lunedì 20 febbraio 2017

Barzelletta


Chi pretendesse di spiegarci la piattaforma politica di Donald Trump con quella brutta opposizione Sole-Luna che funesta il suo tema natale, cercando di convincerci che le ragioni del consenso tributatogli da un ceto medio americano pesantemente strapazzato dallo scoppio della bolla immobiliare del 2007 siano tutte in quel suo Marte congiunto all’Ascendente in XII Casa che cattura l’empatia di chi ha bisogno di dar sfogo alla propria rabbia repressa, non sarebbe a corto di armi (almeno potenzialmente) persuasive: orario, data e luogo di nascita di Donald Trump sono noti, le effemeridi sono precise al decimo di grado, tutto si sa sulla natura dei Segni, dei Pianeti e delle Case, come negare che anche nel suo caso l’analisi astrologica risponde in modo sorprendente a quanto ci è dato constatare in tutto ciò che fa e che dice, rivelando peraltro significative concordanze tra aspetti zodiacali e modelli comportamentali anche abbastanza complessi? L’opposizione Sole-Luna, per esempio: dice niente che nel tema natale ce l’abbia pure un altro populista come Beppe Grillo (Sole in Cancro, Luna in Capricorno)?
Pseudoargomenti, come è evidente, ma provate a dire a chi nell’astrologia ci crede che quella non è una scienza: vi mostrerà i suoi fogli pieni di cifre e simboli, vi dirà che dietro ogni sua affermazione ci sono una montagna di calcoli e una tradizione ultramillenaria. Provate a dirgli, allora, con Theodor Adorno, che «si può pure ammettere che gli elementi dell’astrologia presi isolatamente siano razionali», ma che «da una parte ci sono le stelle [e] dall’altra c’è la vita empirica dell’uomo», e che «nell’astrologia non c’è nulla di irrazionale tranne il suo assunto decisivo che queste due sfere di conoscenza razionale siano connesse fra loro» (Soziologische Scriften, II): scuoterà il capo e vi rimanderà ai Psychologische Typen e alla Synchronizität als Prinzip akausaler Zusammenhänge di Gustav Jung.
Lì potreste obiettare che quella di Jung non è psicoanalisi, ma filosofia e, forse peggio, teologia; che, a differenza di Freud, sempre attento al substrato biologico, dunque convinto materialista, Jung era uno spiritualista eclettico e per giunta pasticcione; che, insomma, quella freudiana è scienza medica, quella junghiana no; che dunque pensare di poter dire qualcosa su Trump a partire dal suo tema natale è da ubriachi: Trump è un caso clinico, e come tale va trattato.
«Ubriaco sarà lei», potreste allora sentirvi dire alle spalle, visto che la discussione con l’astrologo si è tenuta – dimenticavo di dirlo – in una barzelletta, una di quelle che attaccano col classico «c’erano un tedesco, un francese, un inglese e un italiano...», qui nella variante «c’erano un astrologo, un freudiano, un marxista...». A darvi dell’ubriaco, infatti, è un marxista, ma di quelli seri e preparati.
«Troppo facile dargli del matto», attacca. «Troppo comoda la scorciatoia della psichiatria per spiegare i fatti storici. [...] Non voglio negare il ruolo delle singole personalità, e delle loro patologie, nella storia, tuttavia queste personalità, con le loro variegate mende psicotiche, sono esse stesse un prodotto di una particolare situazione storico-sociale. Che poi ad occuparsene siano i psicoanalisti è, dal mio punto di vista, davvero paradossale. La psicoanalisi può essere di tutto, ma alla sua base non c’è nulla, assolutamente nulla, di scientifico. È una dottrina borghese che per decenni ha fatto comodo per spiegare i fenomeni umani (sociali) nella chiave delle forme ancestrali del desiderio sessuale (biologico) e per spiegare il prodotto dell’attività culturale dalle condizioni e dalle esperienze psichiche dell’uomo contro ogni specificità della dialettica apportata dalla presenza umana nel mondo. La coscienza ha invece un contenuto per eccellenza sociale e una forma storicamente determinata. Il che non significa ancora che tra la forma della coscienza individuale e le forme cristallizzate della coscienza sociale – cioè i sistemi ideologici – vi sia equivalenza. E tuttavia le forme della coscienza individuale hanno necessariamente un’accentuazione ideologica – in ciascun caso – secondo “costellazioni” e gradi diversi» (*).
Qui, a sentir parlare di costellazioni, l’astrologo ha un guizzo: «Visto che le stelle...?», ma è subito zittito: «Zitto, lei, cretino». E rivolto al freudiano: «È evidente che lei non abbia letto Vološinov, dico bene?». Il freudiano si risente e fa per dire: «A leggerlo, l’ho letto, ma...». «Bene – lo interrompe il marxista – allora dovrebbe esserle chiaro che non è la psiche che spiega i comportamenti, ma è proprio essa a dover essere spiegata attraverso i comportamenti. I processi che fondamentalmente definiscono il contenuto della psiche, infatti, avvengono non dentro ma fuori dell’organismo individuale, pur comportando la sua partecipazione attiva: sono cioè processi sociali interiorizzati mediati dalla parola, dalle forme ideologiche con cui si è entrati in rapporto nel corso dell’attività pratica di produzione della vita...».
«Siamo alle solite», dice un quarto personaggio entrando nella barzelletta per unirsi agli altri tre: a occhio si direbbe un nerd, ma la giacca di velluto rivela in lui il ricercatore nel campo delle neuroscienze. «Siamo allo stramaledetto riduzionismo di scuola sovietica: tutto è sociale, non c’è substrato biologico, è questo che intende dire? E questo me lo chiama materialismo? Dica un po’, compagno: ha intenzione di suggerirci pure la lettura di Lysenko?». E qui partono schiaffi, sputi e pugni, vola perfino qualche sedia. Il freudiano cerca di mediare, ma finisce in mezzo, beccandosi pure qualche calcio in bocca, che, come tutti sanno, è trauma di non semplice rimozione.
Mentre i tre si pestano di santa ragione, l’astrologo sgaiattola via, lasciandosi andare a una mesta riflessione: «Senza dubbio avranno tutti e tre un Marte leso in I Casa, non c’è altra spiegazione».

