sofisticata argomentazione avrà stancato troppo il telespettatore, peraltro è poco applicabile a Milano, che al governo le promesse può estorcerle, dunque stacchiamo un attimino dal ballottaggio e passiamo a parlare dei massimi sistemi nazionali, che è meglio.

Forse non troppo meglio. Il fisco, per esempio. Siamo davanti al fortunato inventore della formula “meno tasse per tutti”, che dunque ha il tema in pugno e potrà finalmente dirci come, quando, con quali coperture. Saranno dettagli, perché gli basta ripetere che lo farà.
Anche qui a Vespa scappa un’obiezione (avrà pippato e si sente ardimentoso:) “Scusi, presidente, ma lei è stato eletto per farlo e finora non l’ha fatto” (non così letteralmente, molto più sofficemente, come a sottintendere: quale mala sorte le si è messa di traverso, presidente?). E qui lui s’incazza un poco, come a dire: “Ma che cazzo volete? Meno tasse non si può, son cose che si promettono per prometterle, come quando per troppo idealismo ti scappa un ti amo con una puttana”.

Vespa si morde la lingua, capisce di aver sollevato una contestazione scostumata. Per riparare, passa al caso Ruby, con l’intenzione di offrire: “Ma poi, presidente, come cazzo le è venuto di chiamare in Questura e fare concussione di persona? Non poteva farla fare a un dipendente?” (non così letteralmente, molto più complice, come a sottintendere: lei è una affascinante testa di cazzo, presidente, sarà mica che l’ha fatto in buona fede, per fare una buona azione, per coltivare buone relazioni diplomatiche con Mubarak?).
Cross pennellatissimo, arriva il bomber e spara – più o meno – che nessuno gli può impedire di essere spontaneo e generoso. Doppio palo interno: vale come goal anche se ritorna in campo.

Qui cambio canale, sennò sfondo il televisore.


 

mercoledì 25 maggio 2011

«Bouche de la loi»

“I magistrati non sono un partito, non sono un potere autonomo, non sono eletti. Governano la giustizia, la amministrano in nome del popolo solo se e in quanto si comportano come «bocche della legge», questo diceva il grande giurista democratico Piero Calamandrei”
Qui Radio Londra, 24.5.2011


L’art. 104 della Costituzione recita: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Più che implicito, dunque, che essa stessa rappresenti un “potere”, quello giudiziario, che è “altro” da quello legislativo e da quello esecutivo, secondo la classica tripartizione. “Potere”, quindi, e “autonomo”. Questa è la prima delle puttanate dette da Giuliano Ferrara, ieri sera, ma la seconda non è da meno.
Non sono riuscito a trovare in alcun punto dell’opera di Piero Calamandrei un riferimento al giudice come mera «bocca della legge», ma non dubito possa esservi. Il fatto è che non potrà esservi che come evocazione della celebre espressione «bouche de la loi» coniata da Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748). Poco male che Calamandrei si prenda un merito di Montesquieu grazie all’ignoranza di Ferrara, la questione è un’altra: l’idea di un giudice come mera «bocca della legge» nasce come pilastro della monarchia costituzionale e verrà subito sostenuta con forza dai giacobini.
Prima, con l’Ancien Régime, il giudice era un funzionario alle dipendenze del re e amministrava la legge scritta dal re, ma con la monarchia costituzionale il re non può più promulgare norme in contrasto con la costituzione data e, con l’avvento della monarchia parlamentare, il re diventa solo un garante della costituzione oltre che dell’unità nazionale, mentre il potere legislativo passa all’assemblea degli eletti. In questo passaggio del potere legislativo dal re al parlamento, i giacobini – al pari di Ferrara – pensavano a un giudice che da mero funzionario del re diventasse mero funzionario della classe degli eletti dal popolo. Questa visione giacobina di cosa debba essere un giudice non gli concede autonomia di potere e qui torna alla mente la bella pagina di Barbara Spinelli (la Repubblica, 9.3.2011) che rimanda al mittente l’accusa di giacobinismo che molti populisti del centrodestra rivolgono ai loro oppositori, con l’acuto rilievo di una radice giacobina nel berlusconismo. Sta nel voler mettere le procure sotto la tutela di un potere legislativo che ormai Berlusconi ha asservito a quello esecutivo. Dovremmo lasciarglielo fare sorbendoci intanto le sgangherate lezioni di diritto costituzionale dei suoi servi?

