domenica 13 ottobre 2013

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«La lettera va presa alla lettera»
Jacques Lacan

Devo una risposta a Matteo Mainardi, che mi rimprovera di aver riproposto su queste pagine l’intervista nella quale Gianfranco Spadaccia spiegava le ragioni del no radicale all’amnistia del 1981: dice che il contesto era diverso da quello odierno, che a quei tempi le patrie galere non erano sovraffollate come adesso, che allora l’amnistia era la «presa per il culo» che il «sistema» usava «per non riformare se stesso». Si tratta di un’obiezione che avrebbe un peso, se in quell’intervista Gianfranco Spadaccia non motivasse il no radicale a quell’amnistia sulla base di una questione di principio, anzi, di almeno tre principi, che definisce «temi caratteristici dell’opposizione radicale». In pratica, il richiamo al fatto che la situazione carceraria del 1981 fosse diversa da quella del 2013 è strumentale e surrettizio.
In tal senso, torna utile analizzare gli argomenti di Gianfranco Spadaccia. In primo luogo, afferma che il problema  c’è, ma che i radicali non se ne ritengono corresponsabili, dunque non si sentono chiamati a risolverlo, tanto meno ricorrendo alla soluzione prospettata da chi l’ha causato. Non mette affatto in discussione lo «stato di necessità», dunque, e tuttavia rigetta la proposta dell’amnistia come soluzione. In secondo luogo, afferma che i radicali la rigettano, perché non è soluzione strutturale, ed è un rimedio dalleffetto di breve durata. Infine, elenca i punti di una riforma del sistema penitenziario, e più in generale del compartimento della giustizia, che dice alternativa al provvedimento di clemenza.
Suppongo sia superfluo rimarcare le differenze con l’odierna posizione dei radicali sulla questione, di qui la ragione del mio post, che era una risposta all’accusa di incoerenza che i radicali rivolgono in questi giorni a Beppe Grillo: alcuni anni fa si esprimeva in favore dell’amnistia e oggi è decisamente contrario. Ricorrendo alla stessa obiezione offerta da Matteo Mainardi per dare spiegazione dell’evidente torsione subita dai «temi caratteristici dell’opposizione radicale», anche Beppe Grillo potrebbe appellarsi alle mutate condizioni. Ovviamente si tratterebbe di una lettura diametralmente opposta a quella odierna dei radicali, e ispirata dai temi caratteristici dell’opposizione grillina, che non si fa alcuna fatica a riconoscere come diametralmente opposti a quelli odierni dei radicali, che hanno subito anch’essi un’evidente torsione rispetto al passato.
Per inciso, inoltre, è da considerare che Detenuto in attesa di giudizio è del 1971 e offre uno spaccato del mondo carcerario italiano che non è meno infame di quello odierno. Cosa cambia, dunque? Per Matteo Mainardi, il fatto che «oggi siamo alla condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo». Sta insinuando che Gianfranco Spadaccia dovesse aspettare la condanna della Corte Europea per farsi unidea sui diritti dell’uomo?
Il fatto è che, se una questione di principio può farsi elastica a seconda del contesto, l’elasticità deve essere concessa sia alla vacca sia al mulo. Poi, sì, possiamo entrare nel merito e, a piacere, esprimere la nostra preferenza per la vacca o per il mulo, ma questo non toglie che a entrambi puzzi il culo. Levando l’eccesso di colore alla metaforetta, in entrambi i casi il principio si è adattato al contesto, secondo quanto è parso conveniente: a Beppe Grillo oggi conviene fare il forcaiolo anche a discapito della sensibilità mostrata in passato riguardo alla condizione dei detenuti nelle carceri italiane; in quanto a Marco Pannella, sull’amnistia si gioca il tutto per tutto, non avendo più nulla da perdere, e questo a discapito di quella che in passato era la soluzione strutturale al problema.
   
Ma a Matteo Mainardi devo anche alcune delucidazioni che in futuro potranno essergli utili ad evitare increspature al suo bel garbo.
Primo: la mia non è stata una «sparata». Consigliavo solo di «dare una guardatina in soffitta» prima di dare per scontato che i «temi caratteristici dell’opposizione radicale» siano gli stessi da sempre: uno solo, in realtà, è da sempre uguale a se stesso, immutabile e costante, ed è l’opportunismo, spina dorsale di quella «durata» che esalta i gregari e i famigli di Marco Pannella come il semplice fatto che la Chiesa stia lì da due millenni dà ai cattolici dà la certezza che Dio esista veramente.
Secondo: il presunto mio «antiradicalismo». Su questo punto, con infinita dolcezza, vorrei far presente a Matteo Mainardi che io non sono affatto «antiradicale», anzi, mi ritengo assai più radicale di lui. La ragione è semplicissima: lui sta ancora dietro ad uno che ha corrotto il pensiero radicale ad una pratica di ipocrisia, cinismo e opportunismo, io non più. 

sabato 12 ottobre 2013

Aspetta concedendoti pazienza


In prossimità del congresso di Radicali italiani, ti sarai sentito rivolgere linvito a iscriverti. Un consiglio: aspetta qualche anno.
Il giorno che Marco Pannella tirerà le cuoia – e sarà sempre troppo tardi – l’aggettivo «radicale» potrà finalmente liberarsi dalle aberranti accezioni che ha assunto negli ultimi cinquant’anni diventando un termine che ormai esprime solo la variante di un quadro nosografico, quello di una psicopatologia di gruppo dal profilo settario e dalla leadership di tipo carismatico affidata ad un soggetto seriamente disturbato.
Non sarà semplice, e ci vorrà molto tempo, ma «radicale», allora, potrà tornare a prendere il significato che ebbe con James Mill e Jeremy Bentham, con Jules Ferry e Leon Gambetta, con Agostino Bertani e Felice Cavallotti, con Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, per poi andare a smarrire il suo senso originario nell’abbaglio delle fanfaluche capitiniane, nella scimmiottatura della pratica gandhiana e da ultimo, non fosse bastato il lungo rimasticare i rancidi avanzi del modernismo murriano, nel disseppellimento del Benedetto Croce più putrefatto, quello del neoidealismo.
Fino a quel giorno, l’aggettivo «radicale» resterà sequestrato, inservibile a dare un nome a quei democratici che ritengono possibile coniugare liberalismo e socialismo, emendandoli di ciò che li ha resi incompatibili nel XX secolo: fino a quando «radicale» sarà sinonimo obbligato di «pannelliano», questa operazione sarà impossibile, ed è per questo che augurarsi la morte di Marco Pannella esprime una tensione ideale che va ben oltre l’auspicio della rimozione di un ostacolo fattosi insuperabile.
Certo, dopo il funerale occorrerà darsi da fare per disperdere i parassiti che gli sono cresciuti sotto le ascelle, ma incoraggia il dato di esperienza: quando il cane muore, le zecche muoiono con lui o saltano su un altro groppone.
Aspetta qualche anno, dunque. Aspetta concedendoti pazienza.

giovedì 10 ottobre 2013

mercoledì 9 ottobre 2013

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I radicali hanno scoperto che Grillo era a favore dell'amnistia, un tempo, e per ragioni diametralmente opposte a quelle per le quali è contrario, oggi. Prima di lapidarlo, sarebbe il caso di dare una guardatina in soffitta.

