lunedì 10 settembre 2012

sabato 8 settembre 2012

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Nell’augurare a Giuliano Ferrara di ristabilirsi in fretta dal malore che lo ha colto martedì notte, occorre far tesoro della lezione che più volte ci ha impartito dalle pagine del suo giornale per biasimare l’ipocrisia dei sanitari che lo hanno in cura presso il Policlinico Gemelli, che, al pari di quei loro colleghi che sono soliti occultare ciò che di fatto è omicidio sotto le formule anodine di «interruzione volontaria di gravidanza» o di «sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiali», hanno usato in questo caso l’eufemismo di «transitorio disturbo del circolo cerebrale» per ciò che un pur laconico bollettino medico consentiva di intuire fosse un episodio, anche bello tosto, di «ischemia cerebrale transitoria» (transient ischemic attack, TIA), evento che d’altronde è assai frequente in soggetti affetti da obesità, diabete e ipertensione, ancor più nei casi – e questo è uno di quelli – in cui a queste patologie si associ in anamnesi almeno un episodio di fibrillazione atriale, e che innalza di circa dieci volte di rischio di ictus, con un’incidenza che arriva fino al 15% dei casi entro i 12 mesi successivi al primo attacco. Per dirla nella lingua dei foglianti, la verità è stata affogata nella melassa.  

venerdì 7 settembre 2012

«Bioetica pastorale»

Ho scritto che il cardinale Carlo Maria Martini era «il “poliziotto buono” che fa coppia col “poliziotto cattivo”»: immagine rozza, potevo usarne una più soffice, come quella offerta dal professore Francesco D’Agostino (Avvenire, 7.9.2012), che, nello scoraggiare i fessacchiotti dal «leggere i tanti interventi del cardinal Martini sulle questioni più cruciali della bioetica come essi avessero un carattere teologico e dottrinale», ci offre quella del pastore che «si fa carico di tutte le sue pecore, soprattutto quelle che si smarriscono», che fa coppia col pastore che «governa severamente il gregge».
Parlava, Sua Eminenza, quanto parlava. E concedeva, Dio, quanto concedeva. Ma la sua era una «bioetica pastorale», che «non può mai essere fredda, dura, severa, tagliente, come a volte deve pur essere il pensiero teorico-dottrinale», perché «finalizzata al singolo». Sua Eminenza, insomma, parlava e concedeva, ma per indorare la pillola. Sull’uso del profilattico, sulla contraccezione in generale, sulla fecondazione assistita, sul testamento biologico, sul riconoscimento delle coppie di fatto, non escluse quelle gay, sembrava disponibile, ma in realtà non disponeva di niente, per il semplice fatto che non poteva.
«Ecco perché dobbiamo rendere omaggio al cardinal Martini – conclude il professor D’Agostino – senza pretendere di trasformare le sue istanze pastorali in proposte biogiuridiche o biopolitiche, come egli non ha mai preteso di fare». Cercava di convincere le pecorelle scappate dall’ovile a farvi ritorno, questo è tutto, ma sulle regole vigenti nell’ovile non aveva voce in capitolo. Ho scritto che «contava meno del due di picche», ma era immagine rozza. Si poteva dire più sofficemente, come fa il professor D’Agostino, che Sua Eminenza parlava e concedeva, ma «non nella qualità di studioso, di titolare di cattedra, di direttore di un istituto di ricerca o di responsabile di un dicastero della Santa Sede».