martedì 24 maggio 2011

Gnazio



Ignazio La Russa lamenta azioni di disturbo che militanti di sinistra starebbero arrecando alle manifestazioni in favore di Letizia Moratti e dice: “Faccio politica da quando avevo dieci anni e non ho mai visto i nostri fare altrettanto” (Ballarò - Raitre, 24.5.2011).
I nostri, chi? Non quelli coi quali ha fatto politica dai dieci ai trent’anni. È da un corteo nel quale sfilava in testa ai suoi che fu lanciata la bomba che uccise un poliziotto di 22 anni, Antonio Marino, che insieme ai suoi colleghi cercava di evitare l’aggressione neofascista a una sede del Movimento studentesco.  

Cacca di pipistrello




Bob Dylan ha 70 anni, ma almeno da 15 anni lo evito. Lo seguivo fin da Like a Rolling Stone, quando mio zio (chitarra solista) provava cover su cover in uno scantinato insieme a quattro suoi amici (era il 1966-67, avevo una decina d’anni e loro erano i Pepitas, incisero pure due o tre 45 giri).
Ogni tanto, molto raramente, ascolto ancora qualche sua vecchia ballata, cantata mille volte da ragazzo (sempre in un inglese molto approssimativo), come devo dire che non mi dispiacque affatto quella sua svolta elettrica dopo l’incidente stradale (si nasce Woody Guthrie, si può morire Iggy Pop), né penso gli abbia fatto male lo sprofondo nella fede, anzi, mi sembrò subito – e oggi confermo – che con quel suo cristianesimo da strada avesse preso una piega stralunata assai interessante.
La sua voce riuscì a rendermi piacevole anche quella rilettura nevrastenica delle sue canzoni più note che irritò mezzo mondo tra gli ’80 e i ’90, ma poi, nel 1997, arrivò il ricovero per quella pericardite da Histoplasma capsulatum, microrganismo che abbonda nella cacca di pipistrello, e lì, anche se Robert Zimmerman se la cavò, Bob Dylan ci lasciò le penne.
Sembrava ormai il cadavere del folk singer e del blues man, quando ancora mezzo imbottito di itraconazolo agitava le frange spioventi dalla giacca da cow boy, impalato davanti a un Giovanni Palo II più assente che assorto. Lì – rammento – spensi la tv e dissi: “Riposa in pace, Liberace”.

“Aiuto, Santità!”

Santità, se volesse raccogliere la supplica che Giuliano Ferrara le rivolgeva ieri sera e dire una parolina sul ballottaggio di Milano... Beh, veda lei, il ragazzone ci spera.

[...]

“We have a lot of things that made sense once, or never made sense, that are clogging up the work” (Timothy Gowers – The Observer, 22.5.2011).

lunedì 23 maggio 2011

Sproposito nello sproposito


Goffredo Bettini lavorerebbe al progetto di un “partito unico a sinistra” che metta insieme “Pd, Sel e un pezzo dell’Idv”, così rivela Maria Teresa Meli (Corriere della Sera, 23.5.2011). Se questo corrispondesse al vero, ci troveremmo di fronte a uno sproposito nello sproposito, quello di un tizio che s’è molto speso per un Pd che rinunciasse ad ogni forma di alleanza tattica e strategica con altre formazioni politiche, e riuscendoci, per poi annunciare che non si sarebbe mai più interessato di politica quando il partito da lui portato a uno splendido isolamento ha mostrato tutti i suoi limiti, ma che ora cambia idea, ritira la decisione di ritirarsi e torna a spendersi per un nuovo progetto politico, che è l’esatto contrario di quello che pensava fosse l’unico vincente.
Ci vuole una grande fiducia in se stessi per sentirsi indispensabili in ogni stagione, ma ci vuole una gran faccia tosta per pensare di poterlo essere con due progetti opposti. La cosa triste, ma largamente prevedibile, è che non sarà mandato a cagare.