domenica 19 febbraio 2017

Postilla


Torno sulla questione che *** (si qualifica come psicoterapeuta, prega di essere lasciato nellanonimato) mi rimprovera di aver affrontato nellultimo mio post in modo «inusualmente superficiale» (variante poco più garbata del solito «fai torto alla tua intelligenza, stronzo»), «eludendo – così scrive – le ragioni di natura deontologica che sono evidenti nel richiamo dellAmerican Psychiatric Association al Goldwater Rule», che chi la presiede – mi ragguaglia – aveva già fatto nello scorso agosto (link), quando su Donald Trump già piovevano numerose «remote diagnoses» di «grave emotional instability», perfino da «soggetti professionalmente non qualificati», e qui, in cauda venenum, *** fa cadere un ulteriore rimprovero, ancorché carinamente tutto implicito: «come in Italia accade per Matteo Renzi».
Eccomi, dunque, chiamato a rispondere del perché ritengo sia del tutto lecito che 35 psichiatri americani decidano di esprimere pubblicamente il loro qualificato parere sulla salute mentale di Donald Trump dichiarandolo «incapable of serving safely as president» dalle pagine del New York Times, anche senza averlo mai averlo avuto neppure un quarto dora sul loro lettino. Farò prima, tuttavia, col dire perché ritengo sia lecito affermare che Matteo Renzi è afflitto da un severo «narcissistic personality disorder» anche senza avere appeso alle spalle un diploma di psicoanalista, che invece sarebbe indispensabile per individuarne le cause, altrimenti solo ipotizzabili (sarà stato per quella volta che Leonardo Pieraccioni e Massimo Ceccherini gli strofinarono lortica sul culo quandera un ragazzino?).
E dico: bastano una copia del DSM-5 e larchivio delle dichiarazioni pubbliche da lui fatte negli ultimi sette anni (Youtube le raccoglie quasi tutte) per riconoscere in lui tutti i sintomi del «narcissistic personality disorder», peraltro combinati a una così spiccata inclinazione alla manipolazione, a una così marcata aggressività egosintonica e a una così accentuata coloritura paranoide dei suoi costrutti motivazionali da sollevare tuttal più il dubbio di trovarci piuttosto dinanzi a quella «dimensione di comportamento antisociale che collega il disturbo narcisistico di personalità con il disturbo antisociale di personalità e il narcisismo maligno» (Otto Kernberg).

venerdì 17 febbraio 2017

[...]

AllAmerican Psychiatric Association spetterebbe il dovere di bollare come irresponsabili e immorali tutti gli psicoanalisti che dal 1933 ad oggi hanno osato sparare una diagnosi su Adolf Hitler senza mai averlo avuto neanche un quarto dora sul loro lettino, e di farlo senza alcun timor reverenziale, visto che nella lista figurano nomi come Gustav Jung, Erich Fromm e Alice Miller.
Non accadrà, ovviamente. Accade, invece, che lAmerican Psychiatric Association si affretti a redarguire i trentacinque psichiatri che hanno firmato una lettera inviata al New York Times nella quale si sono azzardati a dire che Donald Trump è «incapable of serving safely as president» perché affetto da «grave emotional instability»: condotta «unethical» e «irresponsible», dice Maria Oquendo, che dellassociazione è la presidentessa, e che avrà pure un cognome che profuma di guacamole, burrito ed enchiladas, ma evidentemente devessere una messicana molto ben regolarizzata e dunque non corre il rischio di essere rispedita nellavita patria, oltre il muro.
«Unethical» e «irresponsible», i trentacinque, perché la diagnosi non è stata fatta dopo otto anni di analisi con tre sedute a settimana al costo di 120 dollari cadauna? Macché, perché i pazienti che sono in analisi «might lose confidence in their doctor» sentendo che implicitamente li si dichiara «“unfit” or “unworthy” to assume the presidency» degli Stati Uniti solo perché affetti da un «mental disorder».
Come darle torto? Provate a immaginare la frustrazione in cui sarebbe precipitato il povero caporale austriaco che avesse letto sul giornale che il professor Freud sconsigliava il cancellierato agli schizofrenici paranoidei.

martedì 14 febbraio 2017

Gabbani, il post-Battiato


Due canzoni spiccano fra le venticinque fin qui incise da Francesco Gabbani, e non solo perché hanno riscosso successo di pubblico e favore di critica incomparabilmente maggiori, ma soprattutto perché testi e musiche, che mostrano tra loro marcate analogie, le differenziano notevolmente dalle altre ventitré: parlo di Occidentalis Karma, che laltrieri ha vinto la 67ª edizione del Festival di Sanremo e ieri già infuriava ovunque come tormentone, mentre su Youtube già aveva superato gli otto milioni di click; e di Amen, che lanno scorso si piazzò al primo posto nella sezione Nuove proposte della stessa manifestazione canora, vincendo anche il premio della critica e quello per il miglior testo.
Due canzoni assai orecchiabili e con testi, entrambi a firma di Fabio Ilacqua, che riprendono il modello del patchwork di citazioni alte e basse che fu inaugurato da Franco Battiato nellultimo scorcio degli anni 70 del secolo scorso coi suoi intriganti mix di suggestioni pescate alla rinfusa dal classico e dal pop, dalletno e dalla dance, dal sacro e dal profano, dallaulico e dal prosaico.
Già riconoscibile in Amen, ma espressamente manifesto in Occidentalis Karma, il modello si mantiene ben lontano dagli eccessi in cui Battiato parve compiacersi di cadere per il gusto della provocazione, da sempre una delle peculiari cifre della sua arte: le citazioni sulle quali le note di Gabbani ci invitano a ballare sono chiaramente riconoscibili anche da un pubblico che abbia livello culturale medio-basso, andando in questo modo a rivelare, da un lato, il fine posto nell’operazione artistica e, dall’altro, il genere di ascolto che mira a conseguire.
Dal successo riscosso da Gabbani con queste sue due prove direi si possa trarre un eloquente indicatore del mutamento di gusto che la società italiana ha subìto negli ultimi decenni: continua ad essere rapita dall’epopea della crisi come crinale del divenire umano, ma ora pretende che essa abbia più saldi agganci al milieu in cui può celebrarla.

lunedì 13 febbraio 2017

[...]

