sabato 22 giugno 2019

Recensione di una recensione


«Dopo aver accompagnato moglie e figlio alla stazione ferroviaria mandandoli in vacanza nel Maine per farli sfuggire allafa estiva metropolitana di Manhattan, Richard Sherman rincasa», così recita lincipit della trama di The Seven Year Itch (Billy Wilder, 1955), che in Italia arrivò sugli schermi col titolo Quando la moglie è in vacanza. Canovaccio in tutto simile a quello dello scorso venerdì, eccezion fatta per il rincasare: certo che Marilyn Monroe non potesse aver preso in affitto lappartamento sopra il mio, non mi sono affrettato e, bighellonando in auto per la città, mi son trovato nei pressi del Palazzo Serra di Cassano, sede dellIstituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove ho appresso si stesse tenendo la presentazione di un libro, Storia dellItalia corrotta di Isaia Sales e Simona Melorio, edito da Rubbettino.
Niente di comparabile allo spettacolo di una biondona che dà il fresco alle sue grazie su una grata daerazione, certo, ma la cosa si è rivelata dun certo interesse, sicché ho comprato il volume, un bel librone di 322 pagine che illustra tutti gli episodi di corruzione noti succedutisi in Italia dallUnità allaltrieri: doviziosa documentazione, ineccepibile trattamento delle fonti, insomma, un onesto lavoro di scavo, tanto più encomiabile per la cura riservata ai casi poco noti ai più, incontestabili sul piano degli elementi addotti a prova ed emblematici della diffusione del fenomeno proprio perché sottratti all’effetto mitopoietico della dimensione dello scandalo pubblico di più grande portata. Citarne qui qualcuno, se questa fosse una recensione di Storia dellItalia corrotta, potrebbe tornar utile a consigliarvene lacquisto, ma il titolo del post non lo concede: questa vuol essere la recensione di una recensione, quella che trovate a pag. 2 de Il Foglio di venerdì 21 giugno, a firma di Massimo Adinolfi (“La storia dellItalia corrotta” che non spiega niente della nostra storia).
Recensione oltremodo malevola, il che di per se stesso non sarebbe biasimevole, perché la stroncatura è quasi sempre un genere più interessante della marchetta, oltre ad essere assai più nobile. Il problema sta nel fatto che una stroncatura devessere argomentata in modo stringente, senza lasciare il ben che minimo appiglio al sospetto che la critica sia preconcetta o, peggio, sia piegata a un fine diverso da quello di dimostrare che il libro in questione non valga la pena di essere acquistato, mentre quella che Massimo Adinolfi riserva a Storia dellItalia corrotta è argomentata in modo così sgangherato da offrire innumerevoli appigli ad altrettanti sospetti. E non è tutto, perché questa sgangheratezza saddobba della sciagurata spocchia che pretende considerazione in cambio della ruminazione di qualche garzantina.
Quello che pare aver maldisposto Massimo Adinolfi nei confronti del libro, non sappiamo se impedendogli di andar oltre le prime quattro pagine, le uniche che prende in considerazione, è l’«accumulazione», figura retorica che si presenta in forma di elenco, e qui l’elenco è quello di «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» coinvolti in episodi di corruzione.
Non dovrebbe irritare il fatto che di questi episodi siano stati protagonisti uomini che, a vario titolo, erano tenuti alla tutela del bene comune, venendo poi meno a questobbligo istituzionale per perseguire, a discapito dellinteresse pubblico, quello privato, senza avere in alcun conto le leggi dello stato e quelle morali? No, quello che irrita Massimo Adinolfi è il fatto che la lista «viene giù fitta e insistente come una pioggia monsonica», anzi, come un «diluvio». Ma questa non è la sola «accumulazione» che lo irrita, perché c’è pure quella fastidiosa sequenza di «se», che apre ben 25 protasi («se le società, pubbliche e private... se i manager, pubblici e privati... se i grandi gruppi... se le grandi opere... se i concorsi... se i partiti... se le professioni... se le banche... se la magistratura...»), ma che gli pare «chied[a] di essere letto come un “se è vero, come è vero, che”», per arrivare ad insinuare in forma di domanda retorica un assunto che in realtà sarebbe fallace («come si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare, un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del nostro stato nazione?»).
Neanche sarebbe un’«accumulazione», quest’ultima, perché in realtà è un’anafora, ma Massimo Adinolfi ne è comunque tanto disturbato da non riuscire a produrre neppure la schifezza della schifezza della schifezza di un’obiezione che sia degna di dirsi obiezione a quell’assunto, se non quella che, a fronte delle 322 pagine zeppe di fatti circostanziati e documentati, obiezione non è: tutta roba percepita, questa corruzione, e «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Cosa avrebbero dovuto fare per diminuirla? Probabilmente sfoltire, sfoltire, e su quello che restava essere più indulgenti, come solitamente sulla corruzione è Il Foglio, il cui fondatore ha sempre sostenuto che la corruzione è un ingrediente ineliminabile dalle forma di vita associata, concedendo possa essere combattuta, ma senza metterci troppa indignazione, arrivando addirittura a teorizzare che «in politica non si tratta affatto di avere la capacità di “ricattare” gli altri, di condizionarli ed eventualmente ricattarli, dove il termine va inteso in senso politico, paralegale. Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile»; in senso «paralegale», ovviamente, dove il «para-» sembra essere proprio il margine di indulgenza da concedere a una rete di rapporti che senza l’ineliminabile ingrediente della corruzione può addirittura correre il rischio di lacerarsi.
