Direi
che al San Camillo le cose siano state fatte proprio bene, perché il
bando di concorso era per due unità di personale specificamente richieste per il servizio di interruzione volontaria
di gravidanza, non per quello di Ostetricia e Ginecologia, quindi il
diritto di obiezione di coscienza non è stato toccato: ogni
obiettore aveva piena libertà di non partecipare al concorso, dopo
aver preso atto che i suoi termini confliggevano con i propri
principi. Certo, si alza il polverone, infuriano le polemiche, ma,
dopo l’immancabile
e tormentato percorso ad ostacoli nelle aule dei tribunali, la cosa
passerà. Anche stavolta, come con la legge 40, Beatroce Lorenzin
avrà di che logorarsi i nervi.
giovedì 23 febbraio 2017
mercoledì 22 febbraio 2017
[...]
«Scoperto
sistema solare
con 7 pianeti “fratelli” della Terra»
(ansa.it, 22.2.2017)
La
massima velocità raggiunta da una navicella spaziale con equipaggio
umano a bordo è stata di 39.800 km/h (Apollo 11), ma il mezzo più
veloce mai realizzato a tutt’oggi
è arrivato ai 252.000 km/h (Helios 2). Concesso che un equipaggio
umano possa essere imbarcato senza alcun problema su una navicella
spaziale che viaggi anche al doppio di questa velocità, in un giorno
sarebbe a 12.000.000 km di distanza dalla Terra, e in un anno a
4.380.000.000 km. Quanti anni dovrebbe impiegare per coprire la
distanza di 39 anni-luce, e cioè di 368.979.000.000.000 km? 84.241
anni, 8 mesi e 11 giorni. Ce ne vorrebbe il doppio, ovviamente, se
non si riuscisse a raddoppiare la velocità della sonda Helios 2. Se
poi non fosse possibile far viaggiare un equipaggio umano a una
velocità maggiore di quella toccata dall’Apollo
11, sarebbe necessario poco più di un milione di anni. Ma perché
essere pessimisti? Ammettiamo di riuscire a costruire entro domani
una navicella spaziale che possa imbarcare un equipaggio umano e
farlo viaggiare ad una velocità addirittura quadrupla rispetto al
mezzo più veloce fino a oggi realizzato, e cioè a un milione di
chilometri all’ora:
quanto tempo impiegherebbe per raggiungere uno dei «pianeti
“fratelli” della Terra» che orbitano attorno a Trappist-1? Più di 20.000 anni.
L’altrieri qui si citava il saggio di Adorno sul grande inganno dell’astrologia, oggi ci tocca considerare che pure l’astronomia nutrire può illusioni.
lunedì 20 febbraio 2017
Barzelletta
Chi
pretendesse di spiegarci la piattaforma politica di Donald Trump con
quella brutta opposizione Sole-Luna che funesta il suo tema natale,
cercando di convincerci che le ragioni del consenso tributatogli da
un ceto medio americano pesantemente strapazzato dallo scoppio della
bolla immobiliare del 2007 siano tutte in quel suo Marte congiunto
all’Ascendente in XII Casa che cattura l’empatia di chi ha
bisogno di dar sfogo alla propria rabbia repressa, non sarebbe a
corto di armi (almeno potenzialmente) persuasive: orario, data e
luogo di nascita di Donald Trump sono noti, le effemeridi sono
precise al decimo di grado, tutto si sa sulla natura dei Segni, dei
Pianeti e delle Case, come negare che anche nel suo caso l’analisi
astrologica risponde in modo sorprendente a quanto ci è dato
constatare in tutto ciò che fa e che dice, rivelando peraltro
significative concordanze tra aspetti zodiacali e modelli
comportamentali anche abbastanza complessi? L’opposizione
Sole-Luna, per esempio: dice niente che nel tema natale ce l’abbia
pure un altro populista come Beppe Grillo (Sole in Cancro, Luna in
Capricorno)?
Pseudoargomenti,
come è evidente, ma provate a dire a chi nell’astrologia ci crede
che quella non è una scienza: vi mostrerà i suoi fogli pieni di
cifre e simboli, vi dirà che dietro ogni sua affermazione ci sono
una montagna di calcoli e una tradizione ultramillenaria.
Provate a dirgli, allora, con Theodor Adorno, che «si può pure
ammettere che gli elementi dell’astrologia presi isolatamente siano
razionali», ma che «da una parte ci sono le stelle [e] dall’altra
c’è la vita empirica dell’uomo», e che «nell’astrologia
non c’è nulla di irrazionale tranne il suo assunto decisivo che
queste due sfere di conoscenza razionale siano connesse fra loro»
(Soziologische Scriften, II): scuoterà il capo e vi rimanderà ai
Psychologische Typen e alla Synchronizität als Prinzip akausaler
Zusammenhänge di Gustav Jung.
Lì
potreste obiettare che quella di Jung non è psicoanalisi, ma
filosofia e, forse peggio, teologia; che, a differenza di Freud,
sempre attento al substrato biologico, dunque convinto materialista,
Jung era uno spiritualista eclettico e per giunta pasticcione; che,
insomma, quella freudiana è scienza medica, quella junghiana no; che
dunque pensare di poter dire qualcosa su Trump a partire dal suo tema
natale è da ubriachi: Trump è un caso clinico, e come tale va
trattato.
«Ubriaco
sarà lei», potreste allora sentirvi dire alle spalle, visto che la
discussione con l’astrologo si è tenuta – dimenticavo di dirlo –
in una barzelletta, una di quelle che attaccano col classico «c’erano
un tedesco, un francese, un inglese e un italiano...», qui nella
variante «c’erano un astrologo, un freudiano, un marxista...». A
darvi dell’ubriaco, infatti, è un marxista, ma di quelli seri e
preparati.
«Troppo
facile dargli del matto», attacca. «Troppo comoda la
scorciatoia della psichiatria per spiegare i fatti storici. [...] Non
voglio negare il ruolo delle singole personalità, e delle loro
patologie, nella storia, tuttavia queste personalità, con le loro
variegate mende psicotiche, sono esse stesse un prodotto di una
particolare situazione storico-sociale. Che poi ad occuparsene siano
i psicoanalisti è, dal mio punto di vista, davvero paradossale. La
psicoanalisi può essere di tutto, ma alla sua base non c’è nulla,
assolutamente nulla, di scientifico. È una dottrina borghese che per
decenni ha fatto comodo per spiegare i fenomeni umani (sociali) nella
chiave delle forme ancestrali del desiderio sessuale (biologico) e
per spiegare il prodotto dell’attività culturale dalle condizioni
e dalle esperienze psichiche dell’uomo contro ogni specificità
della dialettica apportata dalla presenza umana nel mondo. La
coscienza ha invece un contenuto per
eccellenza sociale
e una forma storicamente
determinata.