Del più e del meno (più del meno che del più)

Giorgio Napolitano invia un messaggio al Parlamento. Ne ha facoltà, lo prevede la Costituzione: «Può inviare messaggi alle Camere» (art. 87). Sia chiaro: «può», nessuno lo obbliga. E infatti abbiamo avuto più Presidenti della Repubblica che messaggi dei Presidenti della Repubblica alle Camere, sarà che l’iniziativa del Quirinale non ha mai avuto alcun effetto vincolante, come dimostra l’ultimo dei messaggi al Parlamento, una dozzina d’anni fa: lo inviò Carlo Azeglio Ciampi, aveva a oggetto la necessità di un maggior equilibrio nel sistema dell’informazione, e fece un buco nell’acqua, se ancora oggi siamo dietro al Botswana nella apposita classifica. Non che sia andata diversamente nei casi precedenti, sarà per questo che il Quirinale ricorre al messaggio alle Camere quando proprio non può farne a meno, in pratica quando vuole salvare la faccia coi posteri e far scrivere agli storici: «Il Presidente della Repubblica fece tutto quanto era in suo potere».
È il paradosso della cosiddetta Costituzione materiale: il Quirinale esterna un giorno sì e l’altro pure, praticamente su tutto, spinge, preme, fa ricattucci e dispettucci, incontra ufficialmente Tizio e ufficiosamente Caio, cova governi e detta l’agenda legislativa, ma con l’unico strumento che gli è dato per farsi sentire non ottiene mai un cazzo.
Qui, con il messaggio inviato da Giorgio Napolitano alle Camere, è in questione lo stato delle carceri in Italia, una situazione vergognosa che in sede europea ci ha fatto cumulare richiami, censure e sanzioni a righe, a quadretti e a pallini, fino all’ultimatum che ha scadenza tra sei o sette mesi: se la condizione dei detenuti resta disumana com’è, l’Europa ci fa un culo grosso come una casa.
Condizione disumana da almeno tre lustri: non troppo diversa, insomma, da quella che Giorgio Napolitano trovò nel 2006, quando fu investito del suo primo mandato. E qui sorge spontanea la domanda: perché manda il messaggio alle Camere solo adesso? Pare che anche adesso in Parlamento manchino i numeri per un provvedimento di clemenza e, in quanto alle altre soluzioni che prospetta, potrebbero esserci i numeri, ma pare manchi il tempo. Vorrà si possa scrivere che «il Presidente della Repubblica fece tutto quanto era in suo potere», non gli si può dar torto. In ogni caso, è evidente che il problema morale riceve dalle minacce di Strasburgo un considerevole aiutino. 
D’altronde, bisogna essere onesti: Giorgio Napolitano non è mai stato insensibile al problema. E giustamente ci tiene a rammentarlo anche in questa occasione: «Com’è noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari. Nel 2011, in occasione di un convegno tenutosi in Senato, avevo sottolineato che la realtà carceraria rappresenta “un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”».
L’accenno è al convegno promosso dai radicali e al quale Giorgio Napolitano partecipò per far cessare l’ennesimo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, che ennesimamente minacciava di lasciarsi morire sotto il Palazzo, e il Palazzo, si sa, non vuole immondizia davanti al portone. In quella occasione, Giorgio Napolitano riconobbe le catastrofiche condizioni in cui versa la giustizia in Italia e parlò di una «prepotente urgenza» di soluzioni adeguate, possibilmente strutturali (fece cenno a iniziative del Governo per l’ampliamento della capienza penitenziaria e per il varo di norme che consentissero pene alternative alla detenzione in carcere, stigmatizzando l’umoralità sociale perennemente oscillante tra «ciclica depenalizzazione e ripenalizzazione»), «non escludendo alcuna ipotesi» in grado di colmare l’«abisso» tra il dettato costituzionale e lo stato dei fatti. Rammentò inoltre che più volte era «tenacemente intervenuto nei già trascorsi cinque anni di mandato su preoccupazioni ed esigenze relative sia al superamento di gravi inadeguatezze e insufficienze del sistema giustizia in Italia sia al rispetto degli equilibri costituzionali tra politica e giustizia», ma che di più non poteva e dunque non voleva fare, riconoscendo i meriti di Marco Pannella nell’aver sollevato la questione del sovraffollamento carcerario, precisando che tale riconoscimento andava «al di là di tutte le differenziazioni legittime rispetto a suoi giudizi o a sue iniziative». Come a dire: riconosco il problema, ma non strusciarti addosso, ché con la bava mi rovini il Caraceni. Il termine «amnistia» non gli scappò neanche nella più allusiva delle possibili perifrasi: si limitò a dire che «dalla politica devono venire le risposte», ma rammentò che «la politica è debole e divisa, incapace di produrre scelte coraggiose».
Tant’è, ma in quell’intervento Pannella lesse la promessa di un appoggio alla sua battaglia, la sola via di uscita che era riuscito a trovare per venir fuori dal solito vicolo cieco in cui si era andato a infilare coi suoi folli rilanci.
Il solenne messaggio alle Camere arriva solo adesso. Per chi conosce Marco Pannella non c’è da stupirsi se ai radicali è già stata data la consegna di considerare quello odierno il risultato ottenuto grazie a due anni di insulti rivolti al Quirinale: da «uomo di grande esperienza interiore e di grande saggezza», l’indomani del convegno, alle peggiori accuse e alle più pressanti molestie per due anni, con una breve tregua per la nomina di Emma Bonino alla Farnesina, fino alla minaccia di denuncia per tradimento della Costituzione, non più di qualche settimana fa, ma oggi – non c’è da dubitarne – di nuovo «uomo di grande esperienza interiore e di grande saggezza», non più «antropologicamente stalinista», non più «tecnicamente criminale». Non c’è da scandalizzarsi, coi radicali funziona così. È perciò che chi li conosce li evita.
Ma torniamo a Giorgio Napolitano. Le agenzie battono la notizia che chiede al Parlamento un’amnistia. Non è così: prospetta «diverse strade», e quella dell’amnistia è citata per ultima. Innanzitutto, indica come soluzione la riduzione del numero complessivo dei detenuti «attraverso innovazioni di carattere strutturale» («messa alla prova», pene alternative a quella carceraria, riduzione dei casi in cui sia prevista la custodia cautelare in carcere, «accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine», modifiche della «ex-Cirielli», «incisiva depenalizzazione d[i alcuni] reati»), poi suggerisce «l’incremento della ricettività carceraria», che pure ritiene «insufficiente rispetto all’obbiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla sentenza della Corte di Strasburgo». In pratica, vi è un più che implicito rigetto dell’amnistia come «soluzione strutturale», che è la bislacca tesi di Marco Pannella, come se le amnistie succedutesi al ritmo di una ogni tre anni, fino al 1991, avessero mai strutturalmente risolto un cazzo. E tuttavia, dicevamo, il messaggio alle Camere passa per essere un invito al Parlamento a licenziare un provvedimento d’amnistia.
Questo accade in una curiosa contingenza, quella nella quale ogni misura di clemenza corre il rischio di sembrare necessaria solo adesso che Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva. Non c’è affatto da stupirsi, dunque, che l’«ostilità agli atti di clemenza», che lo stesso Giorgio Napolitano non fa fatica a riconoscere nell’opinione pubblica, dia segni di subita recrudescenza da parte di chi sospetta – poco importa quanto a ragione – che questa sia la via di fuga offerta a Silvio Berlusconi. Poco importa quanto a ragione, perché il messaggio alle Camere arriva intempestivo.
Ce n’è per scontentare tutti, perfino i radicali, perché la soluzione dell’amnistia è rubricata dal Quirinale a misura tampone, tutt’altro che a «soluzione strutturale». Ma ai radicali conviene far finta di niente e incassare il messaggio alle Camere come una vittoria. Non c’è da dubitare che sapranno chiudere un occhio, assecondare l’impressione prevalente che Giorgio Napolitano abbia chiesto al Parlamento l’amnistia, e solo l’amnistia, e così archiviare il flop della raccolta delle firme per i loro dodici referendum: poco più di 150.000 firme – meno di un terzo di quante erano necessarie – per i sei referendum del pacchetto «Cambiamo noi» e poco più delle 500.000 necessarie per gli altri sei del pacchetto «Giustizia giusta», mentre il margine di sicurezza a fronte delle immancabili contestazioni d’ordine burocratico è sempre stato fissato dagli stessi radicali intorno alle 550.000 firme. Anche ammesso che la Corte di Cassazione non abbia a sollevare eccezioni di legittimità, e in verità sui primi due quesiti qualche dubbio è sembrato subito farsi strada, non v’è alcuna certezza che le firme valide siano in numero necessario perché gli italiani possano esprimere un parere almeno su sei schede referendarie.
Un flop che ha dell’eclatante, se si pensa alla facilità con la quale in passato i radicali hanno raggiunto l’obiettivo oggi mancato, ma che era da ritenersi largamente previsto già in partenza, tenendo conto del crollo verticale di consenso che hanno avuto negli ultimi anni. Mai così bassa la percentuale ottenuta alle ultime elezioni politiche (0,19%), mai così basso il numero degli iscritti, mai così aspre le polemiche interne riguardo alle questioni di sempre, ultimamente avvelenate dalle conseguenze sempre più gravi dell’involuzione settaria di cui l’area radicale soffre da almeno un quarto di secolo. D’altra parte, sul logorio di uno strumento come quello referendario era stato lo stesso Marco Pannella a insistere per anni: la voglia gli è tornata solo quando ha ritenuto necessario bilanciare a destra, col pacchetto «Giustizia giusta», lapertura a sinistra che qualche scavezzacollo aveva azzardato col pacchetto «Cambiamo noi». Operazione riuscita: scavezzacollo bilanciato, anzi, annichilito.
Nel prossimo fine settimana si terrà il Comitato nazionale di Radicali italiani, il soggetto politico che nella cosiddetta «galassia radicale» ha dato sempre più evidenti segni di insofferenza allautocrazia di Marco Pannella, sempre più caso clinico che problema politico. Per gli amanti del genere – necessario un pizzico di perversione – si annuncia uno spettacolo imperdibile.
Per il segretario ed il tesoriere di Radicali italiani, «siamo stati battuti da uno Stato che ha impedito a milioni di italiani di firmare, fuorilegge anche rispetto a una disciplina referendaria fatta apposta per sabotare le iniziative dei cittadini a meno di non esser disposti a violarla. Ostacoli che conoscevamo già in partenza ma che non siamo riusciti a superare. Questi referendum [i sei del pacchetto «Cambiamo noi»] non si terranno anche perché non sono stati voluti da nessuna componente della partitocrazia, quella progressista in maniera più scandalosa di quella destra».
Un modo come un altro per rimuovere il trauma: se si terranno gli altri sei del pacchetto «Giustizia giusta», è grazie a Silvio Berlusconi. E anche se nessuno di questi sei referendum serve ad alleggerire la sua condizione di condannato in via definitiva, il guaio è fatto: agli occhi della «brava gente» i radicali sono ancor più «traditori» di quanto lo fossero quando sedevano in Parlamento grazie all’ospitalità offerta dal Pd nelle proprie liste; il consenso dato da Silvio Berlusconi alla proposta radicale di un’amnistia assume lo stesso segno che prende il messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano. In pratica – va’ a capire quanto a torto e quanto a ragione – gli eroi dell’antipartitocrazia appaiono all’opinione pubblica come il catalizzatore dei più infami patti sottobanco della partitocrazia. Grazie a Marco Pannella, ovviamente.  