Prendete Micromega 1/2002 e andate a pag. 139-140, è il punto in cui, conversando con Piercamillo Davigo, Giuliano Ferrara illustra magistralmente questa sua teoria del «paralegale» come statuto della politica: «La politica è senza dubbio il regno dell’ambiguità. Si distingue dalla dimensione etica privata, personale, individuale, di coscienza. E si distingue anche da una concezione lineare e non ambigua della legalità. In altri termini: la politica, che è rapporto di forze, ricerca del consenso, una delle manifestazioni del modo di organizzarsi e convivere degli uomini, forse la più rilevante, è un’altra cosa rispetto alla concezione lineare e autoreferenziale della legalità». Riesponendoci alla «pioggia monsonica», diremmo che «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» sono in qualche modo a legibus soluti: sembra corruzione, quella in cui vengono sorpresi, quando accade che vengano sorpresi, ma la percezione è fallace, perché la rappresentazione è ben distante dalla realtà, e la realtà è che non è corretto calcare a forza sugli episodi di corruzione di cui si macchiano i parametri adottati per quelli di cui si macchiano i comuni cittadini. In questo, allora, sì, «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Ecco perché non è ricevibile la controbiezione che Simona Melorio anticipava venerdì scorso, quando teneva a far presente che nello scrivere Storia dellItalia corrotta si era deciso di rinunciare ad ogni approccio di tipo statistico, inevitabilmente soggetto alle inferenze di tipo percettivo: non è ricevibile perché è il semplice parlare di corruzione, ancorché documentata e relativa a casi reali, a mettere in discussione lo statuto che rende a legibus soluti chi è chiamato dalla politica a rivestire un ruolo istituzionale.
In tal senso, forse, andrebbe rivisto il senso della recensione di Massimo Adinolfi: più che una stroncatura di Storia dellItalia corrotta, è una marchetta alla teoria di Giuliano Ferrara, ovviamente col ritardo dovuto al fatto che fino a uno o due anni fa era consulente del Ministero della Giustizia. Questo consente, da un lato, di trovare appiglio a ogni sospetto e, dallaltro, di spiegare laltrimenti inspiegabile chiusa della recensione: «Rimane il fatto – scrive – che con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?».
In quale punto del volume è dichiarata l’intenzione di spiegare la storia italiana con la corruzione e il suo carattere endemico? Gli autori non si azzardano a farlo neppure in modo implicito, si limitano a considerare che i casi di corruzione trattati coprano un arco temporale coincidente a quello che va dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, senza lasciare buchi, quasi sempre con ampie aree di sovrapposizione ed intersecazione. Quando poi scrivono che la corruzione è da ritenersi «un elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione», dove si legge, come crede di poter fare Massimo Adinolfi, che la corruzione ne sarebbe «costitutiva»? Costitutivo è ciò che concorre in modo essenziale alla formazione di qualcosa; connaturato è al più ciò che vi radicato dentro ab initio; insito ad essa, certo, ma donde se ne dovrebbe trarre che ne informa ratio e sviluppo?
Qui non possiamo glissare come abbiamo fatto sulla confusione tra accumulazione e anafora, qui di «percussivo» ci par essere solo la malafede di Massimo Adinolfi. Perché questa Storia dell’Italia corrotta ci racconta episodi di corruzione verificatisi negli ultimi 150 anni, ma in quale passaggio del libro si afferma che fu la corruzione a dare forma e/o sostanza a fascismo, democrazia, scelta atlantica, boom economico, mafia e terrorismo? E sì che in più di un caso alla tentazione si potrebbe anche cedere. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che per consenso unanime degli storici segna una svolta dei tratti offerti dal fascismo, non si ebbe per impedirgli di rendere pubblica la tangente intascata dal fratello del Duce? Rompere l’alleanza di governo con comunisti e socialisti, in cambio di qualche milionata di dollari gentilmente offerti ad Alcide De Gasperi, non configura un atto corruttivo? Il denaro dato a brigatisti e camorristi perché fosse salvato il culo a Ciro Cirillo, e a meno di tre anni di distanza da quando con Aldo Moro era prevalsa la linea della fermezza, lo rubrichiamo a investimento pubblico?  