Del tempo non siamo mai riusciti a costruirci un’idea che ci soddisfacesse del tutto, sicché ogni tanto ci è sembrato necessario darle un ritocchino, senza però mai mettere in discussione che si trattasse di una dimensione dalla continuità omogenea e inalterabile, entro la quale agisse un flusso perpetuo e irresistibile, necessariamente unidirezionale: da «immagine mobile dell’eternità» (Platone) a «quantità [che] rimane sempre uguale e immobile [e che] per sua natura [è] senza relazione ad alcunché di esterno» (Newton), in fondo, cambiava poco o niente.
Da qualche tempo, tuttavia, il tempo non è più quello di un tempo. Si è scoperto, infatti, che fa tutt’uno con lo spazio nel dare all’universo quella «struttura quadridimensionale» (Einstein) che ha trovato ampia comprova in questi ultimi decenni, e tuttavia resta concetto cui la nostra mente oppone ancora resistenza, come d’altronde accade ogniqualvolta siamo costretti a rinunciare a rappresentazioni di questo o quell’aspetto del reale così come sono venute a consolidarsi lungo i secoli.
Prova ne è che per la storia, «emula del tempo» (Cervantes), ci è pressoché impossibile abbandonare lo schema che ce la rappresenta come incessante scorrimento di eventi che si susseguono linearmente. Se è vero, infatti, che la storia non è la mera successione degli eventi, ma quanto se ne ricava dall’averli sottoposti a esame (più precisamente, a ιστορία, cioè a ispezione), è altrettanto vero che fin qui non si mai è riusciti a rappresentarne la continuità in altro modo che sulla bidimensionalità di un piano, ora come retta (tuttal più spezzettata in segmenti), ora come ciclo (tuttal più aperto in sinusoide), arrivando a stento a immaginarcela spiraliforme (e dunque a conferirle una profondità, in 3D): come ci resta difficile concepire l’evento nel cronotropo, così ci resta difficile dare quadridimensionalità alla storia. E chissà che non dipenda da questo l’incapacità a spiegarci ciò che in essa fa da materia oscura e buco nero.

giovedì 9 febbraio 2017

Niente di più, ma neppure niente di meno

Di ieri la notizia che a Roma, nellambito di un filone collaterale allinchiesta cosiddetta Mafia Capitale, 113 posizioni, fra le quali quelle di Gianni Alemanno e di Nicola Zingaretti, hanno trovato archiviazione relativamente allipotesi del reato di cui allart. 416 bis del Codice Penale. A chi si è prontamente speso per portare la notizia a sostegno della tesi che lassociazione a delinquere cui Massimo Carminati è ascritto a capo non fosse di tipo mafioso occorre far presente che il filone dindagine in oggetto è – appunto – collaterale (dunque non ha inerenza a quanto viene addebitato agli imputati del troncone principale) e che le posizioni allattenzione del gip erano in tutto 116, sicché il reato di cui sopra arriva a imputazione per le restanti 3 posizioni, che in caso di condanna darebbero sussistenza alla fattispecie, visto che a fare «associazione di tipo mafioso» bastano – appunto – «tre persone», e tuttavia, per ragioni uguali e contrarie, laddove pure questo accadesse, non sarebbe ancora dimostrato che quella di Massimo Carminati fosse «associazione di tipo mafioso» (occorrerebbe attendere la sentenza relativa alla sua posizione).
Più in generale, come più volte qui si è rammentato, la vicenda giudiziaria in oggetto non pone in discussione lesistenza della mafia a Roma, soprattutto poi se a mafia sintende dare il significato di una struttura «storicamente» definita (cosa che spesso viene strumentalmente data implicita), ma la rispondenza o meno dellassociazione a delinquere ai caratteri cui il testo di legge dà la denominazione «di tipo mafioso». Resti pure aperta la discussione sullart. 416 bis, ma, fino a quando non sarà modificato, solo di questo occorrerebbe discutere: «coloro che ne fa[ceva]no parte si avval[eva]no della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva[va] per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri»? Il testo non contempla coppole o lupare, né omicidi o stragi, e in realtà non vuole neanche dare una descrizione di mafia, limitandosi a delineare una tipologia di associazione che nella mafia «storicamente» definita trova una rispondente analogia dei tratti peculiari sul piano strutturale-funzionale, non su quello etico-estetico. Niente di più, ma neppure niente di meno.  