giovedì 6 settembre 2012

Marina Corradi e la comunicazione non verbale

Marina Corradi ha «guardato e riguardato», «anche facendolo scorrere più lentamente che nella realtà» «un video girato con un cellulare», che  «risale a giugno, quando Benedetto XVI venne a Milano e, lontano dalle telecamere, incontrò per lultima volta il cardinale Martini», analizzando sguardi e gesti di questultimo per darci prova schiacciante, contro le malevole voci udite in questi giorni, che, al di là di  «disaccordi, differenze di vedute, anche tensioni», Sua Eminenza nutriva per il Papa un affetto straordinario (Avvenire, 6.9.2012). Sarà, ma la gestualità e la mimica faciale di un soggetto affetto da Morbo di Parkinson in stadio avanzato rende possibile affermarlo con tanta sicurezza? A me pare un tantino azzardato.
Se proprio vuole cimentarsi nello studio della comunicazione non verbale, sarebbe il caso che Marina Corradi si dedicasse allo studio di soggetti non affetti da patologie neurologiche. Potrebbe cominciare, per esempio, dal video che riproduco qui sotto, tratto dall’ultima visita che Benedetto XVI ha fatto in Germania: provi ad interpretare il ritrarsi dei vescovi alla mano tesa del Papa nel rifiuto di stringergliela o di baciargliela, provi a desumerne i sentimenti, poi ci fa sapere con calma, quando ha un po di tempo. 

«L’ecologia è cattolica»

A chi si arrampica sugli specchi per dimostrare che quel tal versetto biblico debba essere correttamente inteso nel senso esattamente opposto a quello che palesemente e univocamente esprime – quattro avverbi in due righe, mi scuso, ma li ritengo tutti indispensabili – preferisco il fondamentalista che sta cocciutamente appiattito al testo sfidando coraggiosamente il ridicolo. Sta scritto: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28)? E allora non venirmi a dire che «la salvaguardia del creato è un’esigenza anzitutto e profondamente biblica» (Avvenire, 4.9.2012), perché mi fai girare le palle: il tuo Dio non aveva fatto bene i conti tra risorse e consumi, perché è lo stesso Dio del pecoraio mediorientale di tre o quattro millenni fa, quando sulla Terra abitavano poche centinaia di milioni di individui. Per secoli, per millenni, si doveva leggere in Genesi ciò che letteralmente in Genesi c’è scritto, ora semplicemente – non è più possibile: ed ecco diventi indispensabile tu, ineffabile priore di Bose, la tua faccia di culo è garanzia di una rilettura ad hoc del testo biblico. «Forse la teologia se ne è accorta tardi, troppo presa da una visione solo antropocentrica…», dici. Scusa, eh, ma il centro è sempre uno e, se lì ci metti l’uomo, non puoi metterci altro: comincia dunque a togliere quel «solo», ragiona, non puoi avere una visione del creato «anche» antropocentrica. Ma, poi, che vai a rimproverare alla teologia? Lesse letteralmente, finché le fu possibile. Oggi non può più farlo, tutto qui, ed è per questo che ora cè bisogno di un treccartaro come te a tentare di convincerci che «l’ecologia è cattolica». Ci aspettiamo tu ce lo ripeta dai microfoni di Radio Vaticana, quella nota per le condanne per inquinamento da elettrosmog.

mercoledì 5 settembre 2012

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grazie a Denis

L'Osservatore Romano, 5.9.2012



È mica corsa voce che vogliono tassarla?

martedì 4 settembre 2012

«La pressione sanguigna scendeva vertiginosamente»

Giulia Facchini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, racconta le ultime ore di suo zio:

«Deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi più a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. […] Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato. […] Il tuo respiro si faceva, con il passare delle ore, più corto e difficile e la pressione sanguigna scendeva vertiginosamente» (Corriere della Sera, 2.9.2012).

Mi limito a segnalare che un vertiginoso calo pressorio sembra effetto di una sedazione assai poco in linea con la dottrina cattolica. 