venerdì 7 giugno 2019

Che invidia!


Ero troppo preso dal ricostruire le circostanze che mi hanno mandato fuori strada circa lidentità del «rivoltoso sconosciuto» di piazza Tienanmen, per poter prestare la dovuta attenzione, ma anche e soprattutto la necessaria disposizione danimo, alle circostanze che qui in Italia e, primancora, in mezzo mondo, a partire dal Regno Unito, hanno mandato fuori strada molti organi dinformazione circa la morte di Noa Pothoven, sicché solo in queste ultime ore ho recuperato gli estremi della faccenda per come realmente ha avuto svolgimento, e preziosi in tal senso mi sono stati gli interventi succeditisi nelle ultime 48 ore sulla pagina Facebook di Marco Cappato, tra i primi a smentire la notizia che in un ospedale olandese fosse stata praticata leutanasia su una minorenne perché depressa, e con tanto di placet clinico e legale, tra i primi a chiarire che invece si era lasciata morire di fame e di sete, e a casa sua, proprio perché quel placet era mancato.
Reduce da un infortunio che in sostanza era della stessa natura (superficialità nel trattamento delle fonti), potete immaginare con quanta curiosità mi sia interessato al modo col quale vi mettevano riparo le prestigiosissime testate e le autorevolissime firme che ne avevano subìto uno uguale, constatando che però tutto andava come al solito, con chi faceva finta di niente, passando subito a parlar daltro, chi dava conto dellerrore, ma en passant, come si fosse trattato di un refuso tipografico, e chi se ne assumeva la responsabilità, ma solo per lasciar spazio a giustificazioni ed attenuanti che in sostanza la rigettavano: nessuno che ammettesse lerrore, chiedesse scusa e si impegnasse a non ripeterlo. In generale, mi è parso che si intendesse dire al lettore: «Guarda che nel rilanciare la bufala non sono stato vittima meno di quanto lo sia stato il lettore che se lè bevuta, perché la storia dava corpo a quellipotesi di piano inclinato che è tra più suggestivi espedienti retorici di chi si oppone a una legislazione che riconosca il diritto alleutanasia, e che dà sostanza anche alle riserve di non vi si oppone per ragioni di principio, ma solo perché ne teme le derive. Cerca di essere indulgente, dunque: cascarci era facile, e in fondo anche in te lorrore ha lasciato poco spazio allincredulità». Sempre meglio di un «ci hai creduto, faccia di velluto», e già è tanto.
Poi cè Il Foglio, ma si sa che Il Foglio fa categoria a parte. Mercoledì 5 giugno: «La morte on demand è realtà, l’Olanda pratica l’eutanasia su una minorenne depressa. Una ragazza olandese di 17 anni, Noa Pothoven, ha ottenuto l’eutanasia, legale nei Paesi Bassi, a seguito di una violenza sessuale subita all’età di 11 anni». Notevole è quell«a seguito», che lega violenza a violenza, stupratore ad assassino. «Qui c’è una riflessione da fare. [...] L’eutanasia era iniziata come metodo estremo per porre fine alle sofferenze dei malati incurabili, condannati a morte certa, per abbreviarne il calvario. “Compassione”, si disse. Gli oppositori avevano evocato lo slippery slope, il tema del piano inclinato. Non ci saremmo fermati ai malati incurabili. [...] La vicenda di Noa questo ci dice: una volta che si accetta di camminare sul piano inclinato si finisce contro il muro della “death on demand”. La morte su richiesta. Come un qualunque altro servizio sanitario».
Giovedì 6 giugno? Ok, Noa non ha ricevuto leutanasia, ma «avrebbe potuto riceverla». Anche se sè saputo che le era stata negata? Poco importa, la ragazza aveva deciso di lasciarsi morire di fame e di sete e «lo stato olandese aveva acconsentito alla sua morte decidendo, in accordo con la famiglia, di non intervenire». E questa è eutanasia? Non stiamo troppo a sottilizzare: la notizia era una bufala, ma in fondo, in fondo, in fondo, non lo era.
Come non restare incantati di fronte a tanta disinvoltura nel trattare i propri infortuni? Averne almeno un po, di tanta faccia tosta, che invidia!

giovedì 6 giugno 2019

Heautontimorumenos

Si ha il diritto di essere severi con gli errori altrui, quando si sa essere spietati con i propri, come mi tocca fare con quello da me commesso nel post qui sotto, segnalatomi da un lettore che nella pagina dei commenti ha prodotto argomenti solidi e ben documentati a smentire la perentorietà con la quale ho dato per certa l’identità del «rivoltoso sconosciuto» che il fermo immagine di un video della rete britannica Itn ha immortalato a icona dei sanguinosi eventi di piazza Tienanmen: la sua identità è tutt’altro che certa, sono stato precipitoso nel ritenere che lo fosse, peraltro appoggiandomi a una fonte che ho interpretato in modo superficiale. Nella risposta al commento del lettore, che si firma DKS, ho cercato di dare una spiegazione dell’errore nel quale sono incorso, evitando di acconciarla ad attenuante, e porgendo le mie scuse, ringraziando per la segnalazione. Giacché, però, l’errore è stato fatto in homepage, ritengo sia necessario che in homepage ne sia riportata l’ammissione, estendendo anche a voi le mie scuse, con l’impegno a sorvegliare con maggiore attenzione i dati che daranno spunto alle mie riflessioni, cui darò corso appena avrò superato l’imbarazzo.

martedì 4 giugno 2019

Signoroni della nostra molto sussiegosa informazione



Nel trentennale degli incidenti di piazza Tien An Men, doppio paginone de la Repubblica, a firma di Ezio Mauro. Tra le foto, immancabile, quella che è diventata il simbolo della protesta che fu affogata nel sangue, luomo in camicia bianca che sfida la colonna di carrarmati: il «rivoltoso sconosciuto», così nella didascalia.
Il Corriere della Sera ci aveva pensato ieri, articolo di Marco Del Corona e boxino ad annunciare per oggi, in allegato al giornale, Piazza Tienanmen, raccolta di saggi e reportage a cura di Marcello Flores, in copertina una rielaborazione grafica della foto (XxYstudio). Lo sfoglio: normale non trovare il nome di quelluomo da pag. 48 a pag. 232, si tratta di articoli coevi ai fatti, ma non ve nè traccia neppure in quelle che precedono (presentazione di Marcello Flores, articoli di Fabio Lanza e Guido Santevecchi), scritte al più una settimana fa.
La Stampa, invece, aveva anticipato a domenica il ricordo del massacro del 4 giugno 1989: Gianni Vernetti, inviato a Hong Kong, intervistava Han Dongfang, uno dei capi della protesta. Anche lì, la «foto simbolo»; anche lì, il protagonista non trovava un nome.
Come daltronde non lo trovava sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, che nello stesso giorno mandava in pagina un articolo a firma di Roberta Zunini e la foto dobbligo, però in bianco e nero, un po sgranata: chi è quelluomo? «Il ribelle sconosciuto».
Non diversamente con il Giornale, che lunedì 3 giugno, a corredo di un articolo a firma di Roberto Fabbri, pubblicava la foto, dove al «tank man» non riusciva a dare un nome: anche qui era il «rivoltoso sconosciuto».
Ben quattro pagine, invece, su il manifesto oggi in edicola (articoli di Tommaso Di Francesco ed Alessandro Russo, con due reprint dellepoca, Rossana Rossanda ed Edoarda Masi); anche qui la foto, anche qui non si ha modo di sapere chi sia leroe che sbarra la strada ai quattro blindati.
Giornaloni, giornalini e giornaletti on line? Idem con patate.