martedì 7 febbraio 2017

Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino 2016


Per qualche decennio si è commesso l’errore di credere che con la caduta del Muro di Berlino si fossero chiusi i conti con Marx, come col Prozac quelli con Freud, e con Internet quelli col Piccolo mondo antico della marchesa Maironi. È stata la stagione in cui ci si era illusi di essere arrivati alla «fine della storia», stessa illusione di quando la Belle Époque ci fece credere che scienza e tecnica ci avrebbero fatto chiudere i conti con Dio o, per guardare ancora più addietro, di quando ci si illudeva che bastasse un Roi Soleil a guarire gli scrofolosi e un Colbert ad addomesticare il debito di stato per aspettarsi che il bourgeois si sarebbe comportato sempre da gentilhomme.
Sembrerebbe non esserci scampo: non ci basta immaginare una «età dell’oro» dove in realtà la vita media non superava i trentacinque anni, ogni volta vogliamo ricrearne una che ci faccia vivere più a lungo, possibilmente in eterno, e questo naturalmente vale anche per quanto ci dovrebbe fare da carburante, possibilmente per sette, nove, quindici miliardi di individui. Ovvio che si finisca per sgomitare, ovvio che qualcuno intravveda nello sgomitamento la vera essenza della vita. Repellente solo fino a un certo punto, dunque, Gordon Gekko, e si capisce l’entusiasmo che esalta l’assemblea dei piccoli azionisti, la cui sorte è comunque segnata: ci sarà sempre qualcuno più avido di te, qualcuno la cui avidità vincerà la tua.
Porsi il problema di quanto possa reggere un sistema mosso da queste illusioni – anche solo porsene il problema – impone la scomoda tunica di Cassandra, il ridicolo peplo di Spartaco o, peggio, il cappello a cono con le orecchie d’asino di chi sta in castigo dietro la lavagna.

No, questa non è una recensione, spiacente se col titolo del post vi ho tratto in inganno. In realtà, il libricino di Luciano Canfora – un centinaio di pagine densissime, bellissime – qui sta solo come oggetto di scena: lo leggo dietro la lavagna, dove sto in castigo per aver espresso su queste pagine qualche timida riserva sulla globalizzazione così come è stata fin qui concepita e realizzata da un capitalismo che non sa darsi limiti, né riesce a imporsi regole – per questo qualche giorno fa su Twitter mi hanno marchiato a fuoco come «hubbertiano, malthusiano e luddista», e in una pagina dei commenti qualcuno si è chiesto che fine avesse fatto il liberale – e mi consolo a ritrovarmici dentro, naturalmente in assai più bella copia.
Leggendolo, riesco a cavare consolazione pure per l’eventuale biasimo di opposta parte, perché è chiaro che pure alle serali tenute da un Diego Fusaro finirei dietro la lavagna: «Non sono più attuali – infatti leggo – le prospettive operative che Marx propugnò, tutte alla fine contraddette dalla realtà» (pag. 81). A dirlo io, mi becco un cazziatone: «Marx non ha niente a che vedere coi regimi cosiddetti comunisti». Stessa cosa che si potrebbe dire di Gordon Gekko e del liberalismo, ma solo in un regime cosiddetto comunista.

lunedì 6 febbraio 2017

[...]

Sono mesi che la percentuale dei consensi attribuiti al M5S dai più accreditati istituti di rilievo demoscopico non si schioda dal 28-29%, ed è noto che i sondaggi sottostimano di qualche punto le opzioni di cui gli interpellati si vergognano, e come non vergognarsi di votare di M5S con tv e giornali che da mesi martellano in modo pressoché unanime a rappresentare il pericolo che incomberebbe sulle sorti patrie nella sciagurata ipotesi che lorda grillina ne pigliasse le redini?
Ribaltiamo la domanda: con un agguerrito fronte informativo che da mesi è quanto mai compatto nel dirne peste e corna, comè che il M5S non perde consensi? È questione che solo adesso pare porsi a chi ritiene che neanche la caduta di un meteorite grosso come il Cervino nel Medio Tirreno potrebbe far più danni di un Di Maio a Palazzo Chigi, di un Fico al Viminale, di un Di Battista alla Farnesina, e di tutti e tre a prendere ordini dalla Casaleggio Associati, perché fin qui è sempre stata salda la convinzione che i voti eventualmente persi dal M5S si sarebbero poi riversati altrove – poco importava dove, poteva andar bene pure che andassero a ingrossare lastensionismo – mentre ora è chiaro, e crea sconcerto, che nulla riesce a scalfire quello che sembra essersi consolidato in un vero e proprio zoccolo duro, e sì che sè tentato di tutto, al punto che un sospetto ora comincia a serpeggiare fra quanti si sono fin qui spesi perché al paese venga risparmiata lorrida iattura di un governo a Cinque Stelle: non sarà mica per aver commesso lerrore di ricorrere a tanti volgarissimi mezzucci dopo aver esaurito tutti gli argomenti più che decenti?
Direi che sia un sospetto ben fondato, non a caso nasce in chi ha sempre saputo fare distinzione tra un argomento e un mezzuccio, senza per questo essere stato in grado di rinunciare a usarli entrambi in polemica col M5S. È che la chiamata alle armi contro la minaccia grillina ha imposto la logica del «tutto fa brodo» anche a quanti sono stati reclutati dalla già esigua schiera degli intellettualmente onesti, e così ne abbiamo visto più d’uno rinunciare agli strumenti della retta argomentazione per cedere all’impiego dei più bassi espedienti persuasivi.
Verrebbe voglia di farne i nomi, di formulare qualche ipotesi sul come sia potuto accadere, ma ci guasteremmo qualche amicizia. Tutto sommato, poi, può bastare che in essi cominci a farsi strada la sensazione di aver sbagliato, anche se al momento il mancato raggiungimento del fine cui concorrevano fa ombra alla slealtà del mezzo usato.

giovedì 2 febbraio 2017

[...]