Frammenti di un necrologio

La morte del cardinale Carlo Maria Martini ha offerto ennesima occasione di dibattito su quel «dialogo tra credenti e non credenti» che in tanti si ostinano a ritenere possibile, e utile, se non addirittura necessario. Bene, io penso che di fatto sia impossibile e, tutto sommato, inutile, comunque non indispensabile.
Ovviamente tutto sta nell’intenderci sul cosa sia «dialogo», perché sul fatto che un credente e un non credente possano colloquiare, anche pacificamente, non sollevo obiezioni: quasi sempre serve a poco, spesso porta a niente, ma, volendo perder tempo, si può. Ci può essere perfino un reciproco tornaconto, in questo chiacchierare: il non credente può gustare il piacere di produrre argomenti che non più tardi di qualche secolo fa gli avrebbero procurato persecuzione, carcere, tortura e morte, mentre il credente può dar sfogo alla sua smania di convertire, mettendo la sua anima in pace nell’averci almeno provato.
Altra cosa è il «dialogo» o il discutere per arrivare a trovare accordo su qualcosa: anche quando lo si trova, permane nel fondo dell’accordo un’irriducibile distanza che alla lunga lo vanificherà. Non si farà fatica, per esempio, a trovare intesa sul fatto che l’omicidio sia cosa disdicevole, ma per il credente l’omicidio sarà sempre innanzitutto offesa a Dio, perché la vittima è una sua creatura. Poco male, si dirà, l’importante è che credente e non credente concordino. Errato: nel considerare l’uomo una creatura di Dio, la vita umana diventa un bene indisponibile all’uomo, con tutto ciò che ne discende.
Altro esempio: la democrazia. Un credente e un non credente potranno facilmente trovare accordo sul punto e dirsi democratici (ovviamente questo non dovrà porre in discussione la struttura gerarchica della Chiesa: quella deve rimanere piramidale, sennò lo Spirito Santo ci rimane male), ma nel fondo dell’accordo sul fatto che sia meglio decidere a maggioranza che lasciar le decisioni a pochi, o a uno, resteranno sempre un sacco di riserve, almeno da parte del credente, per il quale la democrazia va bene, sì, ma fino a un certo punto: se concorda con le decisioni della maggioranza, nessun problema, ma se quelle non gli garbano, perché in esse vede oltraggio ai comandamenti del suo Dio, il credente mette il muso, si intristisce, quando non si incazza, e comincia a lamentare la violenza della «dittatura della maggioranza».
Penso non ci sia bisogno di altri esempi: li abbiamo sotto gli occhi da quando ai credenti è venuta la smania di «dialogare» nell’impossibilità di imporre la loro fede ai non credenti coi mezzi usati per secoli e secoli, da quando i non credenti hanno accettato il «dialogo» nel tentativo di cavarne qualcosa, nell’illusione di poterlo trovare. La vita del cardinale Carlo Maria Martini sta a dimostrarlo.
«Dialogava», Sua Eminenza, gli piaceva tanto. E bisogna essere onesti: concedeva, concedeva, concedeva anche più di quanto gli fosse concesso dalla dottrina, non di rado facendo soffrire ed adirare gli zeloti, che prima cominciarono a mormorare fosse un mezzo eretico, finendo per dirlo ad alta voce, anche a cadavere ancora caldo. Concedeva, intanto, ma il suo concedere era di un autorevole prelato che contava meno del due di picche, sicché sul suo concedere resta il dubbio fosse la declinazione di un garbo. Talvolta veniva il sospetto che fosse il «poliziotto buono» che fa coppia col «poliziotto cattivo», d’altronde era gesuita e si sa che «todo modo es bueno» per portare acqua al mulino. 

[…]

Tu credi che Dio esista, che si sia incarnato in Cristo, che Pietro e i suoi successori ne siano i vicari in terra, perciò depositari di una verità che non possa essere messa in discussione senza mettere in discussione Dio stesso: una verità indiscutibile che vorresti fosse universalmente riconosciuta tale, e dalla quale discendono precetti e divieti che ritieni essenziali al fine di conquistare la vita eterna.
Io non credo nella vita eterna e penso che quei precetti e quei divieti siano solo un modo per ridurre gli uomini a gregge. Non credo che Dio esista, dunque neanche mi pongo il problema se Cristo sia davvero esistito o sia solo un mito. Leggo i vangeli e, accanto all’assurdo, all’inverosimile e al contraddittorio, ci trovo l’ambiguo e l’oscuro sui quali è stata costruita la dottrina alla quale ti dichiari obbediente, alla quale pretenderesti tutti fossero obbedienti, facendoti vanto dell’arrivare a diventare molesto, per poi far sfoggio di un odioso vittimismo se ti mandano a cagare. Ti osservo e ti trovo insopportabile, ipocrita fino all’osso, soprattutto pericoloso. Non c’è bisogno di chiederti cosa tu pensi di me, è noto che a uno come me guardi come a un’anima che vuol perdersi. Hai ragione, non voglio essere salvato. Abbiamo davvero poco da dirci, convieni? «Dialogare» su cosa?
A te interessa convertirmi, a me interessa tu non mi rompa il cazzo: vogliamo far finta di trovare tregua nel dissimulare quanto ci preme? Vogliamo chiamarlo «dialogo»? Disperando di potermi appiccicare la tua fede, ti accontenti di potermi convincere alla tua proverbiale ipocrisia? Devo far finta che almeno l’ipocrisia può essere un decente modus vivendi? Sì, è vero, siamo costretti a starci a fianco, ma questo non vuol dire che dobbiamo strusciarci. Sul da fare, fino a quando non si troverà modo di far prevalere la regola che la libertà di ciascuno ha solo limite in quella di tutti, inutile «dialogare»: basterà contarci. Poi sulla conta eventualmente storcerai il muso, farai carte false per vanificarne l’esito, strepiterai, minaccerai la vendetta del tuo Dio. Pazienza, attenderemo i secoli necessari a sentire la tua voce sempre più fioca. Duemila anni ti avranno illuso che non si spegnerà mai, ma – mi insegni – duemila anni sono un soffio. Meno di un soffio, nell’evoluzione della specie. Ci siamo liberati della coda, ci libereremo anche della tua superstizione. 