Ora, non è per star qui a rompere il cazzo a qualcuno in particolare, ma agli eccellentissimi direttori di queste testate vorrei chiedere: su Mark Caltagirone avete sguinzagliato intere redazioni e un po di pace lavete trovata solo quando avete potuto avvertire i vostri lettori che il tizio non esisteva, Pamela Prati vaveva preso per il culo, eccetera, eccetera, possibile che il ditino vi si anchilosava a cliccare qua e là per scoprire che il ribelle, o rivoltoso che dir si voglia, un nome ce lha e, se lo onorate dandogli il titolo di «icona», meriterebbe pure fosse scritto in pagina?
Si chiama Wang Lianxi, e per giunta è ancora vivo (*). Fu arrestato nelle settimane successive al massacro di piazza Tienanmen e condannato a morte, ma poi la pena gli fu commutata in ergastolo perché «malato di mente». Ospedale psichiatrico, ma poi nel 2007 fu rilasciato. Tornò a casa, trovò che i genitori erano morti e la casa era stata distrutta. Un comitato di quartiere gli procurò un posto dove dormire. Poi, nel 2008, alla vigilia delle Olimpiadi tenutesi a Pechino, fu di nuovo arrestato e internato nell’ospedale psichiatrico Pingan nel distretto Xizhimenwai, a Pechino, dove nel 2009 unassociazione per i diritti umani in Cina, la Chinese Human Rigths Defenders, ebbe modo di incontrarlo, trovandolo un po intontito per gli psicofarmaci, ma in discrete condizioni fisiche. Più in salute di Mark Caltagirone, insomma, signoroni della nostra molto sussiegosa informazione

lunedì 3 giugno 2019

[...]



Ieri: «Non metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un preservativo che si piglia un terzo della pagina, il banner sotto la testata sul quale scorrono i prezzi di caffè, prosecco e detersivo distribuiti da un ipermercato e il pop-up che reclamizza una società di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio perché bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo segnalarvi lo stesso...» (Malvino, 5.12.2014).
Da oggi in poi, non più: nel caso dovessi commentare un post de Il Post, potrò linkarvelo tranquillamente, perché, andando di là, non troverete più limpiastro che descrivevo quattro anni e mezzo fa. Prima, però, cè da sbrigare una piccola formalità: 80 euro. Proprio così, per soli 80 euro allanno (in alternativa, 8 euro al mese) Il Post vi sarà offerto «senza nessun annuncio». [Qui immagino che al solito grammar-nazi venga distinto: «Semmai “senza alcun annuncio”». A torto, stavolta, perché a «senza nessun annuncio» segue «salvo in qualche occasione particolare»: la doppia negazione, dunque, qui non casca male, via.]
Comè venuta, stideona? Il malpensante azzarderà che la baracca stesse a far acqua, ma ci mettiamo un niente a scornarlo: «Mi fermavano per strada – rivela Luca Sofri – per chiedermi come mai non avessimo ancora lanciato gli abbonamenti». [Forse voi no, perché siete aridi dentro, ma io non faccio alcuna fatica a immaginarmela, la scena: «Ohilà, Sofri, comè che posta a gratis? Quelle delizie di soggetto-virgola-verbo, per esempio, non crede sia venuto il momento di farcele pagare?»; e lì il povero Sofri a capitolare: «Ok, ok, vedrò di accontentarla, caro fan!»; giorni a pensarci, e infine – riverbero renziano, eureka! – 80 euro.]
Abbonamento, dunque, ma a una versione spot-free, perché «dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo». Tutto sta a voi, dunque. Non avete voluto sganciare 60 euro allanno per continuare a far vivere Radio Radicale, e vabbè, avevate visto giusto, è quasi fatta, la convenzione sarà rinnovata, e continuerete a godervela a gratis, non era il caso di fare neanche il gesto di metter mano alla tasca. Ma qui cè uno che da nove anni migliora il mondo e, abbonamento sì o abbonamento no, assicura che continuerà a migliorarlo: non vi viene di getto un gesto di liberalità? Ma allora siete bestie, fatevelo dire


domenica 2 giugno 2019

Morettiana





In Isole, secondo episodio di Caro diario (Nanni Moretti, 1993), c’è un indimenticabile Antonio Neiwiller nei panni del sindaco di Stromboli, un sindaco animato da un entusiasmo prossimo all’esaltazione, che senza sosta partorisce visionari progetti di valorizzazione delle bellezze paesaggistiche del luogo, robe del tipo «chiedere a Morricone una musica da diffondere per tutto il giorno come colonna sonora del paese», «la luce dell’isola a cura di un grande maestro della fotografia: Storaro che cura l’illuminazione e i tramonti di Stromboli», in un più vaste programme che mira a «un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori, tutto nuovo», insomma, «ricostruire da zero Stromboli», peraltro con l’aspirazione a ben più ampi orizzonti – «ricostruire da zero l’Italia» – fino ad offrirsi da modello al mondo, come d’altronde ben promette il fatto che «sta per arrivare dal Giappone lagronomo responsabile dei 28.000 ettari che circordano Tokyo, vuole parlare con me, dei miei progetti, vuole capire il segreto del nostro equilibrio tra crescita e benessere». È un sindaco, quello interpretato da Neiwiller, che però vive il dramma di non riuscire a trasmettere il suo entusiasmo agli isolani, che a tanto fuoco sacro sembrano opporre un’apatia altamente ignifuga, insensibili a tante geniali idee, forse perfino un po’ terrorizzati da tanto anelito palingenetico: «eppure il materiale umano ci sarebbe», ma niente, «tante potenzialità vanno sprecate», e il poveretto deve dolorosamente prendere atto che «qua sono tutti così ostili», ma senza riuscire a farsene una ragione – «perché sono tutti così ostili?» – senza poter far altro che abbandonarsi ad uno sconsolato «che peccato!».