lunedì 7 ottobre 2013

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Jonathan Haidt, di cui l’ultimo numero della Domenica de Il Sole 24 Ore ci offre un brano tratto dal suo ultimo volume (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religioni – Codice Edizioni 2013), sostiene da tempo che la specie umana sarebbe dotata di un’intuizione morale indipendente da ogni forma di ragionamento e priva da ogni condizionamento di natura utilitaristica. In pratica, è convinto che la morale scaturisca da un moto affettivo immediato ed automatico, inconsapevole e privo di ogni intenzionalità, come una sorta di elemento biologico sul quale – e almeno questo gli fa onore – non si azzarda a disquisire, limitandosi a dichiararlo universale. Siamo, in buona sostanza, dinanzi alla riproposta dell’innatismo.
Qui, però, l’idea che la morale nasca con noi non ha alcuna pretesa di fondare una precettistica universale mediante la selezione di ciò che è genuino rispetto a ciò che è artefatto: Jonathan Haidt è del parere, infatti, che ogni giudizio morale risponderebbe a un’intuizione che, in sé, almeno in parte, è giusta. Insomma, seppur parzialmente, tutti i valori morali sarebbero espressione della moralità innata all’uomo e dunque potrebbero convivere pacificamente nei loro precipitati comportamentali, perché in ognuno d’essi vi è un riflesso di quella comune natura che – sostiene – poco ha a che fare col calcolo più o meno intellegibilmente imposto dalle contingenze.
L’obiezione che i valori morali siano un prodotto dell’evoluzione umana non lo impensierisce affatto: neanche prova a metterlo in discussione, perché comunque – scrive in questo suo ultimo lavoro – «le intuizioni precedono il ragionamento strategico»: «la morale è molto di più di una questione di danno e correttezza». Conclusioni?