[…]

Io e te non abbiamo niente da dirci, la vita del cardinale Carlo Maria Martini è la dimostrazione che non serve a niente. Ammesso pure tu avessi la stessa sua autorevolezza e lo stesso suo prestigio in seno alla tua Chiesa, ogni tua concessione varrebbe niente. E poi perché dovrei ritenere necessario che tu mi conceda quel che ritengo mio diritto? Che i preti si possano sposare, che anche le donne possano celebrare la messa, che i cattolici divorziati possano aver l’eucaristia – cazzi vostri. Ci metto il naso per il gusto di vedere come la bestia si contorce, tutto qui.
Come diceva quel tizio? A un protestante preferisco un cattolico, a un cattolico progressista preferisco un cattolico tradizionalista, a un tradizionalista che si controlla preferisco un tradizionalista sfrenato. La fede e la dottrina mi piacciono incontaminate dai compromessi con il mondo, così appaiono per ciò che sono veramente: la negazione del mondo, l’insanabile smania di mortificarlo. 

lunedì 3 settembre 2012

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Ignoro chi sia il pianista che sta suonando Bach in quest’istante a L’Infedele, e non voglio sapere chi sia. So solo che non ho mai sentito storpiare Bach a questo modo, sembra una polka di Chopin. 

domenica 2 settembre 2012

Sabra e Shatila, trent’anni dopo

Si avvicina il trentennale del massacro di Sabra e Shatila, che una stolida ma solida vulgata addebita alle milizie israeliane di stanza in Libano, ma che invece fu compiuto dalla falange cristiano-maronita, bestie feroci che sul calcio del fucile avevano appiccicato un autoadesivo che raffigurava la Vergine Maria. Tuttavia, a onor del vero, gli israeliani ebbero una colpa in quel massacro: pur potendo, non l’impedirono. Come i caschi blu olandesi di stanza in Bosnia non impedirono alle truppe di Ratko Mladic il massacro di Sebrenica, i soldati di Ariel Sharon non impedirono ai cristiano-maroniti di compiere la strage di palestinesi. Nessuno si sognerebbe di attribuire la strage di Sebrenica all’Onu, ma quella di Sabra e Shatila è correntemente attribuita a Israele. Tra due settimane accadrà ancora, ci si può scommettere un soldino. 