Cambiando quel cè da cambiare, lapologo morettiano calza come un guanto alla parabola di Mimmo Lucano. Da cambiare cè che, pur non sapendo se il sindaco di Stromboli sia poi stato rieletto, Nanni Moretti ce ne fa fortemente dubitare, mentre la narrazione che i media hanno costruito attorno allormai ex sindaco di Riace ci rende inspiegabile perché il 26 maggio sia stato così crudelmente trombato: chi ci ha illustrato la sua grande passione, le sue ottime intenzioni, le sue geniali idee, chi ha esaltato lesempio di accoglienza da lui realizzato a modello da adottare in tutta Italia e in ogni paese meta di migranti, chi è arrivato addirittura a immaginarlo come leader di un centrosinistra che aveva da espiare la tavolata di un Salvatore Buzzi e un Giuliano Poletti, l«aiutiamoli a casa loro» di un Matteo Renzi, le derive securitarie di un Marco Minniti, non ha saputo darci neanche come lontana ipotesi che alle Comunali di Riace, lo scorso 26 maggio, Mimmo Lucano avrebbe preso solo 21 voti, né oggi sa darcene spiegazione. Nemmeno tenta, in realtà, e preferisce tacere. E più di tutti tace chi di Mimmo Lucano ci ha offerto una narrazione prossima allagiografia di un santo che aveva compiuto il gran miracolo di cavare una formidabile opportunità da due enormi problemoni come lemergenza posta dallarrivo dei migranti in Italia e la drammatica crisi economica, demografica, culturale, eccetera, di tanti paesini del profondo Sud. È a quella fonte che ci eravamo precitati ad abbeverarci, ma siamo rimasti a bocca asciutta.

Parlo di Propaganda live, che di Mimmo Lucano ci ha offerto il dittico in gloria e in martirio. Sapre la puntata del 27 maggio, quella dello speciale post-elettorale, e il duetto iniziale tra Diego Bianchi e Marco Damilano nutre qualche speranza che la spiegazione venga data.
D.B.: «Si è votato, e ne dobbiamo parlare. Non vedevamo lora, no? Del resto, finché le cose vanno così, ce nè da dire, ce nè da fare. Allora cominciamo con il buon vecchio spiegone di Marco Damilano...»
M.D.: «Sì...»
D.B.: «... se ancora ne ha da spiegare...»
M.D.: «No, spiegare no... Qualcosa...»
D.B.: «No, devi spiegare, bisogna spiegare un sacco di cose. Please, on stage!»
Ok – uno si dice – da Diego Bianchi nessuna spiegazione, ma questo è comprensibile, perché da cocchiero del carrozzone satirico antigialloverde gli spetta di diritto limitarsi allarguta glossa di contorno, come da regola introdotta da Serena Dandini alla guida dei carrozzoni antiberlusconiani, e ormai diventata canone del bon ton che caramella ogni palla di letame antigovernativa. Poi Diego Bianchi è meglio non sazzardi a fare lanalista, scivolerebbe ineluttabilmente negli sdoppiamenti in cui si produceva nei video dei suoi esordi: «ce nè da dire, ce nè da fare», ma, beninteso, da topo nel formaggio. E allora porgiamo orecchio a Marco Damilano, che non rimuove, anzi, dà conto che di Stromboli ce nera più duna, e che per tutte è stata una Riace: «Pioveva... “acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”... a Lampedusa è arrivata prima la Lega di gran lunga, con il 45%... la Lega ha conquistato il Comune di Ventimiglia... e poi ha preso il 35% a Rosarno... e anche nella Riace di Mimmo Lucano ha preso il 30%...». Ok, ma perché? Niente, è che «cè un vento che soffia in tutta Europa e poi arriva anche nei posti dove meno te lo aspetteresti... e allora ti dici “ma da dove arriva tutto questo?”... perché non lhai sentito arrivare?...».

Capisci che neanche da Marco Damilano potrà venirti una spiegazione seria: dice che a Riace il vento è arrivato da fuori, risulta assai più acuto Nanni Moretti, che non si nascondeva le ostilità degli stromboliani alle progressistissime levate di genio del loro sindaco. Ma gli sia dato modo di spiegarci il vento e la pioggia: dove nascono, come nascono? Zero, nessuna spiegazione, passiamo a consolarci con lo scoppolone preso dal M5S. Che di voti ne ha persi sei milioni. Che non sono certo defluiti tutti nel Pd. Che, anzi, a dispetto del suo 22,7%, ha perso in assoluto un bel po di voti rispetto alle Politiche dellanno scorso. Sei milioni di voti in parte andati a Salvini e in parte rifugiati nell’astensione. Per i primi, non vale la pena di darsi troppo pensiero: sottoproletariato e piccola-borghesia, roba fascistoide di suo. Per gli altri, poco male, perché è dall’astensionismo – ci assicura Wu Ming  che arriverà la rivoluzione. Tutto bene, dunque, se non sarà sereno si rasserenerà, passiamo al varietà. Ohi, gente, avreste dovuto vedere la faccia di Giggino agli exit poll e, a seguire, proiezione dopo proiezione... Prego, Makkox, vai con una delle tue, e che sia bella puntuta, così la Constanze può regalarci il suo squillante coccodè!
Ora, sia chiaro, non è che uno si aspetti da Propaganda live una seria e approfondita analisi di cosa sia l’Italia dell’Anno Domini 2019, di come la sinistra abbia sbagliato tutto nel declamare dai Parioli la bellezza di un’integrazione da promuovere però a debita distanza dai suoi viali alberati dove la differenziata e la paletta per la pupù dei cani sono undicesimo e dodicesimo comandamento, sì da poterne trarre grato compiacimento dal reportage di Zoro in terra di Calabria, in cui è evidente quanto il bonghetto del ghanese piaccia alla vecchina di Riace. Il guaio è che pure il re cui Propaganda live fa da giullare non sa darsi spiegazioni diverse da quelle di Marco Damilano: “acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”, prima o poi passerà, da fuori è venuto il vento e fuori andrà.
Nanni Moretti? Un gigante. E perciò da tempo tace. 