Il che non significa ancora che tra la forma della coscienza
individuale e le forme cristallizzate della coscienza sociale –
cioè i sistemi ideologici – vi sia equivalenza. E tuttavia le
forme della coscienza individuale
hanno necessariamente un’accentuazione
ideologica – in ciascun caso – secondo “costellazioni” e
gradi diversi» (*).
Qui, a
sentir parlare di costellazioni, l’astrologo ha un guizzo: «Visto
che le stelle...?», ma è subito zittito: «Zitto, lei, cretino». E
rivolto al freudiano: «È evidente che lei non abbia letto
Vološinov, dico bene?». Il freudiano si risente e fa per dire: «A
leggerlo, l’ho letto, ma...». «Bene – lo interrompe il marxista
– allora dovrebbe esserle chiaro che non è la psiche che spiega i
comportamenti, ma è proprio essa a dover essere spiegata attraverso
i comportamenti. I processi che fondamentalmente definiscono il
contenuto della psiche, infatti, avvengono non dentro ma fuori
dell’organismo individuale, pur comportando la sua partecipazione
attiva: sono cioè processi sociali interiorizzati mediati dalla
parola, dalle forme ideologiche con cui si è entrati in rapporto nel
corso dell’attività pratica di produzione della vita...».
«Siamo
alle solite», dice un quarto personaggio entrando nella
barzelletta per unirsi agli altri tre: a occhio si direbbe un nerd,
ma la giacca di velluto rivela in lui il ricercatore nel campo delle
neuroscienze. «Siamo allo stramaledetto riduzionismo di scuola
sovietica: tutto è sociale, non c’è substrato biologico, è
questo che intende dire? E questo me lo chiama materialismo? Dica un
po’, compagno: ha intenzione di suggerirci pure la lettura di
Lysenko?». E qui partono schiaffi, sputi e pugni, vola perfino
qualche sedia. Il freudiano cerca di mediare, ma finisce in mezzo,
beccandosi pure qualche calcio in bocca, che, come tutti sanno, è
trauma di non semplice rimozione.
Mentre
i tre si pestano di santa ragione, l’astrologo sgaiattola via,
lasciandosi andare a una mesta riflessione: «Senza dubbio avranno tutti e tre un Marte leso in I Casa, non c’è altra
spiegazione».
domenica 19 febbraio 2017
Postilla
Torno
sulla questione che *** (si qualifica come psicoterapeuta, prega di
essere lasciato nell’anonimato)
mi rimprovera di aver affrontato nell’ultimo
mio post in modo «inusualmente
superficiale» (variante
poco più garbata del solito «fai
torto alla tua intelligenza, stronzo»),
«eludendo
– così scrive – le
ragioni di natura deontologica che sono evidenti nel richiamo
dell’American
Psychiatric Association al Goldwater Rule»,
che chi la presiede – mi ragguaglia – aveva già fatto nello
scorso agosto (link), quando su Donald
Trump già piovevano numerose «remote
diagnoses»
di «grave
emotional instability»,
perfino da «soggetti
professionalmente non qualificati»,
e qui, in
cauda venenum,
*** fa cadere un ulteriore rimprovero, ancorché carinamente tutto
implicito: «come
in Italia accade per Matteo Renzi».
Eccomi, dunque, chiamato a rispondere del perché ritengo sia del
tutto lecito che 35 psichiatri americani decidano di esprimere pubblicamente il
loro qualificato parere sulla salute mentale di Donald Trump
dichiarandolo «incapable
of serving safely as president»
dalle pagine del New
York Times,
anche senza averlo mai averlo avuto neppure un quarto d’ora
sul loro lettino. Farò prima, tuttavia, col dire perché ritengo sia
lecito affermare che Matteo Renzi è afflitto da un severo
«narcissistic
personality disorder» anche
senza avere appeso alle spalle un diploma di psicoanalista, che
invece sarebbe indispensabile per individuarne le cause, altrimenti
solo ipotizzabili (sarà stato per quella volta che Leonardo
Pieraccioni e Massimo Ceccherini gli strofinarono l’ortica
sul culo quand’era
un ragazzino?).
E dico: bastano una copia del DSM-5 e l’archivio
delle dichiarazioni pubbliche da lui fatte negli ultimi sette anni
(Youtube
le raccoglie quasi tutte) per riconoscere in lui tutti i sintomi
del «narcissistic
personality disorder»,
peraltro combinati a una così spiccata inclinazione alla
manipolazione, a una così marcata aggressività egosintonica e a una
così accentuata coloritura paranoide dei suoi costrutti
motivazionali da sollevare tutt’al
più il dubbio di trovarci piuttosto dinanzi a quella «dimensione
di comportamento antisociale che collega il disturbo narcisistico di
personalità con il disturbo antisociale di personalità e il
narcisismo maligno»
(Otto Kernberg).
venerdì 17 febbraio 2017
[...]
All’American
Psychiatric Association spetterebbe il dovere di bollare come
irresponsabili e immorali tutti gli psicoanalisti che dal 1933 ad
oggi hanno osato sparare una diagnosi su Adolf Hitler senza mai
averlo avuto neanche un quarto d’ora
sul loro lettino, e di farlo senza alcun timor reverenziale, visto
che nella lista figurano nomi come Gustav Jung, Erich Fromm e Alice
Miller.
Non accadrà, ovviamente. Accade, invece, che l’American
Psychiatric Association si affretti a redarguire i trentacinque
psichiatri che hanno firmato una lettera inviata al New York Times
nella quale si sono azzardati a dire che Donald Trump è «incapable
of serving safely as president»
perché affetto
da «grave emotional instability»: condotta «unethical» e
«irresponsible»,
dice Maria Oquendo, che dell’associazione
è la presidentessa, e che avrà pure un cognome che profuma di
guacamole, burrito ed enchiladas, ma evidentemente dev’essere
una messicana molto ben regolarizzata e dunque non corre il rischio
di essere rispedita nell’avita
patria, oltre il muro.