Pascolate lontano dai coglioni di Sua Eminenza

La vicenda che ha per protagonista don Riccardo Seppia lascia tanto sgomenti e inorriditi che pure gli anticlericali più agguerriti hanno finora avuto qualche reticenza nel farne uso strumentale e la parodia di uno spot della Cei che inviti a destinare l’8permille a don Seppia, cocainomane, sieropositivo e pedofilo, su YouTube ancora non s’è vista.
Per i reati che gli vengono contestati sarà un giudice a decidere, ma don Seppia ammette di averne commessi (uso, detenzione e cessione di stupefacenti), rigettando solo l’accusa di abuso su minore. Si dichiara gay e non nega di aver avuto una vita sessuale molto attiva, probabilmente senza farsi molti scrupoli nel contagiare i suoi partner (e qui ci sarebbero gli estremi per altri due o tre reati, però mai a danno di minori), ma dice che, quando al telefono offriva droga in cambio di bambini, scherzava.
Un bel gomitolo giudiziario, insomma, e tuttavia ho come la sensazione che Bruno Vespa non vorrà dedicare troppa attenzione alla vicenda di don Seppia, sicché finiremo per continuare ad avere idee confuse sul caso. Spendeva 300 euro al giorno, don Seppia, ma dove li prendeva? Il cardinal Bagnasco ha assicurato che nessuno fosse al corrente della condotta del prete, né di quella peccaminosa, né di quella criminale, e non ha fatto in tempo a dichiararlo ufficialmente che dai parrocchiani arrivano smentite: era noto fosse omosessuale e violasse i voti, pare che i suoi superiori fossero stati messi a conoscenza di sue molestie sessuali a danno di minori.

Chi mente? Boh. Di certo resta solo che finora don Riccardo Seppia non è stato né spretato perché indegno del ministero, né scomunicato per aver gravemente offeso il sacramento del sacerdozio. Sospeso dal ruolo di parroco, questo sì, ma è anche vero che da una cella del carcere di Marassi sarebbe stato difficile dir messa e tenere le lesioni di catechismo.
Ecco, allora, che sull’intrico della vicenda converrà astenerci da ogni commento, perché ogni impressione corre il rischio di essere ingiusta illazione. Di sicuro c’è solo il fatto che don Seppia resta per la Chiesa un alter Christus, nonostante tutto. Nessun seminarista potrebbe illudersi di diventare prete ammettendo anche la metà della metà di quanto don Seppia ammette, ma i sacramenti officiati da un prete, indegno quanto egli stesso ammette di essere, restano validi: era un tramite di merda tra Dio e i fedeli, ma pur sempre un tramite.
I genitori dei bambini battezzati da don Seppia, e che ora chiedono siano ribattezzati (*), sono cattolici stupidissimi, e chiedo scusa per il pleonasmo. In quell’untore drogato – pedofilo o no – c’era Cristo: almeno allora, quando tutti erano all’oscuro dei suoi dopomessa, Cristo c’era. A non volercelo vedere si fa offesa alla dottrina cattolica e a diritto ecclesiastico: a quei genitori non resta che ripassare il Catechismo e il Codice di Diritto Canonico. Così si renderanno conto che non possono nemmeno sbattezzare i figli, per poi farli ribattezzare: sarebbe insulto al sacramento, il loro. Via, pascolate lontano dai coglioni di Sua Eminenza.


 

[...]



“Vedete? Mica sono un Cicchitto qualsiasi, io”

