giovedì 16 febbraio 2012

“Mi permetto di dire”


a Giovanni Fontana

Lasciamo perdere chi l’abbia scritto e rimaniamo al testo. Il nostro scrive: “La prima serata di Sanremo ha fatto i record di ascolti, e mi permetto di dire che me l’ero immaginato”. Volendo, potreste già buttarvi a indovinare: c’è quella virgola superflua che è una mania del nostro, ma soprattutto c’è tutta la sua spocchia. La prima serata di Sanremo ha sempre fatto record di ascolti, anche quando l’edizione si rivelava particolarmente infelice e lo share crollava nelle serate successive. Ci voleva questo grande intuito per immaginare che anche quest’anno sarebbe stato così? Non proprio, vero? E tuttavia il nostro ci tiene a mettersi in posa da uomo di gran fiuto. Lascio a voi il giudizio su quel “mi permetto di dire”. A me suona fastidioso come un patetico tentativo di falsa modestia. Trattandosi di una previsione scontata, direi che il patetico stinge nel ridicolo. Ma può darsi che io esageri e che la formula sia solo un tic. Tuttavia, dite, i tic sono psicologicamente neutri? Io non penso. Ma andiamo avanti.
“Ieri sera, vedendone pochi sprazzi e leggendo i feedback su Twitter, capivo sì che era uno spettacolo straordinariamente deprimente e imbarazzante, ma capivo anche che lo stavano guardando quasi tutti. E mi veniva da pensare, dei miei amici quelli con l’alibi «Sanremo fa così schifo che va visto», e che ora twittavano che non ci potevano credere, a quanto faceva schifo; mi veniva da pensare: ma non guardiamo la tv praticamente mai, l’abbiamo abbandonata con soddisfazione a un pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità, e poi quando la accendiamo ci meravigliamo che quel che troviamo sia di totale mediocrità? Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?”.
Lo stavano guardando quasi tutti. Lui no, seguiva a sprazzi. Anche qui una virgola superfla – tra “mi veniva da pensare” e “dei miei amici” – e altra spocchia. Ma c’è molto altro ancora. Direi che ci troviamo dinanzi a un bozzetto. C’è la plebe, il “pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità”. Poi c’è l’eletta schiera dei suoi amici – sarebbe meglio dire degli affiliati al clan – che “non guard[ano] la tv praticamente mai”. Non “mai”: “praticamente mai”. Nella “totale mediocrità” dev’esserci qualche eccezione, chessò, Le invasioni barbariche o i siparietti di Bordone nel salottino della Cucciari? Sì, probabilmente quella è roba che si salva, tutto il resto è cacca.
Bene, nel bel mezzo di questa eletta schiera di amici che guarda il Festival di Sanremo perché “fa così schifo che va visto” – si direbbe che si infliggano questa tortura per una sorta di missione sociologica, ma ci viene suggerito che questo sia solo un “alibi”, sarà che sono stupidi o masochisti o chissà cosa – ecco che svetta lui. Sanremo fa schifo anche a lui, ma la sua missione sociologica è di taglio superiore: non guarda il Festival, lo segue a sprazzi e intanto studia i feedback. Siamo dinanzi all’eccellenza della critica, via. Si trattasse di un film di merda, il nostro andrebbe al cinema lo stesso, si siederebbe con le spalle allo schermo e prenderebbe appunti sulle reazioni del pubblico. Non già del pubblico minuto, peraltro, al quale quella merda probabilmente piace pure: il nostro studia le reazioni di chi presentiva che il film fosse di merda e al cinema è andato lo stesso, proprio come ci è andato il nostro, ma sedendosi nel verso giusto, che poi è quello sbagliato. Qui sta lo scarto di superiorità che si rivela nel nostro.
Non fosse evidente, c’è la prova: “Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?”. Si potrebbe obiettare che sia del tutto fuori luogo contrapporre a un festival di canzonette la sceneggiatura di un lungometraggio o di un serial, ma è evidente che quei due nomi non caschino a caso: stanno lì a certificare che il nostro ha un sincero orripilamento per il genere nazionalpopolare. Si tratta della caratteristica reazione dell’adolescente che per prendere le distanze da ciò che detesta ha bisogno di fare almeno un cenno ai modelli che ama e che dunque non si limiterà mai a dire “Albano mi fa schifo”, ma aggiungerà sempre “a me piacciono i Baustelle”.
A parte, si porrebbe una questioncella abbastanza curiosa: il Festival di Sanremo fa schifo e Il Post ci manda un inviato? “Chi ci aiuta a trovare una stanza a Sanremo per il festival vince una settimana di retweet da parte del Post” (17:17 - 7 Feb 12): una settimana di retweet da parte del Post, mica cazzi, di più si poteva offrire solo un slip della signora Bignardi con dedica autografa. Tanto interesse per uno schifo ampiamente previsto? Bah.
Bene, adesso è il momento di dare uno sguardo alle conclusioni piovute sul taccuino del nostro al termine di questo suo studio, tutto di sponda. Qui le cose si complicano, ma solo in apparenza: “Questo è il disastro dei contenuti editoriali italiani, dall’informazione all’«intrattenimento»: tutti si sono dedicati per anni a battaglie politiche sull’«indipendenza», sulla «libertà», sul «pluralismo», come se ci fossero i cattivi da una parte e i buoni sconfitti dall’altro. Protestavamo contro l’eliminazione di Santoro e accettavamo le trasmissioni pomeridiane, Miss Italia e la povertà di Porta a porta. Protestavamo contro gli editoriali di Minzolini ma ci limitavamo a sorridere dei servizi sui cagnolini o i banchetti di natale al telegiornale. E intanto infatti il disastro vero era lo scadimento della qualità delle cose da ogni parte, compresa quella dei «buoni», il fine che giustificava i mezzi, l’informazione fatta male da ogni parte e l’intrattenimento idem, con poche eccezioni. Là fuori è pieno di combattivi difensori della democrazia e della libertà che fanno le cose male, con metodi e risultati pessimi e diseducazione di tutti. Con la straordinaria sanzione di ieri sera: quando i temi presunti della difesa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia popolare sono diventati oggetto del peggiore prodotto di intrattenimento televisivo mai visto: scopa. Nel senso del gioco di carte. E noi tutti lì a guardare e dire che schifo”
Non si capisce molto, vero? Però lascia un retrogusto di risentimento, no? Tutto diventa chiaro, però, se facciamo cadere il velo e diamo un nome all’autore del testo che abbiamo fin qui letto: sapendo che si tratta di Luca Sofri, la traduzione va in automatico. Siamo dinanzi a un atto d’accusa rivolto ai dinosauri del Pd: avevano un gran guru della comunicazione a disposizione e non gli hanno mai dato lo spazio che meritava. Voleva la direzione de l’Unità, voleva un programma su Raitre, qualche consulenza di quelle grasse e invece lo hanno trattato come un Adinolfi qualsiasi. Ditemi voi se non è normale che gli escano le virgole di troppo.