«Unethical»
e «irresponsible»,
i trentacinque, perché la diagnosi non è stata fatta dopo otto anni
di analisi con tre sedute a settimana al costo di 120 dollari
cadauna? Macché, perché
i pazienti che sono in analisi «might
lose confidence in their doctor»
sentendo che implicitamente li si dichiara «“unfit”
or “unworthy” to assume the presidency»
degli Stati Uniti solo perché affetti da un «mental
disorder».
Come darle torto? Provate a immaginare la frustrazione in cui sarebbe
precipitato il povero caporale austriaco che avesse letto sul
giornale che il professor Freud sconsigliava il cancellierato agli schizofrenici paranoidei.
martedì 14 febbraio 2017
Gabbani, il post-Battiato
Due
canzoni spiccano fra le venticinque fin qui incise da Francesco
Gabbani, e non solo perché hanno riscosso successo di pubblico e
favore di critica incomparabilmente maggiori, ma soprattutto perché
testi e musiche, che mostrano tra loro marcate analogie, le differenziano
notevolmente dalle altre ventitré: parlo di Occidentali’s
Karma, che l’altrieri
ha vinto la 67ª
edizione del Festival
di Sanremo e ieri già infuriava ovunque come tormentone, mentre su
Youtube già aveva
superato gli otto milioni di click; e di Amen,
che l’anno
scorso si piazzò al primo posto nella sezione Nuove
proposte della stessa
manifestazione canora, vincendo anche il premio della critica e
quello per il miglior testo.
Due canzoni assai orecchiabili e con
testi, entrambi a firma di Fabio Ilacqua, che riprendono il modello
del patchwork di citazioni alte e basse che fu inaugurato da Franco
Battiato nell’ultimo
scorcio degli anni ’70
del secolo scorso coi suoi intriganti mix di suggestioni pescate alla
rinfusa dal classico e dal pop, dall’etno
e dalla dance, dal sacro e dal profano, dall’aulico
e dal prosaico.
Già riconoscibile in Amen,
ma espressamente manifesto in Occidentali’s
Karma, il modello si mantiene
ben lontano dagli eccessi in cui Battiato parve compiacersi di
cadere per il gusto della provocazione, da sempre una delle
peculiari cifre della sua arte: le citazioni sulle quali le note di
Gabbani ci invitano a ballare sono chiaramente riconoscibili anche da
un pubblico che abbia livello culturale medio-basso, andando in
questo modo a rivelare, da un lato, il fine posto nell’operazione artistica e, dall’altro, il genere di ascolto che mira a conseguire.
Dal successo riscosso da Gabbani con queste sue due prove direi si possa trarre un eloquente indicatore del mutamento di gusto che la società italiana ha subìto negli ultimi decenni: continua ad essere rapita dall’epopea della crisi come crinale del divenire umano, ma ora pretende che essa abbia più saldi agganci al milieu in cui può celebrarla.
lunedì 13 febbraio 2017
[...]
Del
tempo non siamo mai riusciti a costruirci un’idea che ci
soddisfacesse del tutto, sicché ogni tanto ci è sembrato necessario
darle un ritocchino, senza però mai mettere in discussione che si
trattasse di una dimensione dalla continuità omogenea e
inalterabile, entro la quale agisse un flusso perpetuo e
irresistibile, necessariamente unidirezionale: da «immagine
mobile dell’eternità»
(Platone) a «quantità
[che]
rimane
sempre uguale e immobile [e
che] per
sua natura
[è] senza
relazione ad alcunché di esterno»
(Newton), in fondo, cambiava poco o niente.
Da
qualche tempo, tuttavia, il tempo non è più quello di un tempo. Si
è scoperto, infatti, che fa tutt’uno con lo spazio nel dare
all’universo quella «struttura
quadridimensionale» (Einstein)
che ha trovato ampia comprova in questi ultimi decenni, e tuttavia
resta concetto cui la nostra mente oppone ancora resistenza, come
d’altronde accade ogniqualvolta siamo costretti a rinunciare a
rappresentazioni di questo o quell’aspetto del reale così come
sono venute a consolidarsi lungo i secoli.
Prova ne è che per la storia, «emula del tempo» (Cervantes), ci è pressoché impossibile abbandonare lo schema che ce la rappresenta come incessante scorrimento di eventi che si susseguono linearmente. Se è vero, infatti, che la storia non è la mera successione degli eventi, ma quanto se ne ricava dall’averli sottoposti a esame (più precisamente, a ιστορία, cioè a ispezione), è altrettanto vero che fin qui non si mai è riusciti a rappresentarne la continuità in altro modo che sulla bidimensionalità di un piano, ora come retta (tutt’al più spezzettata in segmenti), ora come ciclo (tutt’al più aperto in sinusoide), arrivando a stento a immaginarcela spiraliforme (e dunque a conferirle una profondità, in 3D): come ci resta difficile concepire l’evento nel cronotropo, così ci resta difficile dare quadridimensionalità alla storia. E chissà che non dipenda da questo l’incapacità a spiegarci ciò che in essa fa da materia oscura e buco nero.
Prova ne è che per la storia, «emula del tempo» (Cervantes), ci è pressoché impossibile abbandonare lo schema che ce la rappresenta come incessante scorrimento di eventi che si susseguono linearmente. Se è vero, infatti, che la storia non è la mera successione degli eventi, ma quanto se ne ricava dall’averli sottoposti a esame (più precisamente, a ιστορία, cioè a ispezione), è altrettanto vero che fin qui non si mai è riusciti a rappresentarne la continuità in altro modo che sulla bidimensionalità di un piano, ora come retta (tutt’al più spezzettata in segmenti), ora come ciclo (tutt’al più aperto in sinusoide), arrivando a stento a immaginarcela spiraliforme (e dunque a conferirle una profondità, in 3D): come ci resta difficile concepire l’evento nel cronotropo, così ci resta difficile dare quadridimensionalità alla storia. E chissà che non dipenda da questo l’incapacità a spiegarci ciò che in essa fa da materia oscura e buco nero.
giovedì 9 febbraio 2017
Niente di più, ma neppure niente di meno
Di
ieri la notizia che a Roma, nell’ambito
di un filone collaterale all’inchiesta
cosiddetta Mafia Capitale, 113 posizioni, fra le quali quelle di
Gianni Alemanno e di Nicola Zingaretti, hanno trovato archiviazione
relativamente all’ipotesi
del reato di cui all’art.