Nota Mia moglie, che è la più severa critica delle mie riflessioni ad alta voce, poi riversate in pagina, dice che ultimamente sono in preda ad uno scrupolo cui andrebbe bene la definizione di «le ragioni del nemico», me lo ripete dopo aver letto questo post, ed è da qui che preferisco risponderle: se al posto di ragione ci va ratio, accetto la critica, il «nemico» va innanzitutto capito, non lo si può liquidare come incarnazione del Male o come parentesi regressiva in un ineluttabile cammino verso un radioso avvenire. 


martedì 28 maggio 2019

[...]




La puntata de L’aria che tira di lunedì 27 maggio non è stata ancora postata su Youtube, dal website della trasmissione non so scaricarne il video per ritagliare il passaggio che avevo l’intenzione di riportare su questa pagina, dunque mi rassegno a sbobinarlo.
Si tratta di Gianni Cuperlo, leggendo non dovreste far fatica a riprodurne mentalmente la patognomonica erre moscia da scicchissimo intellettuale di sinistra. Parla dei risultati delle Europee, e dice: «A me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna. In Sardegna, il 33% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni che frequentano la secondaria non completerà il corso di studi».
Pochi istanti prima, alla domanda su cosa debba fare il Pd adesso per cercare di recuperare ulteriormente tutti i voti persi in questi ultimi anni, aveva risposto: «Trovare gli argomenti giusti per parlare alla vita delle persone».
Nel caso della Sardegna, evidentemente, l’argomento giusto suona a questo modo: «Sardi, siete leghisti perché ignoranti»
Morale: c’è più sociologia in quindici secondi di tv spazzatura che nelle pagine tutte cifre e istogrammi dell’Istituto Cattaneo.


Aggiornamento Dice che forse si è espresso male, ma di certo siamo noi ad aver capito peggio: «Semplicemente non era quello il tema che ponevo. Io ho sollevato una questione del tutto diversa. E cioè che di fronte a quella statistica che dovrebbe rappresentare la priorità di un’azione di governo, l’attuale maggioranza gialloverde di cui la Lega è azionista ha tagliato le risorse per il diritto allo studio. Dunque mi limitavo a cogliere una contraddizione tra la propaganda della Lega (anche in Sardegna) e la totale inefficacia della sua politica concreta».
Mah, i gialloverdi sono al governo da poco più di un anno e il fatto che in Sardegna il 33% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni non finiscono le secondarie è antecedente ai tagli operati dal governo. Non sembra che Cuperlo si sia espresso male: sembra che abbia scelto un argomento che non regge e che ora tenti di arrampicarsi su uno specchio che però è andato in frantumi per l’esserci andato a sbattere contro.

lunedì 27 maggio 2019

#Salviniscappa


Erano Europee, ma, almeno qui in Italia, in gioco era tesi che il leghismo fosse fascismo, e dunque in campo si scendeva da fascisti consapevoli, da fascisti inconsapevoli, da poverignavi che «il fascismo non lo vedo, dovè?» o da antifascisti comme il faut.
Erano solidi gli argomenti a sostegno della tesi? Qualunque fosse linterpretazione del fascismo presa a riferimento, la tesi non reggeva, al fascismo mancava sempre qualcosa di essenziale, senza la quale fascismo non era, ma ovviamente parlo delle interpretazioni serie, anzi seriose, quelle prodotte in sede storiografica.
Sul modello del «fascismo eterno», però, la tesi poteva reggere, perché, parafrasando Umberto Eco («il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista»), Mussolini era in Salvini già nel sentirlo dire «tanti nemici, tanto onore».
Assumendo il mandato allegato a questo modello («il nostro dovere è di smascherarlo [questo fascismo] e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme»), chi aveva a cuore la tesi che la storia si stesse ripetendo ha dato il meglio: «ha detto pure “chi si ferma è perduto”», «si è affacciato dallo stesso balcone da cui si affacciò Mussolini», «#lammerda non ha onorato il 25 aprile», ecc.
Dal canto suo, Salvini ha lasciato fare. Di più, ha offerto la sua sfacciata parodia di fascismo-movimento a un’altrettale parodia di Biennio Rosso («l’Italia di Giolitti è morta, largo al proletariato!», centri sociali in piazza e bottegai terrorizzati ad abbassare le serrande), alternandola a quella di fascismo-regime, che trovava pronta quella di Resistenza («fuori i 49 milioni dell’oro di Dongo, dove li hai messi?», «appendetelo a testa in giù, tra la Verdini e il Giorgetti!»).
Come nel ’19-’22 e nel 43’-45, non c’era alternativa, almeno per chi sosteneva la tesi: «[quel] modo di pensare e di sentire, [quella] serie di abitudini culturali, [quella] nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni», l’Ur-Fascismo di Umberto Eco, incorniciava a meraviglia la «dittatura terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario», il fascismo del compagno Dimitrov, quello che concedeva il bollino di antifascista doc solo a ogni sincero anticapitalista, sicché gli altri, i sedicenti antifascisti, gli antifascisti farlocchi perché non comunisti, sostanzialmente erano anch’essi «nemici», anche se il compagno Togliatti si erano limitato a definirli «avversari» (Corso sugli avversari, 1935).
Simul stabunt, simul cadent, era destino che alla crisi dell’egemonia culturale che accreditava ai comunisti il solo e vero antifascismo seguisse anche la crisi di quell’antifascismo tutto strumentale alla loro causa anticapitalista, mentre quello farlocco, quello di chiunque comunista non fosse, era già stato delegittimato per tempo, lungo decenni in cui «fascista» era l’epiteto affibbiato, senza pietà e senza distinguo, a missini e democristiani, a socialdemocratici e liberali, e poi ovviamente a Craxi, a Berlusconi e a Renzi. Si parva licet, una volta me lo beccai anch’io. Era il ’77, in un’assemblea m’ero azzardato a dire che il «27 politico» fosse una stronzata.  
E qui, a mo’ di intermezzo, penso caschi bene un inciso.