Citarsi è inelegante, ma si può far di peggio con l’autocitazione di un’autocitazione, di cui do un saggio riproponendo un post di sei anni fa: «Una volta ho scritto: “D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni”. Coi loro succedanei direi il contrario: non sopporto Civati, ma Renzi me lo rende amabilissimo. Peggio di Renzi, nel Pd, nessuno. Renzi è la larva che il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».
Di solito rileggo quel che ho scritto solo quando un alert mi avvisa che qualcuno lha allegato a un link, e così è accaduto col post qui riproposto, che non rammentavo di aver scritto, ripreso qualche settimana fa da un tweet di @Birnbaumchen. Anche se non ne ho mai avuto riscontro in una pubblica confessione, suppongo capiti a ogni blogger di vecchio pelo – e a marzo Malvino compirà tredici anni – che un link a quel che si è scritto istilli tanta più inquietudine quanto più il post è datato, e questo indipendentemente dal motivo per cui è stato ripreso, perché il tempo passa, e noi cambiamo, al punto che può pungerci più dolorosamente il plauso a ciò oggi non scriveremmo più che lo sberleffo su ciò che abbiamo appena scritto.
Nel caso qui portato a esempio, deo gratias, mi è andata abbastanza bene – continuo a preferire D’Alema a Veltroni e ovviamente Civati a Renzi, sul quale il giudizio si è fatto ancora più severo – e tuttavia ho ricavato un certo imbarazzo dalla forzatura cui ho ceduto nel paragonare Civati a Veltroni per assicurare solidità strutturale al testo su un parallelismo incrociato, nel quale è manifesta la debolezza che uno dei due assi mostra rispetto all’altro. Mi pare evidente, infatti, che le analogie tra Civati e Veltroni si esauriscano tutte sul piano dei salienti tratti del carattere (qui nell’accezione teatrale piuttosto che in quella psicologica), mentre quelle tra D’Alema e Renzi vanno ben oltre, come acutamente rilevato da Bechis in una sua recente scheda. Di più, direi che in Renzi ci sia il peggio di D’Alema e il peggio di Veltroni, e in micidiale sincretismo.

[Questo post è stato inavvertitamente pubblicato ieri prima di essere concluso. Me ne scuso col lettore.]

mercoledì 1 febbraio 2017

L’elettore del Pd che sarebbe Mantellini

Ci sono «ostacoli insormontabili» alla costruzione di quel «partito riformista di sinistra» che il buon Mantellini potrebbe votare senza essere costretto a «turarsi il naso in nome del meno peggio», indovinate quali.
Un attimo, però. Chiariamo. Mantellini parla da «elettore del Pd» («L’elettore del Pd che sarei io»), quindi è evidente che per «partito riformista di sinistra» intenda qualcosa che sta oltre il Pd: un partito ancora da venire, insomma. E dunque: quali sono questi «ostacoli insormontabili» che Mantellini vede frapposti tra il Pd così com’è, quello cui comunque ci risulta abbia dato il voto, non sappiamo se turandosi il naso o meno, e il «partito riformista di sinistra» che voterebbe, certo di non doversi veder costretto a turarselo?
Aspettate, non vi precipitate subito a dare una risposta, ché poi a sapere quella esatta ci rimanete male e ve la prendete con me perché non ho saputo esporvi a dovere i termini della questione, che sembra semplice, ma in realtà non lo è affatto.
Procediamo senza fretta, cominciando col chiarire cosa debba intendersi con «riformista» e «di sinistra», ovviamente per Mantellini. E chiariamolo facendo degli esempi, perché si tratta di concetti diventati così vaghi che ultimamente dentro ci si trova di tutto, perfino l’idea che la crescita del paese tragga formidabile impulso dall’abolizione dell’art. 18 e che tocchi ai contribuenti pagare i debiti che De Benedetti non ha pagato al Monte dei Paschi di Siena.
«Riformista», per Mantellini, significa per esempio «prendere atto della necessità di riformare la scuola pensando agli studenti prima che agli insegnanti»; e poi «prendere atto dello strapotere politico di alcuni grossi apparati sindacali che hanno infiltrato ogni angolo della macchina decisionale del paese e provare a metterci rimedio, per esempio iniziando faticosamente a premiare il merito più che l’appartenenza»; ancora, significa «investire sui giovani che sono la vera classe povera italiana e contemporaneamente la nostra unica speranza»; e poi «sposare un’idea di innovazione che non riguardi la Salerno-Reggio Calabria o peggio i ponti di Messina ma le autostrade informatiche e in generale gli ambiti digitali»; ultimo esempio di cosa significhi «riformista», «tenere distanti i propri mediocri amichetti dalle poltrone delle partecipate o delle fondazioni bancarie».
Esempi «banalissimi», dice Mantellini, ma solo perché lui è la modestia fatta persona. Di fatto, si tratta di riforme sulle quali faccio fatica a immaginare possano esserci obiezioni, tantè che sono nel programma di ogni partito, compreso il Pd, che le promette a ogni tornata elettorale. In quanto ad attuarle quando sta al governo, beh, quello è un altro paio di maniche.
Si prenda a esempio – esempio banalissimo, qui provo ad essere modesto anch’io – il governo Renzi. Tanto per dire, la cosiddetta Buona Scuola: scontenta gli insegnanti, ma per caso avete visto fiumane di studenti in festa? E il cosiddetto Jobs Act: avete registrato tutto ’sto travolgente entusiasmo fra i giovani? Non parliamo, poi, della priorità che le autostrade informatiche hanno avuto rispetto al ponte sullo Stretto di Messina, d’altronde una cosa è fare il romantico coi polli della Leopolda e un’altra è farlo venir duro a quelli della Impregilo. Cali un velo pietoso, infine, sugli scoronconcoli e le ciamporgne che il braggadocio ha da subito provveduto a sistemare nei punti chiave di partito, parlamento, governo, sottogoverno, stato e parastato: peggio delle cavallette, peggio della peronospora.
A stretto rigor di logica c’è da supporre che Mantellini non debba aver trovato molto «riformista» il governo Renzi, ma più in là del supporlo non ci è consentito andare, perché negli ultimi tre anni non è che lo si sia sentito lamentarsi troppo. Dev’essere stato il governo Gentiloni ad avergli fatto scattare la molla, va’ a capire.
E «di sinistr? Come dovrebbe essere, per Mantellini, un partito «di sinistr? Cosa dovrebbe avere a cuore un partito «di sinistr? È presto detto: «i diritti civili dei singoli cittadini, le libertà individuali, la solidarietà verso gli altri».
Un «di sinistr che vi suona strano? Sarà perché tanta attenzione allindividuo non è mai stata fra le peculiarità della sinistra, sempre più attenta ai bisogni della collettività. Però direi che «solidarietà verso gli altri» dissolve ogni perplessità.
Come dite? Trovate che sia locuzione troppo vaga, tant’è che la si trova pure nel programma di Casapound e nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Consentitemi di dirvi che siete in errore: è che ultimamente la sinistra non gode di ottima reputazione, e a mostrare troppa confidenza col suo tradizionale idioletto si corre il rischio di essere additati in società come pericolosissimi socialdemocratici, il che a dei flagiziosi della risma dun Gilioli o un Civati, che si sparano in vena un Piketty a colazione e uno a cena, questo potrà non far né caldo né freddo, e infatti eccoli lì, un giorno sì e laltro pure, a esibirsi come viziosi del welfare più spinto, mentre Mantellini non è della stessa pasta, questo è tutto: «di sinistra» pure lui, ma meno incline a strepitarlo ai quattro venti con parole troppo forti come – chessò – redistribuzione. Mera questione di galateo.
Ecco, vi ho dato l’aiutino, ora potete rispondere: quali sono gli «ostacoli insormontabili» che impediscono al Pd diventare il «partito riformista di sinistra» che piacerebbe tanto a Mantellini?
C’è rimanere a bocca aperta: (1) la minoranza del Pd, altrimenti detta «sinistra interna», e (2) quanti «da Fassina a Vendola» stanno a sinistra del Pd, dall’esterno. Sinistre che probabilmente Mantellini ritiene abusive, perciò naturalmente antagoniste della sinistra vera. Ma poi ci sono pure (3) «Alfano, Berlusconi e tutto il berlusconismo di ritorno da Verdini a certi residui millimetrici di Scelta Civica», che onestamente si fa fatica a capire come possano essere di ostacolo alla costruzione di un partito «di sinistr: basterebbe scaricarli, dunque l’ostacolo non sono loro, ma chi se li è caricati e ancora non li scarica. Così per (4) la «quota di attuale classe dirigente del PD mantenuta in sella per interesse o per esigenze di forza maggiore il cui esempio più rilevante è Vincenzo De Luca»: chi la mantiene in sella?
Sembrerebbe che Mantellini abbia una tremenda difficoltà nel realizzare che l’ostacolo più grosso posto alla costruzione del «partito riformista di sinistra» che da elettore del Pd vorrebbe votare è Renzi. O sarà che l’ha capito, ma l’ostacolo sta nel riuscire a dirlo. E questi, al momento, paiono i veri «ostacoli insormontabili».

