sabato 18 luglio 2015

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I. Andando per la sessantina, mi costa sempre più fatica tollerare la follia del mondo. Uso il gerundio per attenuare il nesso di causalità, non voglio dar da intendere che alla relazione io assegni la cogenza di una legge di natura: parlo solo per me, né mi sfugge che col passar degli anni, al contrario, di solito si diventi più tolleranti verso il mondo. Per me è accaduto tutto il contrario, ma «fatica», «tolleranza», «follia», «mondo» sono termini estremamente ambigui e può darsi che nel circostanziarne il senso io riesca a spiegarmi meglio, dunque a chiarire lo stato d’animo che informa l’affermazione con la quale ho aperto questa chiacchierata.
Comincerei dal «mondo», che intendo come «totalità dei fatti, non delle cose» (Tractatus logico-philosophicus, 1.1), con le quali, d’altronde, ho sempre avuto un buon rapporto. È che «loggetto è semplice» (ibidem, 2.02) e «la [sua] sostanza […] sussiste indipendentemente da ciò che accade» (ibidem, 2.024): non così per il fatto, «la [cui] struttura […] consta delle strutture degli stati di cose» (ibidem, 2.034), e del quale, anche se non volessimo, non possiamo farci che un’immagine, la quale ne «presenta la situazione nello spazio logico» (ibidem, 2.11). A differenza della cosa, insomma, il fatto deve necessariamente darsi situazione in uno spazio logico, altrimenti non può che segnalare l’illogicità del mondo per quella porzione di cui ne è parte. Bene, direi che, andando per la sessantina, vedo crescere a dismisura la quantità di fatti la cui rappresentazione è irrealizzabile in uno spazio entro il quale vigano le norme della logica, che poi sono le stesse che informano le leggi della retta argomentazione. In altri termini, il mondo le rifiuta, non sa che farsene, anzi sembra compiacersi dell’infrangerle, e così rovina, ma sembra compiacersi anche di questo. 
Semplice, allora, spiegare cosa intenda per «follia del mondo»: se «limmagine logica dei fatti è il pensiero» (ibidem, 3) e se «il pensiero è la proposizione munita di senso» (ibidem, 4), sempre più spesso mi capita di non riuscire più a cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti. Non in tutte, in realtà, occorre che sia onesto, ma nella gran parte direi proprio di sì. Il mondo, insomma, non ragiona più. Va avanti così da un bel pezzo, quello che segna il punto di rottura è la presa d’atto che ogni tentativo di cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti, e cioè di poter pensare qualcosa di sensato riguardo al mondo, prima che inutile, è impossibile. Commentare i fatti, insomma, mi deprime, mi mortifica, mi avvilisce. Quale miglior rimedio del trascurarli?
Prevengo lobiezione di chi a questo punto voglia contestarmi chio non riesca a cogliere la logica dei fatti perché non in possesso degli strumenti adeguati: quali sarebbero – rispondo – questi strumenti adeguati, se non quelli che ho sempre utilizzato in passato, riuscendo con essi a trovare un senso nelle proposizioni che esprimevano la logica dei fatti in passato? Se non sono più adeguati, devessere cambiato qualcosa nella natura dei fatti, la cui immagine logica – e qui mi pare che linferenza sia ampiamente motivata – rifugga dal darsi proposizioni munite di senso. Nulla è cambiato in me, è il «mondo» ad essere cambiato. Se devo rimproverarmi qualcosa, insomma, è il non essere stato in grado, da un certo punto in poi, di costruire un artificio retorico che surrogasse uno spazio logico entro il quale i fatti potessero trovare un surrogato di senso. Aggiungo che da un certo punto in poi ho rinunciato anche a provarci, e forse qui sarà più chiaro il significato che intendo dare a «tolleranza» e a «fatica»: soffro un fastidio, un tremendo fastidio, al quale vado mettendo riparo col rifiuto di dare ogni sorta di attenzione alla «follia del mondo». E devo dire che funziona. 
Non mi si fraintenda: se non sono in grado di formulare una prognosi per questa «follia del mondo», la sua diagnosi è stata accurata e in buona misura me ne è chiara letiopatogenesi. In modo frammentario, certo, e senza metterci quel tanto di pedanteria che forse sarebbe stata necessaria, in dodici anni di scrittura pubblica mi pare di aver illustrato a sufficienza le cause e i modi che hanno portato i fatti a diventare irrappresentabili in quello «spazio logico» nel quale, finché hanno potuto, si sono dati immagine in forma di «proposizione munita di senso». Tornare alla scrittura privata segna la decisione di archiviare il caso clinico della «follia del mondo», per dedicarmi a questioni di nessun interesse pubblico, chessò – dico per fare qualche esempio sfogliando il mio taccuino delle ultime settimane – i busti di Messerschmidt, la claritas e la defectio in Gioacchino da Fiore, quanto di Händel ci sia in Sergent Pepper, temi inopportuni sulle pagine di un blog nato come diario civile. Che dunque è il caso venga chiuso.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.   