Chi ha l’add-content di Malvino nel suo feed-reader può legger lì per intero ogni mio post, è una decisione mai venuta meno in questi quindici anni di blogging, sei sul Cannocchiale (2004-2010) e nove qui, su Blogger (2010-2019), perché lasciare lì solo tre righe e tre puntini di sospensione mi è sempre parso fosse una forma di adescamento simile a quello della puttana che si sente principessa e confida che qualcuno raccolga il fazzoletto che ha lasciato cadere a terra dietro di sé sul marciapiedi.
Questa scelta, però, ha avuto un costo: nel feed-reader resta il testo licenziato al mio Invia, talvolta cliccato al posto di Salva, come è accaduto con O moesta senectus! (24.5.2019), che pensavo di aver lasciato in bozza. Poco male in casi come questi, ma poi ci sono quelli assai più imbarazzanti nei quali il feed-reader mi inchioda ad un refuso, ad una svista. Accade che ne accorga quasi subito, più spesso che me lo facciano notare, corregga il testo, ma ecco che due o tre giorni dopo, a volte anche una settimana dopo, arriva immancabile il commento di chi rimartella sul chiodo da cui pensavo d’essermi schiodato: «Guarda che a “populismo” manca la “s”». Che fare? Di solito pubblico il commento e ringrazio, ma dentro di me il permaloso protesta: «Eccheccazzo, sai come funzionano i feed-reader: visto che per lasciarmi questo commento hai giocoforza sotto il naso il post, vuoi controllare prima se per caso la “s” l’ho già messa?».
Ma poi c’è pure il caso in cui nel testo sul feed-reader resta il lapsus che rivela il non detto, quasi sempre indicibile. E questo è accaduto col post senza titolo del 19 maggio, dove all’ultimo capoverso m’è scappato un «traditori» che neanche un minuto dopo ho tolto per metterci un «nemici»: troppo tardi, sul feed-reader restava il «traditori», cui seguiva un «della classe operaia, in quanto liberaldemocratici».
Beccato: rigettavo l’imputazione di «nemico», «traditore» eventualmente sì, ma solo perché alle gloriose avanguardie della classe operaia rammentavo «la natura socialistoide del mussolinismo», a insinuare che certo socialismo è sempre un po’ fascista. Mi aspettavo di doverla pagar cara, ma Olympe de Gouges, che bacchetta sempre con affettuosa severità ogni mia bestemmia anticomunista, era insolitamente indulgente: «Fu immarcescibilmente anche questo, ideologicamente, ma sul piano sostanziale fu altro: senza i danè degli industriali e degli agrari, senza l’appoggio dell’establishment statuale e monarchico, dove sarebbe andato il Benito Amilcare?».
Il sollievo per l’essermela cavata a buon prezzo, m’ha fatto tacere, ma avrei voluto dirle: «Ancora con questa storia degli industriali e degli agrari? Il fascismo fu fenomeno di massa, reclutò un popolo intero: davvero pensi di poterlo liquidare come cane da guardia del capitale? Ma hai letto il Löwenthal?».
Ecco: «La concentrazione di tutti quelli che abbandonano i partiti e le organizzazioni, in primo luogo perché i loro interessi materiali per lo Stato superano o sostituiscono temporaneamente il loro interesse produttivo di classe, e poi perché le organizzazioni non sono più in grado di imporre l’interesse di classe stesso; la concentrazione dell’agricoltura contro l’industria, del trust dell’acciaio contro i sindacati industriali, dei debitori contro i creditori, dei disoccupati contro gli occupati, dei fautori dell’autarchia contro i fautori dell’economia mondiale – tutto questo si attua in un nuovo partito di massa, rivolto solo al potere politico: il partito fascista. Così si spiega come questo partito recluti i suoi aderenti in tutte le classi e come determinati ceti vi siano rappresentati e ne formino il nucleo, ceti che sono definiti con l’imbarazzato termine di ceti medi. La borghesia vi è rappresentata, ma si tratta della borghesia indebitata, bisognosa di sostegno; il ceto operaio vi è rappresentato, ma si tratta di disoccupati permanenti, incapaci di lotta, concentrati nelle zone povere; vi affluisce la piccola borghesia cittadina, ma quella andata in rovina; vi vengono inclusi i possidenti, ma solo quelli spossessati dall’inflazione; vi si trovano ufficiali e intellettuali, ma si tratta di ufficiali congedati e di intellettuali falliti. Questi sono i nuclei del movimento, che ha il carattere di una vera comunità di falliti, e questo gli permette anche di estendersi, parallelamente alla crisi e al di là di questi nuclei centrali, in tutte le classi, perché con tutte è socialmente concatenato. […] Basandosi su una corrente ideologica di massa, che di fatto trascina anche l’ala borghese reazionaria, senza essere compromesso dal suo aperto carattere di rappresentante di determinati interessi, diventando sempre più il punto su cui si concentrano tutte le speranze, sempre in grado di denunciare la politica d’interessi della borghesia e i resti dell’economia di partito nella coalizione [di governo] come le cause di insufficienti progressi, il partito fascista trova rapidamente la strada verso il colpo di stato, che rappresenta la vera rottura col sistema. A questo punto esso si impossessa senza riserve dell’apparato statale...».
Basta, cara Olympe, ad aprire gli occhi sul fatto che il fascismo ha le sue «ragioni» ben oltre «i danè degli industriali e degli agrari»? Un po’ in ritardo lo capì pure Togliatti e, a modo suo, cercò di metterci una toppa con l’Appello ai fratelli in camicia nera del ’36. Troppo tardi, le «ragioni» del fascismo dovevano essere comprese prima, quando la fregola dell’immancabile e imminente rivoluzione rossa obnubilava l’analisi dell’avanguardia della classe operaia, tant’è che ancora nel ’24 Gramsci dava il fascismo per morto e con lui «il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati». Ora come allora, ammesso e non concesso che il leghismo sia fascismo, stramaledetta la profezia che – insieme – non ci coglie, ma si autoinvera. Fine dell’intermezzo.

