Giusto
sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente
discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla
Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50
(nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così
recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà
fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza
all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo
dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare
all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in
buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro
Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non
solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione
dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione,
come diritto costituzionale, quello della resistenza e della
ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo
periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere
trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale
che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici
e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere
riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però
è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di
resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto
un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente
espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni
cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le
libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e
l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un
dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse
dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della
collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una
conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente
preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della
violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla
Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato
la Repubblica».
Ora,
ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non
era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza
all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero
responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri
termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una
sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei
rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il
concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro
Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato
nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto
nell’interesse della collettività». Non è difficile
cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel
comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della
Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità
materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni
grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa
possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie
implicazioni.
Le
esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma
si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il
cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario
che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto
del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere
giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il
diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere
giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di
cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura
il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte
ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […]
Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami
tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so
concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio
modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il
cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai
diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […]
Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera
in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella
Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla
Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla
Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche
necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al
diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi
necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza
sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la
possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la
possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino
avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro
i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non
fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti
questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente,
noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra
che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne
chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà
della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere,
potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate
applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine
sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a
salvaguardare».
La
Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi la
vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a
prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non
stupisce, dunque, giusto sessantasei
anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La
violenza non è, non può mai essere di sinistra» – la Repubblica,
23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al
balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il
sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è
il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi
il massimo di radicalità si può esprimere solo con la
nonviolenza – diceva Fausto
Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della
politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004).
Quell’«oggi» ci aveva tanto intenerito: era
una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della
violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo
dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura
necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la
violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico
era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I
poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti
garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava
di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di
resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di
sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è
inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto
di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E
come?
La
legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al
mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal
basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo
indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché
espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori
e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel
secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la
convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche
sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo
caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum:
tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso,
lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo
che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a
quella altrui.
Non è
difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla
legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio.
Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica,
l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il
vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione
di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario
adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per
consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È
per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né
è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più
forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole,
premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo
capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un
lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto
intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in
apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello
di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo
è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro,
la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto
che la democrazia è stata tradita.