venerdì 27 gennaio 2017

giovedì 26 gennaio 2017

[...]


Potrebbe trattarsi di Corrado Alvaro, col quale Leo Longanesi – sua la pagina di diario qui sopra riportata, datata 1° aprile 1950 – intratteneva cordiali rapporti già da una dozzina danni (si erano conosciuti nel 1937, quando per Omnibus, di cui Longanesi era direttore, Alvaro aveva scritto una serie di articoli per il ventennale della Rivoluzione dOttobre). Così folgorante, tuttavia, è laffermazione che siamo moderni una sola volta, e solo per pochi anni, per poi scoprire che siamo i moderni di due, di cinque, di dieci, di venti anni addietro, da rendere oziosa la questione dellattribuzione: ci viene data la chiave di lettura del tragicomico che cogliamo nellanziana signora sulle cui labbra vizze il rossetto fa cuoricino, comera di moda negli anni Trenta; nel kitsch dellimmaginario sessuale di Silvio Berlusconi riusciamo a cogliere gli archetipi celebrati da Le Ore; nella decisione di aprire un blog – aprirlo nel 2017, a vent’anni da quando aprirne uno era fighissimamente trendy – scorgiamo in Matteo Renzi il quarantenne già irrimediabilmente démodé. 

martedì 24 gennaio 2017

«Serve un grande manifesto dell’ottimismo»

Viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma sordidi figuri, mossi da oscuro e insanabile disagio esistenziale, ce ne guastano il pieno godimento alternando molesta lagnanza a rabbioso malcontento. Che fare? «Serve un grande manifesto dellottimismo», propone Claudio Cerasa (Il Foglio, 24.1.2017), rammentandoci che la vita è bella, e che la globalizzazione lha resa tale anche a centinaia di milioni di individui che solo fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame.
Come dargli torto? Dove ieri regnava la più nera miseria, oggi ci sono moltitudini che guadagnano trenta, quaranta, talvolta perfino cento dollari al mese, per dieci, dodici, talvolta pure quattordici ore di lavoro al giorno, che sarà pure sfruttamento, ma come negare che costituisca un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita? Niente da fare, «mercanti delle paure, signori dellapocalisse, prìncipi del disfattismo» si ostinano a dire che tutto va a catafascio, rifiutandosi di «osservare il mondo, e dunque la globalizzazione, nella sua meravigliosa complessità».
Davvero un peccato, questo richiamo di Claudio Cerasa a considerare la complessità della globalizzazione, perché una generica esortazione allottimismo ci avrebbe consentito di non mettere da parte lironia con la quale si è fin qui potuto evitare di dargli dello stronzetto. E dunque andiamola a considerare, questa complessità.