416 bis del Codice Penale. A chi si è prontamente speso per portare
la notizia a sostegno della tesi che l’associazione
a delinquere cui Massimo Carminati è ascritto a capo non fosse di
tipo mafioso occorre far presente che il filone d’indagine
in oggetto è – appunto – collaterale (dunque
non ha inerenza a quanto viene addebitato agli imputati del troncone principale) e che le posizioni all’attenzione
del gip erano in tutto 116, sicché il reato di cui sopra arriva a imputazione per le restanti 3 posizioni, che in caso di condanna darebbero
sussistenza alla fattispecie,
visto che a fare «associazione
di tipo mafioso»
bastano – appunto – «tre
persone», e tuttavia, per ragioni uguali e contrarie, laddove pure questo accadesse, non sarebbe ancora dimostrato che quella di Massimo Carminati fosse «associazione di tipo mafioso» (occorrerebbe attendere la sentenza relativa alla sua posizione).
Più
in generale, come più volte qui si è rammentato, la vicenda
giudiziaria in oggetto non pone in discussione l’esistenza
della mafia a Roma, soprattutto poi se a mafia s’intende
dare il significato di una struttura «storicamente» definita (cosa che spesso viene strumentalmente data implicita), ma la
rispondenza o meno dell’associazione
a delinquere ai caratteri cui il testo di legge dà la denominazione
«di tipo
mafioso».
Resti pure aperta la discussione sull’art.
416 bis, ma, fino a quando non sarà modificato, solo di questo
occorrerebbe discutere:
«coloro
che ne fa[ceva]no parte si avval[eva]no della forza di intimidazione
del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di
omertà che ne deriva[va] per commettere delitti, per acquisire in
modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di
attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé
o per altri»?
Il testo non contempla coppole o lupare, né omicidi o stragi, e in
realtà non vuole neanche dare una descrizione di mafia, limitandosi
a delineare una tipologia di associazione che nella mafia «storicamente» definita trova una rispondente analogia dei tratti peculiari sul piano strutturale-funzionale, non su quello etico-estetico. Niente di più, ma neppure niente di meno.
martedì 7 febbraio 2017
Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino 2016
Per
qualche decennio si è commesso l’errore di credere che con la
caduta del Muro di Berlino si fossero chiusi i conti con Marx, come
col Prozac quelli con Freud, e con Internet quelli col Piccolo
mondo antico della marchesa Maironi. È stata la stagione in
cui ci si era illusi di essere arrivati alla «fine della storia»,
stessa illusione di quando la Belle Époque ci fece credere che
scienza e tecnica ci avrebbero fatto chiudere i conti con Dio o, per
guardare ancora più addietro, di quando ci si illudeva che bastasse un Roi Soleil a guarire gli scrofolosi e un Colbert ad addomesticare il debito di stato per aspettarsi che il bourgeois si sarebbe comportato sempre da gentilhomme.
Sembrerebbe non esserci scampo: non ci basta immaginare una
«età dell’oro» dove in realtà la vita media non superava i
trentacinque anni, ogni volta vogliamo ricrearne una che ci faccia
vivere più a lungo, possibilmente in eterno, e questo naturalmente
vale anche per quanto ci dovrebbe fare da carburante, possibilmente per sette, nove, quindici miliardi di individui. Ovvio che si finisca per sgomitare, ovvio che qualcuno intravveda nello sgomitamento la vera essenza della vita. Repellente solo fino a un certo punto, dunque, Gordon Gekko, e si capisce l’entusiasmo che esalta l’assemblea dei piccoli azionisti, la cui sorte è comunque segnata: ci sarà sempre qualcuno più avido di te, qualcuno la cui avidità vincerà la tua.
Porsi il problema di
quanto possa reggere un sistema mosso da queste illusioni – anche solo porsene il problema – impone la scomoda tunica di Cassandra, il ridicolo peplo di Spartaco
o, peggio, il cappello a cono con le orecchie d’asino di chi sta in
castigo dietro la lavagna.
No, questa non è una recensione,
spiacente se col titolo del post vi ho tratto in inganno. In realtà,
il libricino di Luciano Canfora – un centinaio di pagine
densissime, bellissime – qui sta solo come oggetto di scena: lo
leggo dietro la lavagna, dove sto in castigo per aver espresso su
queste pagine qualche timida riserva sulla globalizzazione così come
è stata fin qui concepita e realizzata da un capitalismo che non sa
darsi limiti, né riesce a imporsi regole – per questo qualche
giorno fa su Twitter mi hanno marchiato a fuoco come «hubbertiano,
malthusiano e luddista», e in una pagina dei commenti qualcuno si è chiesto che fine avesse fatto il liberale – e mi consolo a ritrovarmici dentro,
naturalmente in assai più bella copia.
Leggendolo, riesco a cavare
consolazione pure per l’eventuale biasimo di opposta parte, perché
è chiaro che pure alle serali tenute da un Diego Fusaro finirei
dietro la lavagna: «Non sono più attuali – infatti leggo – le
prospettive operative che Marx propugnò, tutte alla fine
contraddette dalla realtà» (pag. 81). A dirlo io, mi becco un cazziatone: «Marx non ha niente a che vedere coi regimi cosiddetti comunisti». Stessa cosa che si potrebbe dire di Gordon Gekko e del liberalismo, ma solo in un regime cosiddetto comunista.
lunedì 6 febbraio 2017
[...]
Sono
mesi che la percentuale dei consensi attribuiti al M5S dai più
accreditati istituti di rilievo demoscopico non si schioda dal
28-29%, ed è noto che i sondaggi sottostimano di qualche punto le
opzioni di cui gli interpellati si vergognano, e come non vergognarsi
di votare di M5S con tv e giornali che da mesi martellano in modo
pressoché unanime a rappresentare il pericolo che incomberebbe sulle
sorti patrie nella sciagurata ipotesi che l’orda
grillina ne pigliasse le redini?
Ribaltiamo la domanda: con un
agguerrito fronte informativo che da mesi è quanto mai compatto nel
dirne peste e corna, com’è che
il M5S non perde consensi? È questione che solo adesso pare porsi a
chi ritiene che neanche la caduta di un meteorite grosso come il
Cervino nel Medio Tirreno potrebbe far più danni di un Di Maio a
Palazzo Chigi, di un Fico al Viminale, di un Di Battista alla
Farnesina, e di tutti e tre a prendere ordini dalla Casaleggio
Associati, perché fin qui è sempre stata salda la convinzione che i
voti eventualmente persi dal M5S si sarebbero poi riversati altrove –
poco importava dove, poteva andar bene pure che andassero a
ingrossare l’astensionismo –
mentre ora è chiaro, e crea sconcerto, che nulla riesce a scalfire
quello che sembra essersi consolidato in un vero e proprio zoccolo
duro, e sì che s’è tentato di
tutto, al punto che un sospetto ora comincia a serpeggiare fra quanti
si sono fin qui spesi perché al paese venga risparmiata l’orrida
iattura di un governo a Cinque Stelle: non sarà mica per aver
commesso l’errore di ricorrere a
tanti volgarissimi mezzucci dopo aver esaurito tutti gli argomenti più che decenti?