L’editoriale di Giuliano Ferrara che ieri apriva il Giornale (Occupare i telegiornali èstato solo un autogol) è stato letto da molti come una severa critica a Silvio Berlusconi, e dunque come una coraggiosa prova di onestà intellettuale dell’Elefantino, ma io vorrei provare a dimostrare che non è affatto così. Non citerò altri suoi articoli che nel passato prossimo e in quello remoto hanno dato ai più la stessa impressione, senza la sua lingua si staccasse mai troppo dal culo del suo protettore, ma mi baserò sulla sola analisi del testo in questione, però servendomi della chiave di lettura offerta dallo stesso Giuliano Ferrara nelle prefazioni a due volumi: Leo Strauss, Scrittura e persecuzione, Marsilio 1990 (pagg. VII-XXIII); La saggezza della Fronda (Massime del Cardinale di Retz e di François de La Rochefoucauld), Edizioni Giuseppe Laterza 2001 (pagg. 5-9).
Nella prefazione al primo volume, parlando delle “relazioni speciali, ambigue, ironiche, enigmatiche tra filosofi e tiranni, ideologi e principi, uomini di scienza e di autorità”, scrive che i primi sono costretti a usare nel trattare coi secondi “un linguaggio particolare”, praticando “un’arte dello «scrivere tra le righe»” che serve per lo più a parare il culo, ma che, quando è esercitata da maestro, tocca l’eccelsa paraculaggine, che poi costituisce “la giuntura tra il canone ermeneutico [di questo «scrivere tra le righe»] e la filosofia politica [che le sta sotto e dietro].
Per essere più chiari dobbiamo andare al “manualetto del perfetto frondista”: “In date circostanze, non rare, le tue azioni contrarie alla decenza saranno giustificate, però mai le tue parole. […] Le parole, non c’è fortuna che le innalzi e le glorifichi: devono fare da sole il loro sporco mestiere di spiegare l’indifferenza politica al bene e al male […] poiché bene e male non sono nemmeno equipollenti, sono la medesima cosa”. E dunque, “se ti rivolgi al Principe, devi sapere che la tua potenza benefica è considerata da lui altrettanto pericolosa, e quasi altrettanto criminale, della tua volontà malefica”. In pratica? “Conquistare la fiducia, installarsi nella confidenza dei grandi: è la battaglia campale del consigliere frondista, così diverso nella sua intrattabilità dall’adulatore e dal ruffiano”. D’altra parte, questa conquista della confidenza a colpi di intrattabilità è al servizio del Principe, non già a quello dei suoi nemici, perché “l’Italia del 25 luglio sa per esperienza che la Fronda è l’anticamera del tradimento, ma in linea teorica ne è anche il solo antidoto”. In più, “consigliare è meglio che comandare” e, visto che “non c’è più il mondo dei re, dei principi, dei papi e degli imperatori”, “la Fronda abbassa i suoi obiettivi, calibra i mezzi, porta come sempre servigio e divisione, che per la Fronda sono sinonimi, ma in una nuova dimensione di umiltà”, perché “nella politica contemporanea alla Fronda è rimasto un solo nemico, per abbattere il quale nessun sacrificio è vano: il ridicolo del potere abusato, dissipato, malamente perduto e senza onore”.
Quella che a molti è sembrata una severa critica a Berlusconi deve essere letta in questo modo e apparirà tutt’altro.