Da cosa nasce questo improvviso, ancorché assai relativo, benessere che piove addosso a centinaia di milioni di individui che solo fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame? Dalla logica che impone al capitalismo di abbattere i costi della produzione per massimizzare il profitto, cosa che può essere ottenuta solo in due modi, peraltro non alternativi luno allaltro: sostituendo quanto più possibile al lavoro degli uomini quello delle macchine e procacciandosi manodopera al più basso costo possibile. (In realtà, fra i costi della produzione andrebbero considerati anche quelli relativi alla materia prima, alla distribuzione del prodotto finito e alle tasse, ma al momento teniamoli da parte.)
Dopo poco più di mezzo millennio lungo il quale questa logica ha trionfato, a che punto siamo? In altri termini, cosa possiamo attenderci dal fatto che il costo del lavoro tenderà inevitabilmente ad aumentare anche laddove ora è bassissimo, come d’altronde è sempre accaduto nel corso della storia con la sola eccezione dei casi in cui il lavoro era affidato a schiavi cui era negata ogni rivendicazione? Per meglio dire: quale sarà la situazione quando non sarà più possibile tenere alti i profitti avendo a disposizione sempre nuova manodopera da pagare meno di quella già precedentemente impiegata? E quanto tempo manca ancora perché questa situazione si realizzi continuando a ritenere senza alternative un capitalismo senza regole e senza freni?
Anche ammettendo che possa essere globalmente uniformato un regime di bassi compensi, il che ovviamente potrebbe ottenersi solo mediante l’uso della forza, verrebbe inevitabilmente meno la domanda dei beni prodotti, e con ciò si arriverebbe a un crollo della produzione. Ma anche ammettendo che il profitto possa mantenersi alto con la riduzione delle tasse, c’è da chiedersi come tale espediente possa risultare efficacemente stabile nel tempo dovendone comunque rimettere la perdita a carico della collettività. In quanto a cercare di ridurre il costo delle materie prime, è credibile possa risultare possibile a fronte della loro progressiva riduzione o della progressiva difficoltà a reperirle?
Pare evidente che, anche a voler perpetuare il sistema entro il quale la logica capitalistica ha fin qui potuto trovare brillanti soluzioni alle sue cicliche crisi, si debba mettere in conto una sua crisi di sistema, che potrà evitare il blocco delle forze produttive e il suo crollo solo grazie ad unaccumulazione del capitale su basi sempre più ristrette, il che comporterà un inevitabile innalzamento delle tensioni sociali.

Certo, non deve darsi per scontato che la logica del capitale porti a una sterminata moltitudine di schiavi sulla quale imperi una sola potentissima multinazionale che, dopo aver eliminato ogni concorrente, prenderà il controllo totale sulla vita del pianeta, né che questa rappresentazione un po fumettistica di un futuro che solo un ingenuo può pensare già scritto preveda giocoforza una rivolta violenta che porti al caos o, a piacere, a una dittatura del proletariato. E che diamine, Claudio Cerasa ci invita a considerare la complessità della globalizzazione, non possiamo cavarcela a questo modo.
E allora diciamo che quasi certamente non andrà così. Chi fin qui ha potuto trarre profitto da una globalizzazione senza regole potrà anche cedere alla tentazione di approntare soluzioni a breve termine, le solite, alternando concessioni a repressioni, ma poi si farà strada, e probabilmente siamo già a buon punto, la convinzione che un crollo del sistema può essere evitato solo cambiando tutto, perché tutto resti uguale. Occorreranno enormi risorse perché la transizione possa essere avvertita come tollerabile, o addirittura attraente, ma queste sono già disponibili, pronte ad essere spese per reclutare migliaia e migliaia di stronzetti che ci inviteranno a guardare il futuro con ottimismo. 

martedì 17 gennaio 2017

L’ottimismo è di sinistra (e pure marxista)

Nelledizione online di Left Wing, martedì 17 gennaio, compare un articolo a firma di Francesco Cundari che fin dal titolo, Lottimismo è di sinistra (e pure marxista), solleva molte perplessità.
Chio sappia, lunica volta che il termine «ottimismo» fa capolino in un testo «di sinistra» è per scoraggiare dal considerarlo una risorsa: si tratta del duro rimprovero che Gramsci muove a chi pensa che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto autorizzi a credere che il capitalismo sia destinato a implodere di suo, senza bisogno di dargli neanche un colpetto (Quaderno XXVIII, III), quasi che, con quel «tendenziale» (Il Capitale, III, III), Marx intendesse dire: «Proletari di tutti i paesi, mettetevi comodi, tanto prima o poi tutto il sistema verrà giù da solo». Lettura che Gramsci dice sia da «oppiomani».
E dunque cosa porta Cundari a scrivere che lottimismo è «pure marxista»? Il riferimento sarà per caso a quell«ottimismo» che, nel chiudere la pagina, Gramsci dice possibile solo come espressione di «volontà» a fronte del necessario «pessimismo» imposto dalla «ragione»? Non siamo autorizzati a crederlo, daltronde Cundari non cita Gramsci, ma il Manifesto del partito comunista, che gli pare «intriso – appunto – di ottimismo». Sarà pur vero, ma è ottimismo che non fa mistero di avere come ultimo orizzonte «il violento abbattimento della borghesia»
Viene il sospetto che Cundari si sia lasciato prendere un po troppo la mano nel tentativo, peraltro temerario, di accreditare a Renzi qualcosa «di sinistra». Esplicito, infatti, è il riferimento a quellottimismo che Renzi avrebbe più volte dimostrato nel dare del «gufo» o del «rosicone» a chiunque sollevasse dubbi sulla sua azione di governo: a chi per ultimo glielha rimproverato (la Repubblica, 15.1.2017) Renzi ha risposto che «lottimismo fa parte della politica», e questo, per Cundari, sarebbe prova che in Renzi, ancorché modificato, cè del dna che è «di sinistra (e pure marxista)».
«Un leader di sinistra – scrive – deve trasmettere un messaggio di speranza, non di disperazione. Deve infondere fiducia, non seminare sfiducia»: direi ci sia abbastanza per definire «leader di sinistra» pure il Berlusconi che tentava di infonderci fiducia dicendoci che la crisi era uninvenzione dei suoi oppositori, perché i ristoranti erano sempre pieni e non si riusciva a trovare un posto sugli aerei.
In realtà, ce ne sarebbe abbastanza pure per consigliare a Cundari, persona che ci è simpatica (come direbbe Totò) «a prescindere»: Ciccio, lascia perdere, è impresa disperata. 

lunedì 16 gennaio 2017

[...]