Siamo dinanzi a una visione della specie umana come una οκουμένη che chissà quale divinità degli inferi si è divertita a disperdere in frammenti di ragione che sembrano come maledette a scontrarsi in eterno, quando la ricomposizione è lì, sotto il naso dei contendenti: basta essere carini, scambiarsi cortesie, e ogni questione che in apparenza ci fa sembrare nemico chi non la pensi come noi smette di avere ragion dessere.
Non voglio essere cattivo e non andrò oltre il commento implicito che sta in trasparenza a quanto ho fin qui esposto. Aggiungo solo che la teoria di Jonathan Haidt sembra il tentativo di costruire un argomento che superi ogni relativismo etico in una sorta di panmoralismo che somiglia molto a quello dell’idealismo o, per venire ai nostri giorni, alla scommessa lanciata da Bergoglio nella sua risposta a Scalfari: cerchiamo quel che ci unisce, e quel che ci divide ci apparirà irrilevante.
È un buon argomento?

Un buon argomento deve essere corretto, valido e persuasivo. È corretto quando poggia su premesse incontestabili, valido quando non incorre in tautologie o contraddizioni, persuasivo quando risulta efficace. Non basta che sia solo efficace, dunque, a renderlo buono, perché la persuasività si può ottenere anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza; né basta che sia valido, perché il rispetto della logica proposizionale non assicura un risultato accettabile partendo da false premesse; tanto meno basta sia corretto, perché anche partendo da premesse autoevidenti si può arrivare a conclusioni errate alterando il procedimento attraverso il quale l’argomento viene a costruirsi.
Sembrerebbe lecito supporre, allora, che la «bontà» del «buon» argomento sia una qualità morale. Non è così. Se la «buona» argomentazione rifugge dal ricorso alla persuasività che si avvale di mezzi invalidi o scorretti, non è perché abbia un ethos ad informarla, anzi, un argomento non è mai tanto a rischio d’essere fallace, ancorché sottilmente fallace, come quando rivendica «bontà» in virtù dell’obbedienza ad una precettistica morale: più o meno coscientemente, si è sempre tentati dal far carte false per rendere persuasiva la morale della quale ci si sente chiamati a difensori, perché il «bene» che essa incarna è sempre dato come antecedente e superiore alla logica chiamata a giustificarlo. Così nel caso dell’argomento scorretto, che ha già nelle premesse l’errore da rendere persuasivo. In quanto all’argomento invalido, quando rivendica «bontà» in virtù dell’obbedienza ad una precettistica morale, non fa che rivelarne la natura tautologica o contraddittoria.
Si può concludere che mai un argomento è tanto lontano dall’esser «buono» come quando la «bontà» è qualità morale. Dell’ethos, al contrario, il «buon» argomento ha la pretesa di porsi a fondamento, rinunciando ad ogni trascendente: la logica che lo muove non si proclama manifestazione di un Logos, ma strumento immanente che nell’immanenza agisce per darle un senso universalmente intellegibile. Ne consegue – con Isocrate, contro Aristotele – che l’argomentare racconta storia e carattere di chi argomenta, non già del Logos che si incarna in chi ne racconta l’incarnazione: la teoria dell’argomentazione non è l’esegesi di una narrazione mitica, ma il tentativo – in gran parte riuscito – di decostruire la metafisica. Jonathan Haidt, invece, porge un argomento che intende fondarne una tutta nuova, in realtà vecchia quanto la storiella della Torre di Babele. Per Bergoglio non vale neanche la pena esprimere un giudizio: è la riedizione delleristica gesuitica aggiornata ai nostri tempi, caritas for dummies.  

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Corrispondenze


È bastato un grottesco articolo pubblicato su Lercio per far emergere la vera natura di tanti Italiani, che si professano animalisti ma non sanno neppure dove stia di casa l’antispecismo. Perché non si può essere antispecisti e razzisti contemporaneamente. Su tanti forum e pagine Facebook che affrontano problematiche animaliste spuntano, come funghi dopo una settimana di pioggia, le accuse contro la Kienge, contornate da epiteti che mi vergogno di riportare. «Kienge shock: prendiamo cani e gatti degli Italiani per  sfamare gli immigrati», titola l’articolo. Ma basterebbe leggere due o tre righe avanti per capire che si tratta di una burla, come tutti i testi pubblicati da Lercio. Invece, oltre che un popolo con spunti di razzismo, siamo anche pigri e ignoranti, perché non ci soffermiamo sui contenuti. Eppure, basterebbe guardare l’url: www.lercio.it. Come si può dare credibilità a un sito che si chiama Lercio?
E ora ci ritroveremo questo articolo che circolerà per decenni, come il famoso Bonsaikitten che proponeva gatti in bottiglia a forza di fotomontaggi. Nonostante siano passati quasi 3 lustri, ogni tanto se ne riparla.
Vita dura da oggi in poi per la Kienge, che un giorno dovrà spiegare alle future generazioni di nipoti e pronipoti, indignati da una nonna tanto malvagia, che quelle parole non le ha mai dette e forse, neppure pensate.
E io? Mi sento indignato, certo, ma anche divertito da tanta superficialità.

Luigi Civita


Quello che dovrebbe muoverci a preoccupazione, più che a indignazione, è la notevole caduta della qualità del falso, in generale: sempre più spesso il registro ironico, anche quando trascende nel grottesco, assume carattere assertivo. Si riesce a vendere tavoli rivestiti di formica come scrittoi Luigi XV.  

venerdì 27 settembre 2013

Πολεμική τέχνη

La polemica non è che la continuazione del duello con altri mezzi. In pratica, si rinuncia ai pugni, alla spada, alla pistola, e si incrociano i propri argomenti, poco importa quanto validi o erronei, purché si ritenga che abbiano modo di risultare efficaci. Prendersi a randellate, in tal senso, può essere assai più onesto che polemizzare, perché un legno marcio va in frantumi su qualsiasi groppone, mentre un sofisma, se ben assestato, può stendere anche un brillante polemista, quando è preso alla sprovvista. Non c’è da stupirsene, perché, mentre un retto argomentare esige studio, disciplina e onestà intellettuale in ogni segmento del suo procedere, il sofisma spesso è frutto di automatismi afferenti ed efferenti al senso comune, sicché la sua efficacia non sempre dipende solo da particolari doti intellettive di chi lo produce. I sofismi di chi difende una fede, per esempio, spesso sono vecchi quanto il suo dio, e hanno la versatilità d’uso di una protesi così vecchia da aver preso ad essere vascolarizzata, diventando attiva quanto un arto. Parare un buon argomento può riuscire relativamente agevole a questi mascalzoni, perché hanno imparato l’elusione, lo stornamento, la manipolazione e tutte le altre tecniche della controargomentazione fallace quando ancora erano attaccati alle mammelle materne. Un esempio ce lo offre Bergoglio nella sua lettera a Scalfari: «Non seguirò passo passo le sue argomentazioni – scrive – ma andrò al cuore delle sue considerazioni».