Direi che sia un sospetto ben fondato, non a caso nasce in
chi ha sempre saputo fare distinzione tra un argomento e un
mezzuccio, senza per questo essere stato in grado di rinunciare a usarli
entrambi in polemica col M5S. È che la chiamata alle armi contro la minaccia grillina ha
imposto la logica del «tutto fa brodo»
anche a quanti sono stati reclutati dalla già esigua schiera
degli intellettualmente onesti, e così
ne abbiamo visto più d’uno rinunciare agli strumenti della retta
argomentazione per cedere all’impiego dei più bassi espedienti
persuasivi.
Verrebbe voglia di farne i nomi, di formulare qualche
ipotesi sul come sia potuto accadere, ma ci guasteremmo qualche
amicizia. Tutto sommato, poi, può bastare che in essi cominci a
farsi strada la sensazione di aver sbagliato, anche se al momento il
mancato raggiungimento del fine cui concorrevano fa ombra alla
slealtà del mezzo usato.
giovedì 2 febbraio 2017
[...]
Citarsi
è inelegante, ma si può far di peggio con l’autocitazione di
un’autocitazione, di cui do un saggio riproponendo un post di sei
anni fa: «Una
volta ho scritto: “D’Alema non è mi particolarmente simpatico,
ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni”. Coi loro succedanei
direi il contrario: non sopporto Civati, ma Renzi me lo rende
amabilissimo. Peggio di Renzi, nel Pd, nessuno. Renzi è la larva che
il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».
Di solito rileggo quel che ho scritto solo quando un alert mi avvisa
che qualcuno l’ha
allegato a un link, e così è accaduto col post qui riproposto, che
non rammentavo di aver scritto, ripreso qualche settimana fa da un
tweet di @Birnbaumchen.
Anche se non ne ho mai avuto riscontro in una pubblica confessione,
suppongo capiti a ogni blogger di vecchio pelo – e a marzo Malvino
compirà
tredici anni – che un link a quel che si è scritto istilli tanta
più inquietudine quanto più il post è datato, e questo
indipendentemente dal motivo per cui è stato ripreso, perché il
tempo passa, e noi cambiamo, al punto che può pungerci più
dolorosamente il plauso a ciò oggi non scriveremmo più che lo
sberleffo su ciò che abbiamo appena scritto.
Nel caso qui portato a
esempio, deo
gratias,
mi è andata abbastanza bene – continuo a preferire D’Alema a
Veltroni e ovviamente Civati a Renzi, sul quale il giudizio si è
fatto ancora più severo – e tuttavia ho ricavato un certo
imbarazzo dalla forzatura cui ho ceduto nel paragonare Civati a
Veltroni per assicurare solidità strutturale al testo su un
parallelismo incrociato, nel quale è manifesta la debolezza che uno
dei due assi mostra rispetto all’altro. Mi pare evidente, infatti,
che le analogie tra Civati e Veltroni si esauriscano tutte sul piano dei
salienti tratti del carattere (qui nell’accezione teatrale piuttosto che in quella psicologica), mentre quelle tra D’Alema e Renzi
vanno ben oltre, come acutamente rilevato da Bechis in una sua
recente scheda. Di più, direi che in Renzi ci sia il peggio di
D’Alema e il peggio di Veltroni, e in micidiale sincretismo.
[Questo post è stato inavvertitamente pubblicato ieri prima di essere concluso. Me ne scuso col lettore.]
mercoledì 1 febbraio 2017
L’elettore del Pd che sarebbe Mantellini
Ci
sono «ostacoli insormontabili» alla costruzione di quel «partito
riformista di sinistra» che il buon Mantellini potrebbe votare senza
essere costretto a «turarsi il naso in nome del meno peggio»,
indovinate quali.
Un attimo, però. Chiariamo. Mantellini parla da
«elettore del Pd» («L’elettore del Pd che sarei io»), quindi è
evidente che per «partito riformista di sinistra» intenda qualcosa
che sta oltre il Pd: un partito ancora da venire, insomma. E dunque:
quali sono questi «ostacoli insormontabili» che Mantellini vede
frapposti tra il Pd così com’è, quello cui comunque ci risulta abbia
dato il voto, non sappiamo se turandosi il naso o meno, e il «partito
riformista di sinistra» che voterebbe, certo di non doversi veder costretto a
turarselo?
Aspettate, non vi precipitate subito a dare una risposta,
ché poi a sapere quella esatta ci rimanete male e ve la prendete con
me perché non ho saputo esporvi a dovere i termini della questione,
che sembra semplice, ma in realtà non lo è affatto.
Procediamo
senza fretta, cominciando col chiarire cosa debba intendersi con
«riformista» e «di sinistra», ovviamente per Mantellini. E
chiariamolo facendo degli esempi, perché si tratta di concetti
diventati così vaghi che ultimamente dentro ci si trova di tutto, perfino l’idea che la crescita del paese tragga
formidabile impulso dall’abolizione dell’art. 18 e che tocchi ai
contribuenti pagare i debiti che De Benedetti non ha pagato al Monte
dei Paschi di Siena.
«Riformista», per Mantellini, significa per
esempio «prendere
atto della necessità di riformare la scuola pensando agli studenti
prima che agli insegnanti»;
e poi «prendere
atto dello strapotere politico di alcuni grossi apparati sindacali
che hanno infiltrato ogni angolo della macchina decisionale del paese
e provare a metterci rimedio, per esempio iniziando faticosamente a
premiare il merito più che l’appartenenza»;
ancora, significa «investire
sui giovani che sono la vera classe povera italiana e
contemporaneamente la nostra unica speranza»;
e poi «sposare
un’idea di innovazione che non riguardi la Salerno-Reggio Calabria
o peggio i ponti di Messina ma le autostrade informatiche e in
generale gli ambiti digitali»;
ultimo esempio di cosa significhi «riformista», «tenere
distanti i propri mediocri amichetti dalle poltrone delle partecipate
o delle fondazioni bancarie».