“Ho passato un bel pezzo della mia vita a difen­dere come potevo e sa­pevo Berlusconi, a cui ho sempre riconosciuto, in amicizia militante e mai servi­le, grandissimi meriti storici nel tentativo di tirare fuori l’Ita­lia dalla crisi della Repubblica e dalla rovina della giustizia, e una simpatia di tratto liberale e scanzonato senza eguali; e quando non ero d’accordo, è successo spesso, riprendevo forza ed energia dal modo di­sgustoso scelto dai suoi avver­sari per combatterlo. La mostri­ficazione, la teoria del nemico assoluto, l’orrore del guardoni­smo giornalistico, della faziosi­tà dispiegata, le accuse forsen­nate di stragismo, di mafia, ac­compagnate dalla totale resa al più sinistro spirito forcaiolo: questo mi è sempre bastato per dirmi senza problemi ber­lusconiano e per prendere il mio posto, costante negli anni, nella battaglia contro la deriva ideologica e di stile della sini­stra più scalcinata e ipocrita del mondo, prigioniera di una cultura demagogica che la di­vorava”.
A una lettura piana: “Non sono un servo. Presto i miei servigi a Berlusconi perché i suoi nemici mi fanno tanto schifo da rendermelo simpatico, anche e nonostante i suoi difetti”. Tra le righe: “Vedete come sono libero e indipendente? Mica sono un Capezzone qualsiasi, io. Se e quando farete fuori il Cav, tenetelo da conto: berlusconiano per generosità d’animo e di intelletto, mica per interesse”.
“Vorrei continuare la corsa, ma se la strada è quella dell’invadenza arrogante a reti unificate, del monologo che umilia gli interlocutori e gli elet­tori, del semplicismo e del ba­by talk arrangiato, sciatto, po­veramente regressivo, mi man­ca il fiato. Va bene che Enzo Biagi face­va i suoi show el­ettorali con Be­nigni per bastonare il Cav sotto elezioni quando era capo del­l’opposizione, ma quale esper­t­o impazzito di marketing poli­tico ha suggerito al premier di presentarsi in tutti i tg come un propagandista, di diminuire la sua autorità e credibilità di pre­sidente del Consiglio e di lea­der del partito di maggioranza relativa di una grande nazione occidentale con discorsi da bet­tola strapaesana?”.
Traduzione piana: “Non è che poi abbia fatto nulla di male, in fondo le elezioni sono elezioni e nessuno riesce a resistere alla tentazione di abusare del mezzo televisivo, però est modus in rebus”. Tra le righe: “Vedete? Mica sono un Cicchitto. Quando e se arrivasse il 25 luglio, trattatemi da Bottai, non da Starace”.
“Chi gli ha consigliato di perdere all’istan­te i voti dei cattolici diocesani abbracciando a Milano, dove le intemerate leghiste più sprovvedute non hanno mai at­­tratto consensi, la crociata del­la lotta a zingaropoli o il truc­chetto del trasferimento in terra meneghina di al­cuni ministeri romani, subi­to contraddetto dal sindaco della Capitale? Che cosa può portare il capo di una classe dirigente che dovrebbe pun­tare su libertà e responsabili­tà ad avallare, dopo la magra figura dell’attacco ad perso­nam a Pisapia, e senza le do­vute scuse, l’idea che la vitto­ria dell’avversario nella lotta per il Municipio porterebbe terrorismo e bandiere rosse a Palazzo Marino? Perché farsi del male con parole d’ordine primitive, giocando irrespon­sabilmente la carta dei cosid­detti «valori conservatori» in una offensiva lanciata da gen­te di governo contro «gay e drogati», una caricatura del motto Dio-patria-e-fami­glia, quando quella carta è sempre stata pudicamente scartata quando si doveva giocarla con sensibilità e in­telligenza nelle occasioni giu­ste e per motivi giusti?”.
Mica ha commesso l’ennesimo abuso di potere, il suo Cav, si è solo esposto a critiche di un certo peso. Pare che la sua colpa più grave sia quella di aver imbarazzato chi lo voglia difendere senza cadere nel ridicolo, e Ferrara non vuole cadervi: può difenderlo solo da frondista, facendo da antidoto alla montante protesta. Tutti pensano che Berlusconi abbia fatto un goal di mano con la sua apparizione televisiva in cinque tg su sette, ma Ferrara alla moviola dice che è un’autorete. Tifoso, sì, ma che fairplay.
“Spero che la Moratti vinca e che Pisapia perda il ballot­taggio, per ovvie e argomen­ta­te ragioni politiche e ammi­nistrative che si stanno per­dendo nei fumi sulfurei di un incendio ideologico senza senso. Ma intanto non voglio che Berlusconi perda la fac­cia nella contesa, che il suo comprensibile radicalismo politico, il suo accento popo­lare e diretto nel linguaggio, diventino un incattivito vani­loquio della disperazione. Non lo merita lui e non lo me­ritano coloro che si sono bat­tuti e si battono per ciò che lui ha rappresentato”.
Qui il «tra le righe» affiora per un attimo e subito s’immerge: “Se Berlusconi perde la faccia, appresso a lui la perde chiunque lo difende. Mica so’ Paniz, io”.
“Chiunque conosca Berlusconi e la storia del ber­lusconismo sa quel che man­ca a questo punto della para­bola: mancano la sicurezza di sé, un minimo di ottimi­smo, la capacità originaria di sfidare le convenzioni, di fa­re cose nuove e liberali, di smascherare le ipocrisie al­trui, di parlare pianamente e urbanamente anche il lin­guaggio più irriducibile e aspro, manca il gentile «mi consenta», manca il Berlu­sconi ilare e sapido che rom­pe il monopolio dell’informa­zione, che disintegra ogni for­ma di conformismo, che spiazza e interloquisce con la società italiana alla sua ma­niera originaria. Vedo in questa deriva la vit­toria dell’avversario di tutti questi anni, e di quello più in­carognito e miserabile. Farsi simili alla caricatura che il ne­mico fa di te è il peggiore erro­re possibile per un leader po­litico”.
Lui non è così, vedete come me lo hanno ridotto? Fa il dittatorello, sì, ma sono i suoi nemici ad averlo ridotto così. E lui sbaglia, sì, e questo “è l’errore che può ca­gionare «l’ultima ruina sua»” (e qui davvero sembra di sentire il Machiavelli che si spende per il culo del Borgia).
Povero Cav, insomma. Ridotto dai suoi nemici alla malevola caricatura che da sempre gli hanno appiccicato addosso. Errore fatale, “che lo isola con le tifoserie, che ne avvilisce l’indipen­denza intellettuale e di tono, la credibilità personale”. Errore che Ferrara non può permettersi.