Viene da princeps, che a sua volta viene da primus, quindi è naturale che il principio (ogni principio) inclini a dare uno spiccato tratto imperativo a quanto ci precetta, con ciò esigendo da noi quellobbedienza assoluta che non di rado implicherebbe il disattenderne un altro, dando così luogo a un conflitto che può trovare soluzione solo in un bilanciamento tra i due, che però di fatto li sacrifica entrambi, perché un principio (ogni principio) viene sempre a essere mortificato dal compromesso, e tuttavia (si pensi al conflitto tra principio di piacere e principio di realtà) è proprio grazie ad accomodamenti del genere che si riesce a 

Eviterei di scomodare i massimi sistemi, limitandomi a far presente al titolare del Ministero dello sviluppo economico che il richiamo al principio di riservatezza per opporsi a che siano resi noti i nomi degli insolventi che hanno portato al crac il Monte dei Paschi di Siena, al quale si è posto rimedio con una ventina di miliardi presi dalle tasche dei contribuenti (a quei quattro sfessati del M5S, che ne chiedono diciassette per il reddito di cittadinanza, si è soliti rispondere che è una proposta campata in aria, perché è impossibile trovare la copertura), confligge un pochetto col principio della trasparenza nell’impiego delle risorse pubbliche: perché chi si addossa l’onere di colmare una voragine non avrebbe diritto di sapere chi lha scavata? A scavarla sarebbe stato chi ha concesso i prestiti, non chi li ha avuti e non li ha restituiti, così argomenta il signor ministro, e senza dubbio questo è vero, ma giacché è altrettanto vero che il denaro non veniva prestato a tutti (a quanti poveri cristi sarà stato negato un mutuo per la prima casa o per risistemare la bottega?) che male c’è a cercare di farsi un’idea su quale tipo di clientela riuscisse invece a farselo prestare, e come, e perché? Se la colpa è di chi concedeva il prestito, non ha alcuna importanza sapere perché lo ha concesso a Caio, e a Tizio no? Pare evidente che sia stato prestato denaro, e tanto, a chi non avesse modo di poter offrire congrue garanzie di solvibilità: perché non deve esser dato sapere di quali strumenti potesse essere in possesso per renderle superflue al momento della richiesta? 

domenica 15 gennaio 2017

Medicina fai-da-te


Vi eravate illusi che ce lo fossimo tolto per sempre dai coglioni? Non prendetela come unoffesa, è una diagnosi (e scusate la brutalità, ma per dirlo non cè altro modo): non avete speranze, siete allo stadio terminale della fessaggine.
Condizione altrettanto grave, ancorché con prognosi meno severa, se vi eravate illusi che ce lo fossimo tolto dai coglioni almeno per qualche tempo: siete seriamente fessi, ma ricovero durgenza, adeguata terapia e un pizzico di fortuna vi danno ancora il lumicino di qualche speranza, salvo complicazioni. Qui, però, occorre far opportuna distinzione per gradi. Pensavate saltasse il prossimo congresso del partito o addirittura le prossime elezioni politiche? La terapia d’attacco sarà giocoforza assai pesante, quella di mantenimento estremamente lunga. Contavate non si rifacesse vivo almeno fino al primo dei due appuntamenti? Trattamento meno duro, ma comunque impegnativo. Avevate scommesso su marzo o aprile, con un rientro tipo «cervo a primavera»? Dopo alcuni mesi di degenza, potreste sperare di avere il consenso alle cure domiciliari.
Se invece pensavate che la mazzata del 4 dicembre gli fosse almeno servita da lezione, la cosa è assai meno grave, ma sia chiaro che sempre fessi siete, sicché sarebbe da sconsiderati rifiutare le dovute cure e il lungo ma indispensabile trattamento riabilitativo consistente in ripetuti cicli di «star sotto» al gioco dello «schiaffo del soldato».
Ultimo quadro clinico: sapevate esattamente, eventualmente già nel mentre glielo sentivate dire la prima volta, quanto valesse quel «se perdo il referendum, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di far politica» (12.1.2016); dai coglioni non ha mai smesso di salirvi il presentimento che non avreste dovuto aspettare troppo per rivedercelo sopra, e questo eventualmente già nel mentre lo sentivate dire che, «quando uno perde, non fa finta di nulla, andandosene a letto e sperando che passi velocemente la nottata» (4.12.2016); allannuncio che si stesse preparando a farlo già per metà gennaio, poi, non vi siete illusi che quel «cambieremo strategia» (24.12.2016) potesse significare più di tanto; tuttavia avete pensato – e qui sta la fessaggine, seppur in forma assai attenuata rispetto a quella dei tre quadri clinici sopra descritti – che sulla scena si sarebbe visto un Matteo Renzi almeno un po diverso da quello già tristemente noto: stessa faccia di cazzo, naturalmente, e stesso narcisismo, stessa irresistibile compulsione a mentire e a manipolare, ma almeno sotto un velo di finta bonomia, di falsa modestia, di ipocrita umiltà.
Bene, con l’intervista concessa a Ezio Mauro (la Repubblica, 15.1.2017), che mostra un Matteo Renzi in tutto simile – ma proprio in tutto – a quello che era strasicuro di vincere il referendum del 4 dicembre, a ogni fesso è offerto un prezioso strumento di autodiagnosi con l’opportunità di dare alla propria fessaggine il corretto inquadramento clinico. Uno dei pochi casi in cui la medicina fai-da-te è caldamente consigliata. 

venerdì 13 gennaio 2017