Esempi «banalissimi»,
dice Mantellini, ma solo perché lui è la modestia fatta persona. Di
fatto, si tratta di riforme sulle quali faccio fatica a immaginare
possano esserci obiezioni, tant’è
che sono nel programma di ogni partito, compreso il Pd, che le
promette a ogni tornata elettorale. In quanto ad attuarle quando sta
al governo, beh, quello è un altro paio di maniche.
Si prenda a
esempio – esempio banalissimo, qui provo ad essere modesto anch’io
– il governo Renzi. Tanto per dire, la cosiddetta Buona Scuola:
scontenta gli insegnanti, ma per caso avete visto fiumane di studenti
in festa? E il cosiddetto Jobs Act: avete registrato tutto ’sto travolgente entusiasmo fra i
giovani? Non parliamo, poi, della priorità che le autostrade
informatiche hanno avuto rispetto al ponte sullo Stretto di Messina,
d’altronde una cosa è fare il romantico coi polli della Leopolda e
un’altra è farlo venir duro a quelli della Impregilo. Cali un velo
pietoso, infine, sugli scoronconcoli
e le ciamporgne che il braggadocio ha da subito provveduto a
sistemare nei punti chiave di partito, parlamento, governo, sottogoverno, stato e parastato:
peggio delle cavallette, peggio della peronospora.
A stretto rigor di
logica c’è da supporre che Mantellini non debba aver trovato molto
«riformista» il governo Renzi, ma più in là del supporlo non ci è
consentito andare, perché negli ultimi tre anni non è che lo si sia
sentito lamentarsi troppo. Dev’essere stato il governo Gentiloni ad
avergli fatto scattare la molla, va’ a capire.
E «di sinistra»?
Come dovrebbe essere, per Mantellini, un partito «di
sinistra»?
Cosa dovrebbe avere a cuore un partito «di
sinistra»?
È presto detto: «i
diritti civili dei singoli cittadini, le libertà individuali, la
solidarietà verso gli altri».
Un «di
sinistra»
che vi suona strano? Sarà perché tanta attenzione all’individuo
non è mai stata fra le peculiarità della sinistra, sempre più
attenta ai bisogni della collettività. Però direi che «solidarietà
verso gli altri» dissolve ogni perplessità.
Come dite? Trovate che sia locuzione troppo vaga, tant’è che la si trova pure nel programma di Casapound e nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Consentitemi di dirvi che siete
in errore: è che ultimamente la
sinistra non gode di ottima reputazione, e a mostrare troppa
confidenza col suo tradizionale idioletto si corre il rischio di essere additati
in società come pericolosissimi socialdemocratici, il che a dei flagiziosi della risma d’un
Gilioli o un Civati, che si sparano in vena un Piketty a colazione e
uno a cena, questo potrà non far né caldo né freddo, e infatti
eccoli lì, un giorno sì e l’altro
pure, a esibirsi come viziosi del welfare più spinto, mentre Mantellini non
è della stessa pasta, questo è tutto: «di
sinistra» pure lui, ma meno incline a strepitarlo ai quattro venti con parole troppo forti come – chessò – redistribuzione. Mera questione di galateo.
Ecco,
vi ho dato l’aiutino, ora potete rispondere: quali sono gli
«ostacoli
insormontabili» che impediscono al Pd diventare il «partito
riformista di sinistra» che piacerebbe tanto a Mantellini?
C’è rimanere a bocca aperta: (1) la minoranza del Pd, altrimenti detta «sinistra interna», e (2) quanti «da Fassina a Vendola» stanno a sinistra del Pd, dall’esterno. Sinistre che probabilmente Mantellini ritiene abusive, perciò naturalmente antagoniste della sinistra vera. Ma poi ci sono pure (3) «Alfano,
Berlusconi e tutto il berlusconismo di ritorno da Verdini a certi
residui millimetrici di Scelta Civica», che onestamente si fa fatica a capire come possano essere di ostacolo alla costruzione di un partito «di sinistra»: basterebbe scaricarli, dunque l’ostacolo non sono loro, ma chi se li è caricati e ancora non li scarica. Così per (4) la
«quota
di attuale classe dirigente del PD mantenuta in sella per interesse o
per esigenze di forza maggiore il cui esempio più rilevante è
Vincenzo De Luca»: chi la mantiene in sella?
Sembrerebbe che Mantellini abbia una tremenda difficoltà nel realizzare che l’ostacolo più grosso posto alla costruzione del «partito riformista di sinistra» che da elettore del Pd vorrebbe votare è Renzi. O sarà che l’ha capito, ma l’ostacolo sta nel riuscire a dirlo. E questi, al momento, paiono i veri «ostacoli insormontabili».
venerdì 27 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
[...]
Potrebbe
trattarsi di Corrado Alvaro, col quale Leo Longanesi – sua la
pagina di diario qui sopra riportata, datata 1° aprile 1950 –
intratteneva cordiali rapporti già da una dozzina d’anni
(si erano conosciuti nel 1937, quando per Omnibus, di cui
Longanesi era direttore, Alvaro aveva scritto una serie di articoli
per il ventennale della Rivoluzione d’Ottobre).
Così folgorante, tuttavia, è l’affermazione
che siamo moderni una sola volta, e solo
per pochi anni, per poi scoprire che siamo i moderni di due, di
cinque, di dieci, di venti anni addietro, da rendere oziosa la
questione dell’attribuzione:
ci viene data la chiave di lettura del tragicomico che cogliamo
nell’anziana
signora sulle cui labbra vizze il rossetto fa cuoricino, com’era
di moda negli anni Trenta; nel kitsch dell’immaginario
sessuale di Silvio Berlusconi riusciamo a cogliere gli archetipi
celebrati da Le Ore;
nella decisione di aprire un blog
– aprirlo nel 2017, a vent’anni da quando aprirne uno era
fighissimamente trendy – scorgiamo in Matteo Renzi il quarantenne
già irrimediabilmente démodé.
martedì 24 gennaio 2017
«Serve un grande manifesto dell’ottimismo»
Viviamo
nel migliore dei mondi possibili, ma sordidi figuri, mossi da oscuro
e insanabile disagio esistenziale, ce ne guastano il pieno godimento
alternando molesta lagnanza a rabbioso
malcontento. Che fare? «Serve un grande manifesto
dell’ottimismo»,
propone Claudio Cerasa (Il Foglio, 24.1.2017),
rammentandoci che la vita è bella, e che la globalizzazione l’ha
resa tale anche a centinaia di milioni di individui che solo fino a
qualche anno fa morivano letteralmente di fame.