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A Breivik quel che è di Breivik

Prima, d’istinto, scrissero che dietro la strage c’era al Qaida. Poi, lessero il manifesto di Breivik, trasalirono e scrissero: «Assegnare all’assassino norvegese patenti intellettuali è una paranoia giornalistica… Il killer che ha insanguinato la Norvegia è semplicemente un folle». Erano imbarazzati: quel manifesto avrebbero potuto sottoscriverlo, ma tutti quei morti erano un problema.
Scrissi: «Molte delle pagine scritte da Breivik sembrano copiate da Il Foglio: la crisi demografica che mina l’occidente, l’Europa che diventa sempre più Eurabia, il relativismo etico che ci rende deboli, il multiculturalismo che mortifica le nostre radici giudaico-cristiane, il politicamente corretto e il buonismo che ci rammolliscono, perfino che l’aborto dovrebbe essere vietato, che la pillola e gli altri metodi contraccettivi dovrebbero essere severamente limitati, che l’educazione sessuale nelle scuole dovrebbe essere abolita» (Malvino, 26.7.2011). Qualche lettore storse il muso. 
Ora, finalmente, torna tutto in ordine e Il Foglio dà a Breivik quel che è di Breivik con un Elogio del “mostro”, a firma di Richard Millet, «colto intellettuale parigino». Certo, i morti continuano ad essere un problema, ma ora assegnare una patente intellettuale al “mostro” (al folle sono spuntate le virgolette) non è più una paranoia giornalistica.
Sia chiaro, «leggere l’Elogio letterario di Anders Breivik scritto da Richard Millet non significa sposare le tesi dell’autore né tantomeno contaminarsi con i crimini dello stragista di Utoya», ma adesso non è più folle «assumerne il punto di vista», anzi, è proprio questa l’offerta che Il Foglio propone ai suoi lettori, che senza dubbio gradiranno. Nel firmamento dei disadattati alla modernità brilla unaltra stella.

sabato 1 settembre 2012

Così non è accaduto

Occorre fare un poco di chiarezza sul rifiuto che il cardinale Carlo Maria Martini ha opposto all’«accanimento terapeutico», termine che qui rivela in modo esemplare tutta la sua ambiguità. Sua Eminenza soffriva da lungo tempo di Morbo di Parkinson, una patologia che nei suoi stadi più avanzati è scarsamente sensibile ad ogni tipo di terapia farmacologica. Tuttavia un parkinsoniano non muore mai per la degenerazione delle cellule nervose che è alla base della malattia, ma per le complicanze che essa determina, prima fra tutte (le statistiche riportano dati che oscillano tra il 73 e l’89%) la disfagia. In pratica, viene meno la capacità di deglutire a dovere: ne derivano deperimento da malnutrizione e non di rado infezioni polmonari perché il cibo ingerito prende la via sbagliata e va a infettare le vie respiratorie, talvolta provocandone l’ostruzione e la morte per asfissia. In una percentuale più ridotta di casi (tra il 7 e il 9%) il paziente muore per insufficienza respiratoria perché l’ipercinesi muscolare arreca gravi alterazioni della dinamica degli atti di inspirazione ed espirazione. Intubato per la ventilazione assistita, idratato per via endovenosa e nutrito con un sondino gastrico, un parkinsoniano può sopravvivere per anni e anni. Una vita di merda, senza dubbio, ma questa è considerazione da laicista.
Laicisti non sono quelli che si sono subito affrettati a precisare che nel caso di Sua Eminenza non si è trattato di eutanasia, ma semplicemente di rinuncia all’«accanimento terapeutico», che la dottrina cattolica non condanna. È vero, il Catechismo afferma che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima» (2278), ma afferma pure che, «anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte» (2279). Ora, nel caso del cardinale Carlo Maria Martini, la somministrazione di aria, acqua e cibo era da intendere come cura ordinaria o straordinaria? E il paziente aveva il diritto di rifiutarla? Con la logica che ha portato gran parte del mondo cattolico a parlare di suicidio assistito nel caso di Piergiorgio Welby e di assassinio nel caso di Eluana Englaro, Sua Eminenza non aveva questo diritto: doveva essere costretto a sopravvivere, contro la sua volontà. Così non è accaduto. Punto.

venerdì 31 agosto 2012

Lasciano morire il cardinale Carlo Maria Martini di fame e di sete


Dategli il tempo di realizzare e vedrete che anche stavolta Gaetano Quagliariello non mancherà di gridare: «Assassini!».



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giovedì 30 agosto 2012

Al voto! Al voto! Al voto!