Hic stantibus rebus, non restava altro che attendere la risposta degli aventi diritto al voto a queste Europee, e quella – qui la frase suoni un po’ nasale, come da speaker dell’Eiar – all’alba di quest’oggi si è avuta schietta e fiera: il fascismo è al potere, la parodia ci ha preso gusto, chissà non provi a far sul serio.
Con ciò dovremmo rassegnarci al fatto che di conseguenza il paese è fascista? Non sia mai. Saldi nella convinzione che il capitalismo è all’ennesima crisi, anzi, è a una crisi che anche stavolta è quasi certamente quella fatale, e che, come sempre, quando è in crisi, anche stavolta stia dando fondo alla sua intrinseca malvagità, mandando sulla scena un demagogo bravo a stordire tanta brava gente, altrimenti pronta alla rivoluzione, ma che la storia non possa che volgere ineluttabilmente alla beata società senza classi e senza partiti, «ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni», e che chi non ci sta si autodenuncia come «nemico» dell’umanità, con cui non si può perder tempo a dialogare – saldi in questa articolatissima convinzione, metà purissima fede e metà indefettibile scienza – ce n’è da lottare, eccome.
Cominciare col cercare di capire dove si è sbagliato? Macché, l’avanguardia della classe operaia non sbaglia mai. 9.153.638 voti di coglioni? E che importa, c’è un 44% di astenuti che cela formidabili «riserve di energia politica», e che ci vuole a farla tutta nostra? Non vedi? Il leghismo è già morto, e #Salviniscappa, e dietro di lui scappano pure quei semileghisti di Bonino, Calenda, Zingaretti e Fratoianni. Prendi la mazza, infila il casco, ché andiamo in piazza a sfondare qualche vetrina e a farci manganellare dalla Polizia, vedrai che gli astenuti ci verranno dietro.

venerdì 24 maggio 2019

O moesta senectus!



Translate Google, saprete, consente di tradurre un testo da una lingua a un’altra delle 103 che elenca nella sua homepage, tra le quali trovate pure il Malgascio, il Tagiko e l’Uzbeco, l’Esperanto, il Maori e il Punjabi, ma non il Pretenzioso e il Troglodita, il che è un vero peccato, perché basterebbero due click per constatare quanto i pomposi pipponi che Ferrara ci ha inflitto per anni corrispondano in tutto e per tutto ai cupi rutti che oggi ci infligge Salvini: lingue diversema idem sentire, a piacere, su famiglia tradizionale e declino demografico, multiculturalismo e politicamente corretto, islam e radici cristiane, «abbasso la droga!» e «giù le tasse!», la magistratura che fa politica e la Costituzione un po’ troppo comunista. C’è che però Ferrara riusciva a tirarsi dietro solo due dozzine di disadattati, mentre Salvini catalizza tra un quarto e un terzo del paese. Tutta colpa della lingua utilizzata, perché quello italiano è un popolo alla buona, così, se per dire che sei contro il matrimonio gay, citi il Simposio di Platone, il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani e la Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali del cardinal Ratzinger, non puoi aspettarti l’ovazione che invece puoi essere sicuro ottieni con un bel «cazzo in culo non fa figlio, solo sugo di coniglio». A un popolo così sai quanto gliene può fregare che la religio che proponi ad instrumentum regni non è depositum fidei ma dimensione etico-estetica, collante comunitario, retaggio di cultura e gusto: guarda quanti rosari pendono dallo specchietto retrovisore delle utilitarie parcheggiate sotto casa, calcola che neppure il 5% di chi le guida saprebbe recitarti per intero un Pater noster dall’inizio alla fine, così capisci che il cattolicesimo puoi proporlo solo come feticcio, perché come feticcio funziona, non come milieu esistenziale. Poi c’è che Ferrara è venuto prima, ma dalla sua nicchietta non è riuscito mai ad uscire, un Crippa a preparargli la tisana e un Cerasa a porgergli il portapillole, e ora ecco che arriva questo zotico, incolto, irsuto e gradasso, e dai balconi gli piovono petali di rosa, sbarbine gli strusciano le tettine sulla panza, giovanottoni palestrati lo chiamano «capitano», e ingozza tutto il bendidio di lipidi e carboidrati che a te, dopo quel mezzo coccolone, hanno vietato... Un pizzico d’invidia, un velo di risentimento, via, ci sta. E allora fiato al trombone: «I cattolici democratici ci esorcizzavano e scomunicavano come una nuova Action française, e attribuivano oscure trame fra trono e altare alla ricercata “rilevanza” ruiniana di una fede capace di ragione, e ora si ritrovano sbertucciati sulla pubblica piazza, e fischiati, da presunti cristiani devoti, in realtà feticisti e ubriachi, che smerciano in politica le litanie dei santi sul palco patibolare di una strana internazionale nazionalista che porta la mozzetta del cardinale Burke» (Il Foglio, 21.5.2019). O moesta senectus, povero Ferrara!