Come
dargli torto? Dove ieri regnava la più nera miseria, oggi ci sono
moltitudini che guadagnano trenta, quaranta, talvolta perfino cento
dollari al mese, per dieci, dodici, talvolta pure quattordici ore di
lavoro al giorno, che sarà pure sfruttamento, ma come negare che
costituisca un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita? Niente
da fare, «mercanti delle paure,
signori dell’apocalisse,
prìncipi del disfattismo» si
ostinano a dire che tutto va a catafascio, rifiutandosi di «osservare
il mondo, e dunque la globalizzazione, nella sua meravigliosa
complessità».
Davvero
un peccato, questo richiamo di Claudio Cerasa a considerare la
complessità della globalizzazione, perché una generica esortazione
all’ottimismo
ci avrebbe consentito di non mettere da parte l’ironia
con la quale si è fin qui potuto evitare di dargli dello stronzetto.
E dunque andiamola a considerare, questa complessità.
Da
cosa nasce questo improvviso, ancorché assai relativo, benessere che
piove addosso a centinaia di milioni di individui che solo
fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame? Dalla logica
che impone al capitalismo di abbattere i costi della produzione per
massimizzare il profitto, cosa che può essere ottenuta solo in due
modi, peraltro non alternativi l’uno
all’altro:
sostituendo quanto più possibile al lavoro degli uomini quello delle
macchine e procacciandosi manodopera al più basso costo possibile. (In realtà, fra i costi
della produzione andrebbero considerati anche quelli relativi alla
materia prima, alla distribuzione del prodotto finito e alle tasse,
ma al momento teniamoli da parte.)
Dopo
poco più di mezzo millennio lungo il quale questa logica ha
trionfato, a che punto siamo? In altri termini, cosa possiamo
attenderci dal fatto che il costo del lavoro tenderà inevitabilmente
ad aumentare anche laddove ora è bassissimo, come d’altronde
è sempre accaduto nel corso della storia con la sola eccezione dei
casi in cui il lavoro era affidato a schiavi cui era negata ogni
rivendicazione? Per meglio dire: quale sarà la situazione quando non
sarà più possibile tenere alti i profitti avendo a disposizione
sempre nuova manodopera da pagare meno di quella già precedentemente
impiegata? E quanto tempo manca ancora perché questa situazione si
realizzi continuando a ritenere senza alternative un capitalismo senza regole e senza freni?
Anche
ammettendo che possa essere globalmente uniformato un regime di bassi
compensi, il che ovviamente potrebbe ottenersi solo mediante l’uso
della forza, verrebbe inevitabilmente meno la domanda dei beni
prodotti, e con ciò si arriverebbe a un crollo della produzione. Ma
anche ammettendo che il profitto possa mantenersi alto con la
riduzione delle tasse, c’è da chiedersi come tale espediente possa
risultare efficacemente stabile nel tempo dovendone comunque
rimettere la perdita a carico della collettività. In quanto a
cercare di ridurre il costo delle materie prime, è credibile possa
risultare possibile a fronte della loro progressiva riduzione o della
progressiva difficoltà a reperirle?
Pare evidente che, anche a
voler perpetuare il sistema entro il quale la logica capitalistica ha
fin qui potuto trovare brillanti soluzioni alle sue cicliche crisi,
si debba mettere in conto una sua crisi di sistema, che potrà
evitare il blocco delle forze produttive e il suo crollo solo grazie
ad un’accumulazione del capitale
su basi sempre più ristrette, il che comporterà un inevitabile
innalzamento delle tensioni sociali.
Certo, non deve darsi per
scontato che la logica del capitale porti a una sterminata
moltitudine di schiavi sulla quale imperi una sola potentissima
multinazionale che, dopo aver eliminato ogni concorrente, prenderà il
controllo totale sulla vita del pianeta, né che questa
rappresentazione un po’
fumettistica di un futuro che solo un ingenuo può pensare già
scritto preveda giocoforza una rivolta violenta che porti al caos o,
a piacere, a una dittatura del proletariato. E che diamine, Claudio
Cerasa ci invita a considerare la complessità della globalizzazione,
non possiamo cavarcela a questo modo.
E allora diciamo che quasi certamente non andrà così. Chi fin qui ha potuto trarre profitto da una globalizzazione senza regole potrà anche cedere alla tentazione di approntare soluzioni a breve termine, le solite, alternando concessioni a repressioni, ma poi si farà strada, e probabilmente siamo già a buon punto, la convinzione che un crollo del sistema può essere evitato solo cambiando tutto, perché tutto resti uguale. Occorreranno enormi risorse perché la transizione possa essere avvertita come tollerabile, o addirittura attraente, ma queste sono già disponibili, pronte ad essere spese per reclutare migliaia e migliaia di stronzetti che ci inviteranno a guardare il futuro con ottimismo.
martedì 17 gennaio 2017
L’ottimismo è di sinistra (e pure marxista)
Nell’edizione
online di Left
Wing,
martedì 17 gennaio, compare un articolo a firma di Francesco Cundari
che fin dal titolo, L’ottimismo
è di sinistra (e pure marxista),
solleva molte perplessità.
Ch’io
sappia, l’unica
volta che il termine «ottimismo»
fa
capolino in un testo «di
sinistra» è
per scoraggiare dal considerarlo una risorsa: si tratta del duro rimprovero che
Gramsci muove a chi pensa che la legge della caduta tendenziale del
saggio di profitto autorizzi a credere che il capitalismo sia
destinato a implodere di suo, senza bisogno di dargli neanche un
colpetto (Quaderno
XXVIII,
III), quasi che, con quel «tendenziale»
(Il
Capitale,
III, III),
Marx
intendesse dire: «Proletari
di tutti i paesi, mettetevi comodi, tanto prima o poi tutto il
sistema verrà giù da solo». Lettura che Gramsci dice sia da «oppiomani».
E dunque cosa porta Cundari a scrivere che l’ottimismo
è «pure
marxista»?
Il riferimento sarà per caso a quell’«ottimismo»
che,
nel chiudere la pagina, Gramsci dice possibile solo come espressione
di «volontà»
a
fronte del necessario «pessimismo»
imposto
dalla «ragione»?
Non siamo autorizzati a crederlo, d’altronde
Cundari non cita Gramsci, ma il Manifesto
del partito comunista,
che gli pare «intriso – appunto – di ottimismo».