domenica 22 maggio 2011

Il pedigree di Gesù, Turgenev e i Fratelli Taviani

Si prenda un monologo del don Alfio di Verdone, però lungo almeno il triplo, e lo si infarcisca di citazioni, di molte citazioni, diciamo due dozzine, nella misura di due quinti dalle Sacre Scritture e il resto dai Meridiani della Mondadori, qui un richiamo etimologico, lì un’ardita associazione: si otterrà il tipico “paginone alla Ravasi”. Per quanto al solito è zotica e incolta la gran parte del clero cattolico, e anche ai piani alti, Ravasi è giustamente sopravvalutato, ma chi l’ha mai sorpreso a esprimere un’idea tutta sua? Ogni pezzo di Ravasi è un patchwork di chiose sotto il quale mettere a nanna delle banalità, non senza averle ubriacate di una prolissità snervante.
Avreste dovuto leggerlo, oggi, su Avvenire: “Come si ha la generazione ad eterno nel mistero dell’intimità divina, così si ha una maternità divina e una generazione nella storia. È su questa scia che la generazione umana diventa un grande paradigma che certamente determina la sequenza genealogica dell’umanità, ma che ospita al suo interno un’ulteriore presenza, come potremo vedere seguendo proprio il percorso generazionale biblico. A livello umano si potrebbe a lungo riflettere sul valore di questa esperienza radicale. Basterebbe solo pensare all’anello genealogico che unisce Padri e figli già nel titolo del celebre romanzo che lo scrittore russo Ivan S. Turgenev pubblicò nel 1862, innestandovi tutta la complessità e persino la drammaticità di una simile relazione che non è meramente genetica e biologica, ma anche culturale, sociale e psicologica”.
Aveva attaccato con la genealogia di Gesù che apre il Vangelo di Matteo, continuerà con Padre padrone di Gavino Ledda, “trasformato in un efficace e intenso film dai Fratelli Taviani nel 1977”, per andar poi al Salmo 78, sfarfallando come non riuscirebbe neanche a un preside di liceo che voglia far colpo sulla ballerina di lap dance. Di questa interessante mutazione di don Alfio si mormora che potrebbe essere il prossimo papa, e io già immagino che udienze, che angelus, che omelie. Già immagino l’invocazione che si leverà dalla folla in Piazza San Pietro.



sabato 21 maggio 2011

“Una notizia meravigliosa, una notizia fantastica”

“Una notizia meravigliosa che avrei voluto commentare è quella del giocatore di baseball che in America, dopo sforzi sovrumani – suoi, dei medici e di coloro che l’hanno aiutato nella riabilitazione – è riuscito a riprendere– essendo tetraplegico, paralizzato dalla vita in giù – a riprendere dei movimenti attraverso una elettrostimolazione. Una notizia fantastica”
Qui Radio Londra, 20.5.2011

Qui siamo in deroga al monito di non alimentare vuote speranze che Il Foglio ha sempre rivolto agli scientisti. Il fatto è che la scienza, qui, non mette in discussione il Catechismo e allora all’entusiasmo viene tolto il guinzaglio e gli vien data licenza di illudere gli sprovveduti: fantastico, meraviglioso, l’elettrostimolazione fa camminare i paralitici!
In realtà, si tratta della solita notizia maltrattata dal sensazionalismo della cattiva informazione, e Giuliano Ferrara la riprende e la rilancia senza neanche darle una controllatina. Con due clic si poteva arrivare a Lancet e leggere che, nell’unico caso finora trattato, “epidural stimulation enabled the man to achieve full weight-bearing standing with assistance provided only for balance”, e per pochi minuti; inoltre, “the patient recovered supraspinal control of some leg movements, but only during epidural stimulation”. Volendo leggere la notizia con lo scetticismo che solitamente anima Il Foglio su tutto ciò che puzza troppo di tecnica, si potrebbe desumere che con adeguata elettrostimolazione si riesca ad ottenere analogo risultato anche in un cadavere, se fresco.
La“notizia fantastica” sta tutta nel fatto che “task-specific training with epidural stimulation might reactivate previously silent spared neural circuits or promote plasticity”: “might”, non “may”, ma a Giuliano Ferrara basta per far la papera felice tra le gambe dei paralitici.