Come nel duello, anche nella polemica la posta in gioco è il riuscire ad aver la meglio sull’avversario, ma le analogie non si limitano a questo, perché anche tra il polemizzare e il duellare vi è un’equipollenza che potremmo definire di tipo geometrico tra gli elementi che ne caratterizzano natura, dinamica e sviluppo, giacché terreno sul quale si consuma la sfida, competenza nell’uso dell’arma scelta, condizioni che modulano l’azione, non escluse quelle fortuite, hanno peso in egual misura. E tuttavia una sostanziale differenza resta, e ancora una volta segna un punto a favore del randello. Raramente, infatti, un duello ha termine senza che il vincitore abbia avuto soddisfazione, pur se formale, e senza che il perdente abbia fatto ammissione di sconfitta, pur se implicita; non così nel chiudersi di una polemica, dalla quale il mascalzone esce sempre con la convinzione di aver vinto o almeno col sentirsi in dovere di mostrarsene convinto. Qui si consuma un’ulteriore sfida, quella che ha per posta in gioco il riuscire a convincere almeno se stessi di esserne davvero convinti. Con due spanne di ferro nella pancia o una pallottola ficcata in fronte è assai più complicato, ma anche con due vertebre fratturate non è così semplice, mentre chi resta appiccicato al muro da argomenti schiaccianti riesce sempre a staccarsene, e questo può prolungare la polemica all’infinito, senza alcun esito, al punto da porsi la domanda: a cosa serve? Nella lettera di Ratzinger a Odifreddi, per esempio, in premessa alla contestazione dell’affermazione che la teologia sia una sorta di «fantascienza», si legge: «Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli», come se la durata fosse certificazione di «scientificità». Anche qui, come nel precedente esempio, siamo dinanzi al limite più grosso che la polemica ha nei confronti del duello: in fondo, in fondo, in fondo, non serve a niente.

Mi è d’obbligo, a questo punto, sgombrare il campo da quanto possa essere stato frainteso nel trattare un argomento come la polemica partendo da ciò che è – πολεμική τέχνη – per arrivare a dire che si tratta di τέχνη sostanzialmente inefficace. Questo è vero, ma solo perché ogni πόλεμος, anche quando asimmetrico e privo di regole, ha per fine un diverso «aver la meglio sull’avversario», che non a caso vien detto «nemico». Voglio dire che nella continuazione del πόλεμος con una τέχνη diversa da quella che gli è propria va persa l’equipollenza geometrica tra i fini che i contendenti si propongono. Si tratta indubbiamente di un enorme salto qualitativo sul piano dell’evoluzione antropologica, ma in sostanza il salto sta tutto nel differire il fine, e invece di annichilire il nemico ci si accontenta di dimostrare che ha torto. Può anche accadere che questo si riveli di grande utilità nel risparmiarsi tutte le scocciature che derivano dall’uso della forza bruta, ma a patto che le regole della retta argomentazione siano condivise al punto da dare agli argomenti una forza univocamente ponderabile dalle parti in polemica. Bello a dirsi, impossibile a farsi quando sia patente, anche da parte di uno solo dei contendenti, l’uso di strumenti che violino o aggirino le regole della retta argomentazione: lì polemizzare è inutile, perché il contenzioso slitta inevitabilmente da ciò che è oggetto di polemica alla legittimità degli strumenti di polemica, e in pratica si è costretti a constatare che le regole non sono condivisibili. Di fatto, solo in ambito scientifico la polemica dissuade proficuamente dalla tentazione di ricorrere al randello. 

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mercoledì 25 settembre 2013

Per dire


Appena avrò un po’ di tempo, scriverò dei carteggi Scalfari-Bergoglio e Odifreddi-Ratzinger. Sarà inevitabile, allora, anche solo en passant, parlare del terreno sul quale si è tenuto il dialogo, cioè de la Repubblica. Che ieri, accanto alla risposta di Ratzinger a Odifreddi, metteva il dipinto Copernico che parla con Dio del pittore Jan Mateiko. 



martedì 24 settembre 2013

«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano»



Riporto un brano tratto dall’intervista che Jorge Mario Bergoglio ha concesso ad Antonio Spadaro per l’ultimo numero de La Civiltà Cattolica (CLXIV/3918), perché riapre una questione che ho già discusso su queste pagine: «Visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della Vocazione di San Matteo di Caravaggio” […] È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”» (pag. 452). Come Sandro Magister si è subito affrettato a segnalare con comprensibile soddisfazione, si tratta della stessa «interpretazione che la storica dell’arte Sara Magister ha rilanciato con forza su TV 2000», lo scorso anno, senza troppa fortuna: anche «Jorge Mario Bergoglio – scrive il babbo della Sara – ha sempre visto il Matteo della Vocazione dipinta dal Caravaggio non nel maturo signore al centro del gruppo, come predicano le guide turistiche e la maggior parte dei critici, ma nel giovane a capo chino, che ancora “afferra i suoi soldi” proprio mentre Gesù lo chiama» (Settimo Cielo, 20.9.2013). Il pudore lo trattiene dal dire che il Papa abbia parlato ex cathedra – d’altronde non sarebbe una cathedra di Storia dell’Arte – ma per dar forza a questo inaspettato avallo alla tesi di sua figlia ricorre a una graziosa variante di quella che i logici di scuola anglosassone chiamano «fallacy for appeal to authority», e cita un altro passaggio dell’intervista, quello in cui Sua Santità dice: «In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano», quasi ad insinuare che lo Spirito Santo assista in Bergoglio un infallibile critico d’arte.
Sull’infondatezza della tesi di Sara Magister mi sono già intrattenuto in due occasioni, ma qui occorre ripetere:
(1) Per almeno dodici secoli fino al luglio del 1599 in cui Caravaggio mette mano al dipinto, nella tradizione d’occidente e d’oriente San Matteo è raffigurato anziano e barbuto, e lo stesso Caravaggio lo raffigura così in almeno tre sue opere. In pratica, non si conosce un solo San Matteo che sia stato ritratto giovane e imberbe nella Storia dell’Arte fino ai tempi di Caravaggio, né dopo. Se fosse valida la tesi della Magister, questa sarebbe la sola eccezione. Per giunta risalirebbe ad una epoca nella quale la Chiesa aveva un controllo ferreo sulla produzione artistica e non ammetteva soluzioni ardite. D’altronde, Levi (che poi si chiamerà Matteo) aveva tra i 40 e i 45 anni al tempo in cui Gesù gli chiese di seguirlo (le fonti più attendibili datano la sua nascita tra il 10 e il 15 a.C.): del tutto improbabile che si consentisse di ritrarlo con le sembianze di un giovanotto intorno ai 20 anni, com’è quello in cui la Magister e Bergoglio ritengono di poter identificare l’apostolo.
(2) All’opera del Caravaggio si ispirarono parecchi artisti coevi o di poco posteriori: talvolta il giovane che per la Magister dovrebbe essere Matteo è addirittura assente e in tutti il gesto di Cristo risulta inequivocabilmente indirizzato a un personaggio anziano e barbuto, di regola nella posa di chi, indicando se stesso, chieda:  «Chi? Io?»