Sarà pur vero, ma è ottimismo che non fa mistero di avere come
ultimo orizzonte «il
violento abbattimento della borghesia».
Viene il sospetto che Cundari si sia lasciato prendere un po’
troppo la mano nel tentativo, peraltro temerario, di accreditare a
Renzi qualcosa «di
sinistra».
Esplicito, infatti, è il riferimento a quell’ottimismo
che Renzi avrebbe più volte dimostrato nel dare del «gufo»
o
del «rosicone»
a
chiunque sollevasse dubbi sulla sua azione di governo: a chi per
ultimo gliel’ha
rimproverato
(la
Repubblica,
15.1.2017) Renzi ha risposto che «l’ottimismo
fa parte della politica»,
e questo, per Cundari, sarebbe prova che in Renzi, ancorché
modificato, c’è
del dna che è «di
sinistra (e pure marxista)».
«Un
leader di sinistra –
scrive – deve
trasmettere un messaggio di speranza, non di disperazione. Deve
infondere fiducia, non seminare sfiducia»:
direi ci sia abbastanza per definire «leader
di sinistra»
pure il Berlusconi che tentava di infonderci fiducia dicendoci che la
crisi era un’invenzione
dei suoi oppositori, perché i ristoranti erano sempre pieni e non si
riusciva a trovare un posto sugli aerei.
In realtà, ce ne sarebbe abbastanza
pure per consigliare a Cundari, persona che ci è simpatica (come direbbe Totò) «a prescindere»: Ciccio, lascia perdere, è impresa disperata.
lunedì 16 gennaio 2017
[...]
Eviterei di scomodare i massimi sistemi, limitandomi a far presente al titolare del Ministero dello sviluppo economico che il richiamo al principio di riservatezza per opporsi a che siano resi noti i nomi degli insolventi che hanno portato al crac il Monte dei Paschi di Siena, al quale si è posto rimedio con una ventina di miliardi presi dalle tasche dei contribuenti (a quei quattro sfessati del M5S, che ne chiedono diciassette per il reddito di cittadinanza, si è soliti rispondere che è una proposta campata in aria, perché è impossibile trovare la copertura), confligge un pochetto col principio della trasparenza nell’impiego delle risorse pubbliche: perché chi si addossa l’onere di colmare una voragine non avrebbe diritto di sapere chi l’ha scavata? A scavarla sarebbe stato chi ha concesso i prestiti, non chi li ha avuti e non li ha restituiti, così argomenta il signor ministro, e senza dubbio questo è vero, ma giacché è altrettanto vero che il denaro non veniva prestato a tutti (a quanti poveri cristi sarà stato negato un mutuo per la prima casa o per risistemare la bottega?) che male c’è a cercare di farsi un’idea su quale tipo di clientela riuscisse invece a farselo prestare, e come, e perché? Se la colpa è di chi concedeva il prestito, non ha alcuna importanza sapere perché lo ha concesso a Caio, e a Tizio no? Pare evidente che sia stato prestato denaro, e tanto, a chi non avesse modo di poter offrire congrue garanzie di solvibilità: perché non deve esser dato sapere di quali strumenti potesse essere in possesso per renderle superflue al momento della richiesta?
domenica 15 gennaio 2017
Medicina fai-da-te
Vi
eravate illusi che ce lo fossimo tolto per sempre dai coglioni? Non
prendetela come un’offesa, è una
diagnosi (e scusate la brutalità, ma per dirlo non c’è
altro modo):
non avete speranze, siete allo stadio terminale della fessaggine.
Condizione
altrettanto grave, ancorché con prognosi meno severa, se vi eravate
illusi che ce lo fossimo tolto dai coglioni almeno per qualche tempo:
siete seriamente fessi, ma ricovero d’urgenza,
adeguata terapia e un pizzico di fortuna vi danno ancora il lumicino
di qualche speranza, salvo complicazioni. Qui, però, occorre far opportuna distinzione per gradi. Pensavate saltasse il prossimo congresso del partito o addirittura le prossime elezioni politiche? La terapia d’attacco sarà giocoforza assai pesante, quella di mantenimento estremamente lunga. Contavate non si rifacesse vivo almeno fino al primo dei due appuntamenti? Trattamento meno duro, ma comunque impegnativo. Avevate scommesso su marzo o aprile, con un rientro tipo «cervo a primavera»? Dopo alcuni mesi di degenza, potreste sperare di avere il consenso alle cure domiciliari.
Se
invece pensavate che la mazzata del 4 dicembre gli fosse almeno
servita da lezione, la cosa è assai meno grave, ma sia chiaro che
sempre fessi siete, sicché sarebbe da sconsiderati rifiutare le
dovute cure e il lungo ma indispensabile trattamento riabilitativo consistente in ripetuti cicli di «star sotto» al gioco dello «schiaffo del soldato».
Ultimo
quadro clinico: sapevate esattamente, eventualmente
già nel
mentre glielo sentivate dire la prima volta, quanto valesse quel «se
perdo il referendum, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di
far politica» (12.1.2016); dai coglioni non ha mai smesso di salirvi
il presentimento che non avreste dovuto aspettare troppo per
rivedercelo sopra, e questo eventualmente già
nel mentre lo sentivate dire che, «quando
uno perde, non fa finta di nulla, andandosene a letto e sperando che
passi velocemente la nottata» (4.12.2016); all’annuncio
che si stesse
preparando a farlo già per metà gennaio,
poi, non vi siete illusi che quel «cambieremo
strategia» (24.12.2016) potesse significare più di tanto; tuttavia
avete pensato – e qui sta la fessaggine, seppur in forma assai
attenuata rispetto a quella dei tre quadri clinici sopra descritti –
che sulla scena si sarebbe visto un Matteo Renzi almeno un po’
diverso da
quello già tristemente noto: stessa faccia di cazzo, naturalmente, e
stesso narcisismo, stessa irresistibile compulsione a mentire e a
manipolare, ma almeno sotto un velo di finta bonomia, di falsa
modestia, di ipocrita umiltà.
Bene, con l’intervista
concessa a Ezio Mauro (la Repubblica, 15.1.2017), che mostra un Matteo
Renzi in tutto simile – ma proprio in tutto – a quello che era
strasicuro di vincere il referendum del 4 dicembre, a ogni fesso è offerto un prezioso strumento
di autodiagnosi con l’opportunità di dare alla propria fessaggine il corretto inquadramento clinico. Uno dei pochi casi in cui la medicina fai-da-te è caldamente consigliata.
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