Analisi



venerdì 20 maggio 2011

Big Wednesday sta a Deep Throat...


... come una vera onda sta al riflesso della tosse.


 

Letizia Moratti augura buon compleanno a Giuliano Pisapia...

... ma poteva far di più. Un’enorme torta, per esempio, e dentro una bella figliola. Happy birthday to you, poi salta il coperchio e salta fuori la bella figliola. Se non con un violino, almeno con una custodia di violino.


Antipaticissimo


Un altro lettore mi rimprovera di trascurare troppo la città in cui vivo, sarà il quinto o il sesto, e questo qui pensa che il colmo sia il mio mancato endorsement alla vigilia delle elezioni: in pratica, mi spettava dichiarare se il mio voto andasse a Lettieri, Morcone, De Magistris, Pasquino o a uno degli altri candidati a Palazzo San Giacomo.
Mi spettava? Non penso, soprattutto tenuto conto del fatto che fino a pochi giorni prima del voto propendevo all’astensione. Ora c’è da dire che per indole ed educazione faccio fatica a ritenere che astenersi sia un diritto e, insomma, ritengo che sia un diritto ma che usufruirne non sia bello, figurarsi il farne mostra. (Sì, ho detto proprio “bello”. A casa mia, quand’ero bambino, per dire “questo è moralmente reprensibile” si diceva “questo non è bello”. Uno cresce, ma certe impronte restano.)

Mi spettava dichiarare: “Non vado a votare”? Non mi sembrava bello. Poi, sì, sono andato a votare. Due o tre giorni prima, mi pare giovedì 12, Silvio Berlusconi ha promesso una moratoria sugli immobili abusivi destinati all’abbattimento e questo mi ha fatto cadere in una spirale che in breve mi ha inghiottito nel vicolo cieco del votare il meno peggio. Sì, ma chi era il menopeggio? Pur trovandolo antipaticissimo – è questione di pelle – ho votato De Magistris.
Ora c’è da dire pure che io non credo sia possibile fare di Napoli una città vivibile senza raderla al suolo e ricostruirla daccapo, però facendola abitare da norvegesi. Nessun sindaco potrà far molto, anche volendo, poverino. Questa città ha la borghesia più vile e pusillanime d’Italia, che ha quella più vile e pusillanime d’Europa, e ha popolo che è fiero d’essere plebe, e non si salva niente, sicché il nuovo ha sempre il peso di un movimento di viscere. Chi o cosa può cambiare una città così? E però astenersi non è bello, brutta era la faccia di Lettieri mentre Berlusconi prometteva la moratoria sugli immobili abusivi da abbattere, votare il partito che ha partorito Bassolino & Iervolino mi pareva bruttissimo, e ho votato Idv. (Vi ho spiegato come ci sono arrivato, adesso non buggeratemi troppo.)

A questo punto, già che mi trovo, potrei fare l’endorsement per il ballottaggio, ma non so se andrò votare e mi trovo nella stessa condizione della scorsa settimana. Mi astengo, dunque, dal dichiarare che propendo all’astensione, tanto poi è probabile che andrò a votare De Magistris, che non riesco a nominare senza dire: antipaticissimo. 


 

Pericolose contiguità del centrodestra all'estremismo di sinistra

Letizia Moratti augura buon compleanno a Giuliano Pisapia.

Dear fellow-unbelievers

Un immenso Christopher Hitchens.