II. Non sono mai riuscito a capire che cazzo di linguaggio sarebbe quello che dà struttura allinconscio, ma da qualche tempo non me ne faccio più un problema, perché ho il sospetto che questa sia una delle tante frasi uscite di bocca a Lacan senza star troppo a pensarci abbastanza prima, per poi farlo fin troppo dopo. Il sospetto è che fosse vittima anche lui del difettaccio che deve essere stato relativamente comune ai tempi in cui residuava ancora qualcosa della «mente bicamerale» (cfr. Julian Jaynes) e si preferiva non correggere lo sproposito scappato di penna sul papiro, che daltronde era materiale assai costoso, e tollerava male le cancellature. Non so più dove possa essersi ficcato, ma una trentina danni fa raccolsi in uno studiolo due o tre dozzine di passi tratti per lo più da testi greci scritti tra il I e il III secolo, sui quali si sono scervellate invano intere generazioni, provando a ipotizzare per ciascuno la versione piana, perfettamente comprensibile, di colpo diventata impenetrabile per la decisione dellautore di non procedere a correggere un refuso, spesso banale, per rivolversi a dargli un senso a posteriori, spesso con esiti infelici per la coerenza interna al testo, ma, via, i posteri si arrangino, tanto l’oscurità implica profondità, e l’inconscio non sbaglia mai: scendano, i posteri, e si perdano, chissà che non finiscano per trovare l’introvabile. Ecco, invece di «inconscio» sarebbe stato meglio dire «spirito», ma, insomma, ci siamo capiti...
Divago, maledizione, divago sempre. Partivo con l’intenzione di dire che il linguaggio – e so che c’è da storcere il muso – non so concepirlo altrimenti che in forma di scrittura. Anche quando è orale? Anche. Ma la scrittura non viene dopo? Certo, ma nella forma orale il linguaggio regge solo se è adeguatamente traducibile in scrittura, sennò è ciancia, rumore, eventualmente musica, ma non ha niente a che vedere con la costruzione di un senso. Solo nella frase scritta, o che può esser scritta senza far perdere nulla di quanto esprime nella sua forma orale, se qualcosa esprime, il pensiero può darsi – almeno tentare – dignità di linguaggio. Ma forse sbaglio a dire «dignità»: meglio «struttura». E qui chiudo il cerchio aperto con l’incipit: il pensiero non può fare a meno di una struttura, il linguaggio gliene dà una che nella forma scritta (per meglio dire: in qualsivoglia forma pianamente traducibile in un testo che si dia le norme della scrittura) trova la sola possibilità di offrirsi a una verifica. Intendiamoci: non che la frase scritta sia immune di per sé da ciò che rende così spesso fatua, se non ladra o assassina, la frase orale, ma è che, a differenza di quest’ultima, dà piena disponibilità di saggiare la struttura attraverso la quale il pensiero può esprimersi...
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).

5 commenti:

  1. Io spero che un domani, per quanto lontano, quei taccuini possano vedere la pubblicazione. Credo possano essere una preziosa cosa per i posteri.

    Quanto a me la ringrazio per queste pagine che sono state quotidianamente molto importanti per la mia persona e, recentemente, utili nell'indirizzarmi in un lavoro editoriale.

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  2. La follia del mondo è, credo, il suo stato naturale, nonché quello umanamente auspicabile.

    È la follia degli uomini che crede di poter porre ordine nel mondo. Solo in un mondo folle — in cui tanti 'ordini' si intrecciano, scontrano, ignorano — è possibile che vi sia per ognuno un ordine soggettivamente ragionevole in cui prosperare.

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  3. Sì, però il rifiuto della follia del mondo, il trascurare di commentare i fatti, l'incapacità di trovargli uno spazio logico, la depressione, la mortificazione, l'avvilimento puoi comunicarceli a noi estranei. Ma come fai a conciliare tutto questo con la paternità? Non puoi scaricare su un bambino la follia del mondo.
    Non sono fatti miei, ovvio, ma sono curioso. E mi piace consigliarti un libro che mi è piaciuto molto. Luigi Zoja - Il gesto di Ettore, preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre - Bollati Boringhieri

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    1. Letto. Bello, è piaciuto anche a me. Non scarico la follia del mondo su chicchessia: mi limito a evitare l'attualità.

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