Si tratta di «un diritto civico che è pure un dovere». «No all’astensione», dunque. Così i vescovi, ma in Angola


martedì 28 agosto 2012

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Difficile dire se la legge 40 sia più crudele o più cretina, quante volte l’ho scritto su queste pagine. Quanto sia crudele hanno dovuto scoprirlo sulla loro pelle, in questi anni, le donne alle quali è stata vietata la diagnosi preimpianto e che sono state costrette ad abortire l’embrione portatore di una patologia non desiderata, che si poteva evitare di impiantare. Quanto sia cretina, invece, ce lo fa scoprire la Corte di Strasburgo: il nostro Parlamento, poverino, da solo non ci arrivava.

«Da quel banco si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che lo chiama».


Occorre tornare sulla Vocazione di San Matteo del Caravaggio e all’«interpretazione controcorrente» che Sara Magister ne ha dato a metà luglio, sollevando «un “caso”» che ai primi d’agosto stava diventando «sempre più avvincente» (i corsivi sono di Sandro Magister cfr. Malvino, 18.8.2012), perché ci sono novità. In favore della tesi che San Matteo non sia il personaggio anziano e barbuto al centro del gruppo che sta attorno al banco da esattore, ma il giovane imberbe a capo chino che ne è seduto a un capo, scende pure padre Joseph N. Tylenda, dell’Università di Scranton in Pennsylvania. C’è di più: rivendica la primogenitura della tesi, che avrebbe formulato quasi dieci anni fa in una guida turistica (The Pilgrim’s Guide to Rome’s Principal Churches, 1993). 
Ricapitolando. Ad essere convinti che San Matteo non sia il personaggio che per quattro secoli è parso tale ai contemporanei del Caravaggio e a tutta la posterità, ora sono almeno in quattro o cinque: un giornalista di Avvenire, un teologo valdese, il gesuita in Pennsylvania, Sandra Magister e il suo babbo. Contro il parere di Rouchès, di Marangoni, di Voss, di Briganti, di Longhi, di Berenson, di Bora, di Strinati, di Calvesi, insomma di tutti i più prestigiosi storici dell’arte da quando il Caravaggio è diventato oggetto di studio.
Propendere per la lettura piana offerta da costoro contro l’«interpretazione controcorrente» della Magister – mi è stato fatto notare da un lettore – pone il dubbio che si stia incorrendo in una fallacia da argumentum ad auctoritatem. Perché non potrebbe aver ragione lei e torto tutti gli altri? Cazzo, è vero, mi son detto, e allora mi sono messo a cercare.

Tanto ho cercato che sono arrivato a trovare un documento che penso tagli la testa al toro. Il dipinto di cui stiamo parlando si trova nella Cappella Contarelli, che sta nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Il cardinal Contarelli (al secolo Mathieu Cointrel) fu il committente dei tre dipinti del ciclo e quindi anche di quello che qui abbiamo preso in oggetto. Morì una quindicina d’anni prima che fosse realizzata, ma aveva dato indicazioni dettagliatissime all’esecutore testamentario sul come dovessero essere concepiti quei tre istanti topici della vita dell’evangelista. Per la Vocazione di San Matteo scrisse: «Da quel banco San Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte [di esattore delle imposte], si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che, passando lungo la strada con i suoi discepoli, lo chiama».
Ora, a me pare evidente che l’abbigliamento del giovane col capo chino sul tavolo non sia troppo differente per foggia e qualità da quello degli altri due soggetti di età più o meno simile. Sono i due soggetti di maggiore età a vestire in modo distinto e senza dubbio più acconcio al mestiere di riscossore delle tasse. Dei due, a reggere sul naso delle lenti attraverso le quali guarda le operazioni in corso sul banco, uno è in piedi, distratto da ciò che sta avvenendo, mentre l’altro – quello in cui tutti, per secoli, hanno visto San Matteo – ha l’inequivocabile postura di chi sta per alzarsi dal tavolo a cui è seduto: basta fare attenzione alle sue gambe.
Questo San Matteo risponde pienamente alla richiesta della committenza: ritrae l’evangelista nell’atto di «levarsi con desiderio per venire a Nostro Signore che lo chiama» e quel dito col quale oppone un ultimo indugio nel chiedere «chi, io?» è l’ultima sua ritrosia.
Si guardino le masse del quadricipite femorale e del tricipite surale dell’arto inferiore destro: sono nella tensione che precede l’alzarsi in piedi, mentre l’arto inferiore sinistro è piegato al ginocchio a far da fulcro per la torsione di 90 gradi sul busto che sarà necessaria a farsi largo tra il bordo del tavolo e il personaggio che siede sulla sua sinistra, il cui braccio destro è sollevato nel gesto di scostarsi per lasciargli il passo, altrimenti inspiegabile.
Superfluo rammentare i rapporti che a quei tempi intercorrevano tra artista e committente: per il primo non c’era possibilità di venir meno alle indicazioni di chi ordinava l’opera. Con un committente che gli chiedeva di raffigurare un San Matteo nell’atto di alzarsi dal suo banco di esattore per seguire Cristo, Caravaggio si sarebbe preso la libertà di raffigurarlo in tutt’altro modo? Da poco gli era stato rifiutato il primo dei dipinti del ciclo (la prima versione di San Matteo e l’angelo) perché non corrispondente al dettato del committente (l’angelo era troppo sensuale e si prendeva troppa confidenza con l’evangelista): avrebbe deliberatamente cercato analogo infortunio?