Può darsi



Può darsi che Dominique Strauss-Kahn sia davvero colpevole dei reati che gli vengono contestati (personalmente lo ritengo assai probabile), ma diversi elementi nella vicenda che lo vede protagonista sono almeno degni di una qualche perplessità e, se non sono validi a supportare l’ipotesi di un complotto (ripeto: non sono validi a supportare l’ipotesi di un complotto), lasciano adito almeno all’eventualità che egli possa essere vittima di un’ingiusta accusa, a fine presumibilmente estorsivo.
Tralascio quelli che già sono stati messi in evidenza dagli innocentisti per soffermarmi su uno che non mi pare sia stato adeguatamente chiarito e relativo proprio alla presenza della cameriera nella suite dove si sarebbero svolti i fatti. Potrà capitare, infatti, che il personale addetto alle pulizie entri senza bussare nella vostra stanza d’albergo e vi trovi ancora lì, soprattutto se vi siete attardati in camera fino alle 13.00 o avete appeso per errore alla porta un “rifare la stanza” al posto di un “non disturbare”, questo potrà senza dubbio capitare. Ma è possibile che questo accada anche nel caso in cui occupiate una suite da 3.000 dollari a notte? Con un prezzo del genere non si compra pure la certezza di non essere mai disturbati, e in alcun modo, dal personale? Com’è per il regolamento degli alberghi di categoria pari a quella del Sofitel di New York, la cameriera non era tenuta a entrare nella suite solo dopo aver avuto piena certezza del fatto che fosse vuota?
Nessuna attenuante per un reato che, se provato, meriterebbero severo biasimo e severa pena, soprattutto in ragione della condizione dominante del reo sulla vittima. Ma in cerca della prova non suona strano che il servizio sia così carente in un albergo del genere?
Ok, scherzavo, come non detto.

 

Ci tocca anche


Il flop di Ci tocca anche Vittorio Sgarbi è tanto vistoso da costringere Raiuno a sopprimere la trasmissione: la prima puntata ha avuto poco più di 2 milioni di telespettatori con uno share dell’8,27% e un calo di oltre 10 punti in pochi minuti, quantificatosi nella perdita di almeno 3,2-3,6 milioni rispetto alla media della rete in prime time. Altri flop sono meno vistosi e forse è per questa ragione che sembrano esser meglio tollerati dall’azienda, anche se c’è da ritenere che le arrechino un danno non minore, anzi, come è nel caso di trasmissioni che perdono audience nel tempo, in modo lento, il danno si rivela sempre gravissimo, forse proprio perché sottovalutato o ritenuto tollerabile, provocando non di rado una disaffezione che dalla trasmissione passa alla fascia oraria che la ospita (senza sostanziali differenze in relazione alla durata del programma) e, nel tempo, alla intera rete.

Mi è capitato tra le mani, in questi giorni, un vecchio libro di Sergio Saviane (Video malandrino - SugarCo Edizioni, 1977) che in molti punti mi ha convinto dell’esistenza di alcune regole che erano già valide 30 anni fa, quando la tv pubblica non aveva rivali, e che non hanno perso forza oggi, forse perché legate alla natura stessa del medium e in qualche misura valide al di là dei contenuti mediati. Regole che allora erano rispettate anche se l’Auditel non esisteva ancora, e tutte fondate su un solo principio: una trasmissione che fa perdere telespettatori alla rete è una trasmissione morta.
Se Ci tocca anche Vittorio Sgarbi è morta di colpo apoplettico, Ci tocca anche Giuliano Ferrara continua la sua lenta agonia. Va sempre più allargandosi, infatti, la platea di quanti, dopo aver visto il Tg1, cambiano subito canale per scansarla: dall’esordio del 14 marzo ad oggi, in progressione pressoché costante, siamo passati da un differenziale medio di 400 mila spettatori a quello delle ultime due settimane, che è di 1,3 milioni, con cali massimi di 1,4-1,6 milioni.

Ma c’è un altro dato che mi pare interessante: questo calo progressivo è accompagnato da un costante andamento infrasettimanale, con una tendenza a cambiare canale che è massima il lunedì, per andare ad attenuarsi verso il venerdì, anche se poi di venerdì in venerdì si rileva un calo costante, relativo ed assoluto.
A mo’ di esempio:

Forse è solo un’impressione, ma pare che chi abitualmente segue il Tg1, dopo le due serate di sabato e domenica nelle quali Qui Radio Londra non è andata in onda, sia portato a cambiare canale più rapidamente, con più pronta insofferenza, che poi scema nel corso della settimana. Se l’impressione corrisponde al vero, il programma di Giuliano Ferrara è morto, ma dalla veglia funebre si va via alla spicciolata, cercando di non dare troppo nell’occhio.