(3) Il committente della Vocazione di San Matteo, il cardinal Contarelli morì una quindicina d’anni prima che fosse realizzata, ma aveva lasciato istruzioni dettagliatissime all’esecutore testamentario sul come dovesse essere concepito quel quadro: vuole – scrive un «San Matteo [che sia ritratto] dentro un magazeno, over, salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et danari [...] Da quel banco San Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte, si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che, passando lungo la strada con i suoi discepoli, lo chiama». E l’esecutore testamentario, Virgilio Crescenzi, sarà scrupolosissimo nel trasmettere queste indicazioni al Caravaggio, come è accertato dal carteggio tra i due e dal contratto. Non già un San Matteo nell’atto di «afferra[re] i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”», come la tela ha detto a Bergoglio, ma in quello che è un tutt’uno tra il chiedere: «Chi? Io?» e per levarsi dondera seduto. Basta osservare la postura delle sue gambe, nellinequivocabile torsione di chi stia per alzarsi e scivolare via tra sedia e banco.


D’altra parte, il giovane in cui la Magister e Bergoglio hanno visto Matteo non sta affatto «afferrando» le monete  sul tavolo: l’impressione è data dalle due mani che sono giunte sul banco, ma il fatto è che non sono entrambe sue. Sono due mani destre, e appartengono ovviamente a due diverse persone, basta constatare che le maniche degli abiti sono di foggia e di colore diversi: una è la sua, del giovane seduto a un capo del banco, e si limita a contare le monete, forse ad impilarle; l’altra è dello stesso San Matteo che stringe in mano un foglietto, forse una ricevuta. Così accostate possono dare l’impressione che appartengano alla stessa persona colta in una posa di rapace avidità di denaro. Questo tipo di infortunio non è affatto raro in Caravaggio, lo hanno già segnalato Bernard Berenson e Maurizio Calvesi: maestro degli effetti speciali della luce, non era eccelso nel disegno, per tacere delle proporzioni anatomiche e degli equilibri di massa. 


Non bastassero questi elementi, ve ne sono anche di più evidenti. Matteo era un esattore: è ragionevole pensare che un esattore segga su un lato lungo o su un lato corto di un banchetto rettangolare? Il registro di accredito, poi, è aperto in favore del soggetto anziano e barbuto o del soggetto giovane e a capo chino?
Pratica, cioè soluzione formale per adempiere il mandato della committenza; precedenti, cioè consolidata canonistica degli stilemi e dei simboli che caratterizzano un personaggio; pubblico, qui autorevomente rappresentato da autori coevi o di poco posteriori al Caravaggio, che reinterpretano la scena senza trovare alcuna perplessità nei discepoli del Caravaggio ancora in vita (Carlo Saraceni, Orazio Gentileschi, Giovanni Serodine): le tre P che guidano un critico darte tagliano le gambe ad ogni altra lettura. 

Resta una domanda: cosa può aver ingannato Bergoglio?  Possiamo solo andare per ipotesi, cominciando a escludere che abbia fatto sua la tesi della Magister, che non è antecedente al 2012. Prima di allora, a identificare Matteo nel giovane seduto a capo chino era stato solo padre Joseph N. Tylenda, dell’Università di Scranton, in Pennsylvania, autore di una guida turistica (The Pilgrim’s Guide to Rome’s Principal Churches, 1993) che sarebbe interessante sapere se stia sugli scaffali di Papa Francesco. Potrebbe averla acquistata quando venne a Roma per il concistoro del 1998.
Più complicato cercare di capire come Tylenda sia arrivato a formulare la tesi di un Matteo che il Caravaggio avrebbe voluto rappresentare nell’atto di «afferra[re] i suoi soldi, come a dire: “No, non me! No, questi soldi sono miei!”». Un indizio può darcelo la bibliografia della sua guida turistica, nella quale sono almeno due i volumi che riportano una suggestiva cazzata che per qualche tempo era data come fatto assodato: per la costruzione della scena della Vocazione di San Matteo il Caravaggio avrebbe tratto spunto da una delle incisioni di Hans Holbein il Giovane della serie La danza della Morte, quella che ritrae un gruppo di giocatori di carte attorno a un tavolo, il più giovane dei quali, approfittando del subbuglio causato dalla comparsa di un satanasso, fa man bassa della posta ancora in gioco.


Peccato che la cazzata non abbia mai trovato fonte documentata. Libri e stampe che avevano visto la luce in paesi dove la Riforma aveva attecchito bene non avevano alcuna possibilità di circolare a Roma, né sul resto della Penisola. Inoltre, ammesso e non concesso che lincisione circolasse, non sarebbe stato estremamente pericoloso riprodurre una scena di quel genere mettendo Gesù al posto di un repellente diavolaccio?

lunedì 23 settembre 2013

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L’operazione che con la rinuncia di Ratzinger e l’elezione di Bergoglio ha allentato l’insostenibile pressione che da qualche anno gravava sulla Chiesa di Roma può dirsi ottimamente riuscita, d’altronde per uccellare chi ne ignora la vera faccia bastavano un po’ di fondotinta, due freghi di bistro e due tratti di minio. È l’immagine che ho usato, a caldo, nel commentare il «buona sera» del 13 marzo.  
Ovviamente tra i suoi figli c’è chi la preferiva com’era prima, e ora storce il muso, ma mamma è mamma, e sa quello che fa, quindi finirà per farsela piacere anche truccata a questo modo, tanto nessun trucco sta su per sempre, e in fondo a qualcosa serve.
«Io pure ero tra i perplessi», scrive Vittorio Messori (Corriere della Sera, 21.9.2013), ma aggiunge: «In una prospettiva cattolica ciò che conta è il Papato, è il ruolo – che gli è attribuito dal Cristo stesso – d’insegnamento e custodia della fede, mentre non ha rilievo teologico il carattere del Papa del momento, cui si chiede solo la salvaguardia dell’ortodossia e la guida della Chiesa tra i marosi della storia».
Torna l’allegoria della barca (cfr. Premessa a due o tre dozzine di post): il mare in cui naviga è il tempo, e l’onda è il mondo, ora favorevole, ora avverso; quando le è favorevole, è il momento di spiegare le vele, e allora la verità di cui si sente depositaria e custode pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa; quando le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare pericolosamente, le vele vengono ammainate, e allora è il momento della carità.
Messori lo dice in altro modo: «I decenni postconciliari hanno visto, nella Chiesa, lo scontro sulle conseguenze da trarre dalla fede: politiche, sociali e, soprattutto, morali. Ma della fede stessa, della sua credibilità, del suo annuncio al mondo, ben pochi sembrano essersi preoccupati. Ben venga, dunque, il richiamo del Vescovo di Roma: si rievangelizzi, annunciando la misericordia e la speranza del Vangelo. Il resto seguirà. Non vi è, nelle sue parole, alcun cedimento sui cosiddetti “princìpi non negoziabili” in materia etica. Ma vi è, giustamente, l’insistenza sulla doverosa successione: prima la fede e poi la morale. Prima convochiamo, accogliamo e curiamo i feriti dalla vita e poi, dopo che avranno conosciuto e sperimentato l’efficacia della misericordia del Cristo, diamo loro lezioni di teologia, d’esegesi, d’etica».
La Grande Puttana torna all’adescamento, poi, con calma, quando sarà il momento, passerà all’incasso. E guai a chi rifiuterà di pagare i suoi servizietti. 