Una liberazione

Attendo con impazienza le prossime elezioni politiche per provare finalmente il piacere dell’astensione che per anni mi sono negato per la stramaledetta coazione a votare il meno peggio. Stavolta il meno peggio non lo vedo e, anche se dovesse materializzarmisi dinanzi all’ultimo minuto, accetterò volentieri il rischio di pentirmi di non averlo votato, piuttosto che andare incontro al pentimento di averlo fatto, che ormai è matematicamente assicurato. Le critiche saranno immancabili, so bene, ma me le scrollerò di dosso facendo spallucce. Mi sentirò dire, c’è da scommetterci, che si tratta di una deriva qualunquista, che non sono «tutti uguali», che chi si astiene ottiene il solo risultato di rendere più forte il voto di chi va a votare, ecc. Fa niente, forse neppure obietterò.
Sono mesi che su queste pagine evito di commentare le vicende politiche italiane. (Fanno eccezione i radicali, è vero, ma quella non è politica, è roba che sta a metà tra la semeiotica del marasma in geriatria e l’anatomia degli stomodei in entomologia.) Non trascuro di informarmi su ciò che accade, ma è al momento di trarre conclusioni ed esprimere un parere che mi prende un crampo paralizzante: mi pare che ogni parola sia vana, perfino a tentare di formulare la mia sensazione di avvilimento e di disgusto. Su tutto prevale il sentirmi straniero in patria, che non è cosa nuova, ma oggi c’è un di più che sa di confino.
Leggo Gilioli e Punzi, critici lucidi e tutto sommato onesti dei limiti connaturati al partito che hanno come punto di riferimento, rispettivamente il Pd e il Pdl, e un po’ li invidio: loro ci credono. Credono che Pd e Pdl possano ancora sostenere il peso di un qualche bipolarismo, costruendosi un’anima che sappia reclutare forze su idee, programmi, progetti di società. E leggo Grillo, leggo Di Pietro, soprattutto i commenti ai loro post. Non mi perdo una lirica di Vendola. Leggo, leggo, e non so aspettarmi di meglio che un commissariamento dell’Italia da parte dell’Europa, della durata di almeno tre decenni, il minimo indispensabile perché tutta questa schifezza avvizzisca. Ma neanche è detto, perché abbiamo sul groppone secoli di dominazioni straniere, e il carattere nazionale – fatemi usare questa categoria che da sempre orripila l’uomo di scienza – rimane intatto e uguale a se stesso, come il bottino che gelosamente lo stercorario custodisce sotto terra. Siamo storti dentro, la democrazia non la meritiamo, avremo sempre bisogno della mamma o di un prete, di qualcuno che ci dimostri di volerci bene chiudendo un occhio sulle nostre paure e le nostre impotenze, dandocene un alibi e servendosene.
Non andrò a votare, stavolta, nemmeno se mi ammazzano. Quando l’ho deciso, ho sentito come lo scoppio di un ascesso: un dolore e, subito, una liberazione.