domenica 22 settembre 2013

La dismaieutica di Ivan Scalfarotto


L’argomentazione fallace si avvale talvolta di un metodo che potremmo definire dismaieutica. Se la maieutica, infatti, è la tecnica che aiuta l’argomento a venire alla luce assistendo chi deve partorirlo in modo che il travaglio sia agevole e il nascituro non abbia a subire danni, la dismaieutica narcotizza chi ne è gravido, glielo ammazza in pancia e al risveglio gli mette in braccio un bambolotto di plastica.
Prendiamo, per esempio, Ivan Scalfarotto: «Ieri – scrive – la Camera ha approvato l’estensione integrale della legge Mancino all’omofobia e alla transfobia. Come previsto, una cosa così nuova per il nostro paese non poteva che suscitare molte domande, polemiche e dubbi. Ho pensato che la cosa migliore fosse fare una lista di domande e risposte, in modo da chiarire a tutti cosa si è approvato ieri sera» (ivanscalfarotto.it, 20.9.2013).
Sembra un fare socratico, ma il dialoghetto che offre ai suoi lettori è dismaieutico. Narcosi: «Per la prima volta un ramo del Parlamento approva una norma ad hoc che riconosce in Italia l’esistenza, la dignità e il diritto di vivere pacificamente di una comunità di persone (le persone LGBT) che fino a oggi non sono state riconosciute in quanto tali, al contrario di altre minoranze. […] Hanno ottenuto l’integrale applicazione della legge Mancino e il riconoscimento che l’omofobia e la transfobia sono fenomeni da reprimere allo stesso modo del razzismo, della xenofobia e dell’antisemitismo».
Sembra un’epidurale, ma è evidente che l’intento vada più in là dell’analgesia: «La legge Mancino è stata estesa nella sua interezza», scrive, ma poi: «Il titolo della legge risulta modificato: la legge Mancino ora si chiama “Misure urgenti in materia di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’omofobia o sulla transfobia”». E che bisogno c’era di modificarlo? In coda non ci poteva limitare ad aggiungere «sessuali»?
Non lo spiega, e ve n’è ragione, basta andare al punto in cui afferma che il sub-emendamento Gitti «in realtà è molto meno preoccupante di come sia stato descritto». Il sub-emendamento recita che «non costituiscono atti di discriminazione le condotte delle organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto», e Scalfarotto tiene a precisare: «[Ma] a queste condizioni: se sono conformi al diritto vigente – e grazie al cazzo – se si riferiscono all’attuazione di principi e di valori di rilevanza costituzionale – ringraziamolo di nuovo – e se sono assunte all’interno (non all’esterno) dell’organizzazione».
Ora, sia chiaro, anche alla ostetrica onesta può capitare di tanto in tanto di storpiare un nascituro e di provocare devastanti lesioni vaginali, ma Scalfarotto dove vive? Qual è l’«interno», in Italia, delle organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione e soprattutto quelle di religione e di culto? Si tratta di organizzazioni che, con varie aree di sovrapposizione, coprono la quasi interezza dell’«esterno», lasciando scoperti i quasi inesistenti spazi di individualità, di regola marginalizzati nella devianza. Soprattutto quelle di religione e di culto hanno conquistato il diritto d’ingerenza in ogni ambito: quale sarebbe l’«interno», e quale l’«esterno», in Italia, di un’idra come la Chiesa cattolica? Quali sarebbero i contesti nei quali un cattolico, chierico o laico, commetterebbe reato nel sostenere che i gay sono «malati» e i transessuali «mostri»?
Ostetrica cretina, Scalfarotto, o disonesta. «Complimenti, signora, guardi che bel bambino ha partorito!», strepita. Ci porge il bambolotto e con un piede, intanto, allontana il cadaverino.  

venerdì 20 settembre 2013

[...]


Gli interminabili ed estenuanti contenziosi che si consumavano tra i teologi bizantini mentre Costantinopoli andava sbriciolandosi sotto l’assedio ottomano sono di gran lunga più affascinanti delle dispute che in un’Italia ormai collassata sotto il peso del suo degrado si accendono intorno alla réclame di una nota marca di prodotti dolciari ospitata in Carosello a cavallo tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso, di cui Enrico Letta ha di recente citato una frase che a quei tempi, per qualche tempo, fu un tormentone, e il motivo non sta nel fatto che l’esicasmo sul quale Gregorio Palamas e Barlaam di Seminara si consumavano le corna fosse argomento, poi, più interessante di Jo Condor: è che i termini della questione lì erano chiari a chiunque vi volesse metter lingua, mentre qui pare che un po’ a tutti sfugga l’essenziale, e cioè che la citazione è infelice in sommo grado. Quando infatti Jo Condor gracchia: «E che, ci ho scritto “Jo Condor”?», peraltro indicando proprio la scritta “Jo Condor” che sta sul suo berretto da comandante di aeronautica militare, è evidente che, anche se involontariamente, si dà del cretino: nella variante che il perfido uccellaccio apporta alla nota espressione popolare che alcuni ritengono nata in Toscana e altri in Piemonte («non ho mica scritto in fronte “giocondo”»), è più che implicita la valenza ironica che gli autori intendevano darle, peraltro puntualmente esplicitata al termine di ogni sua disavventura con la punizione che il Gigante Amico gli infliggeva per le sue malefatte. Insomma, per cedere alla tentazione di offrire la versione che gli sembrava fosse più accattivante, perché da antologia dellidioletto televisivo piuttosto che da dizionario delle espressioni dialettali, Enrico Letta si è dato del cretino. Anche con un certo compiacimento, a giudicare dal video della sua conferenza stampa.
È che, nel darsi un tocco pop, Enrico Letta mostra tutti i limiti del politico allevato in batteria, con risultati non meno imbarazzanti di quelli che Mario Monti ottenne quando cominciò a twittare scacazzando emoticon e wow. Del pop, d’altronde, non si può avere che un’idea distorta quando la si riduce in stilemi che nove volte su dieci ne sono solo la caricatura. È che il pop non ha autocoscienza, se non a posteriori, dunque sta nel fatto, mai nel farsi: ogni tentativo di costruirne una rappresentazione a partire dal suo significante tradisce inevitabilmente il suo significato. E proprio Enrico Letta, anche più di Mario Monti, ne dà la miglior prova. Qualche giorno fa, per esempio, qualcuno, non ricordo più chi, notava l’uso che da qualche tempo il Presidente del Consiglio ha cominciato a fare delle mani nell’accompagnare i suoi discorsi. Giusta osservazione: ha cominciato a muoverle. Ma è fin troppo evidente che si tratti di gesti meccanici, imparati frettolosamente da un qualche manuale di comunicazione non verbale che sulla fascetta di copertina promette di trasformarti in manager brillante e disinvolto in meno di un centinaio di pagine. Niente a che vedere, insomma, con la naturalezza di chi ha rodato postura e mimica da leader, chessò, vendendo prima appartamenti chiavi in mano e poi illusioni di rivoluzione liberale: Enrico Letta muove le mani come chi le abbia sempre tenute giunte poggiando il mento sulle punte delle dita e lungo tutta la salita che l’ha portato a Palazzo Chigi si è concesso al massimo un rotear di pollici, ma proprio quando i nervi gli erano a fior di pelle.
Anagraficamente ragazzone, sì, ma nato vecchio. Gli converrebbe conservare quell’aria da tizio che potrebbe avere 30 anni, portati assai male, ma anche 60, portati assai bene. E invece, sarà che deve competere con uno come Matteo Renzi, corre il rischio degli inevitabili infortuni che capitano a chi vuole puntellare un ottimo cursus honorum da cooptato di buona famiglia con la simpatia che si traduce in consenso nell’essere sentito, eventualmente nell’essere davvero, della stessa pasta di quelli ai quali chiedi il voto.

Premessa a due o tre dozzine di post


Una trentina d’anni fa, quando Karol Wojtyla cominciava a mietere successi da popstar coi suoi tour intercontinentali, e la macchina mediatica che doveva rappresentarci il «ritorno del sacro» era già a pieno regime, un giornalista, José María Javierre, chiese a un politico, Alfonso Guerra González, quale fosse la sua opinione riguardo alla grande simpatia che Giovanni Paolo II andava raccogliendo ovunque, anche tra i non credenti, e all’onda di entusiasmo che un papa come quello andava sollevando in seno a una Chiesa fin lì arroccata in difesa, quasi rassegnata a subire i micidiali colpi della secolarizzazione che le venivano inferti ormai da decenni. La risposta fu che non ci fosse alcun motivo di stupirsene, perché in Vaticano – disse – non mancavano «persone straordinariamente furbe»: «Giocano con tutte le carte in mano – aggiunse – e sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo per difendere i propri privilegi, in grado di salire su qualsiasi treno, senza farsi troppi scrupoli». Non starebbero lì da due millenni, potrebbe essere la chiusa, se non avessero fatto del cinismo, dell’ipocrisia e dell’opportunismo una categoria dello spirito. D’altronde la consegna era stata chiara fin dall’inizio: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti» (Mt 10, 16).
Traggo questo scorcio d’intervista dal capitolo finale di un libro che mi pare di aver già citato in una o due occasioni, La larga marcha de la Iglesia (1985), pubblicato in Italia una dozzina d’anni dopo da Jaka Book col titolo Momenti cruciali nella storia della Chiesa (1996), di cui è autore Juan María Laboa, più apologeta che storico, che così commenta le crude affermazioni di Alfonso Guerra González: «Significa disconoscere la presenza continua in seno alla Chiesa di uno sforzo e di una ricerca laboriosa di un mondo più giusto e fraterno, l’esistenza di innumerevoli persone che lavorano e si fanno in quattro per gli altri, la vita di milioni di persone semplici la cui unica luce e speranza si riassumono nel Vangelo e nella Chiesa».
Si tratta di un argomento che è speso quasi solo in difesa fin dai tempi della Lettera a Diogneto, dunque da ben prima che la Chiesa cumulasse privilegi in una posizione egemone sul piano politico e su quello culturale: le accuse che le erano mosse, nei primi secoli, si limitavano a quella di essere una forza eversiva, come in realtà era davvero, per quanto facesse voto di obbedienza al potere temporale che comunque, diceva Paolo, viene da Dio (Rm 13, 1-6). Allora come oggi, si tratta di un argomento che ha qualche indubbia efficacia per chi voglia limitarsi a guardare la Chiesa in superficie, per ciò che mostra al mondo, soprattutto al mondo che la guarda con sospetto. D’altra parte, non sarà sfuggito il cortocircuito nella difesa di Juan María Laboa, che è una rielaborazione: è «in seno alla Chiesa» – dice – che «luce e speranza» trovano insieme il mezzo e il fine, sicché «farsi in quattro per gli altri» torna utile a quella che in senso lato è l’economia della Chiesa stessa, e cioè la salvezza eterna del popolo di Dio. Se questa strumentalità del «farsi in quattro per gli altri» è apparsa sempre più frequentemente come la ragione sociale della Chiesa è perché gli attacchi che le sono stati mossi sono diventati sempre più frequenti, e tuttavia torna costante il richiamo al fatto che non è una ong, e che il prossimo altro non è che immagine di Dio, che la carità altro non è che la contropartita della verità: le opere di misericordia corporale sono la capsula che riveste quelle di misericordia spirituale, il samaritano ti soccorre per reclutarti.
Tutto sommato, il mondo è solo l’occasione che la Chiesa sente le sia stata data per traversare il tempo, e proprio perciò il volume di Laboa è prezioso: delinea un atteggiamento (trattandosi di un’istituzione che si dà statuto di comunità organica, potremmo parlare di un istinto) che condiziona lungo i secoli la natura del rapporto tra Chiesa e mondo di là da ogni specifica contingenza storica. Senza scendere nel dettaglio, e affidandoci alla sintesi offertaci dalla simbologia cristiana, la Chiesa si sente barca, il mare in cui naviga è il tempo terreno, e il mondo è l’onda che solca, ora favorevole, ora avversa. Quando le è favorevole, è il momento di spiegare le vele: la verità di cui si sente depositaria e custode pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa. Quando le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare pericolosamente, le vele vengono ammainate: è il momento della carità.
Va avanti così da sempre: due passi avanti ed uno indietro, ieri, due passi indietro ed uno avanti, oggi. Se ieri serviva a guadagnare posizioni, oggi serve a non perderne troppe. Cinismo, ipocrisia e opportunismo, dicevamo, sono connaturate alla Chiesa: strumenti che hanno natura e funzione analoghe a quelle degli enzimi, la cui sequenza degli aminoacidi è scritta nel dna di cui sono modulatori per la loro stessa sintesi. Durare per durare: il resto – tutto il resto – mero epifenomeno.


mercoledì 18 settembre 2013

[...]

Da quando ufficialmente non riveste più alcuna carica nell’Idv, Antonio Di Pietro è sempre in tv a rappresentarlo, come prima e più di prima: si dice semplice militante, ma in realtà è rimasto il padrone del partito, anche se dal simbolo ha fatto scomparire il suo nome. Di fatto, Ignazio Messina fa la foglia di fico, il prestanome, e questo spiega perché la mozione che proponeva lo scioglimento del partito e la sua rifondazione, pur maggioritaria alla vigilia del congresso straordinario, è misteriosamente rientrata. O può darsi che queste riflessioni siano solo pensieri maliziosi. Può darsi che siano gli organi dirigenti del partito ad aver deciso così: in tv ci va lui per le sue straordinarie doti comunicative, non hanno chi sappia esprimersi meglio, non hanno una faccia migliore.

martedì 17 settembre 2013