martedì 14 febbraio 2012

Cara carta (Chiacchiere errabonde)


“Ormai non sono più visioni sul futuro, ma numeri che parlano chiaro: le vendite dei libri di carta sono in calo, e il ricorso alla stampa tipografica tradizionale è sempre più insostenibile. Per converso la stampa digitale ha fatto passi da gigante, in termini di qualità e flessibilità, ed è una realtà in fortissima crescita”. Così scrive Antonio Tombolini, ma non è l’introduzione a un saggio: pubblicizza il suo Simplicissimus Book Maker. Volentieri mi presto alla marchetta, peraltro non richiesta, anche se con un e-book in mano non m’immagino nemmeno. Oddio, una dozzina d’anni fa ero convinto che non avrei mai comprato un pc, tanto meno che da carta e penna sarei passato a tastiera e mouse, ma l’idea che un libro possa essere fatto altro che di carta e inchiostro mi dà le vertigini, preferisco non pensare al fatto che mi possa capitare anche questo. In realtà, poi, anche non pensandoci, mi rendo conto, per esempio, che non compro più L’Osservatore Romano ma lo leggo on line da almeno tre anni. Cioè, ogni tanto lo compro, ma è solo per sentire quella carta sotto i polpastrelli, perché quello c’è scritto l’ho già letto la sera prima. Bah, sarà che invecchio, ma mi ritrovo con un sacco di contraddizioni e nessuna voglia di risolverle. Cara carta, cara vecchia carta, sei l’ultima che pensavo potessi tradire, ma ogni tanto capita, mi dispiace, e lo rifaccio. Dispiacendomene, ti giuro, e senza mai cavarne la soddisfazione che mi hai dato in tanti anni, ma poi ricapita, e mi ridispiace.
Vabbe’, divagavo. Ma neanche tanto. È che Antonio Tombolini mi offre lo spunto per due o tre pensierini sfusi: sulle “visioni del futuro”, sulla crisi della “stampa tipografica tradizionale” e su cosa sarà della cara vecchia carta.

Quand’ero un bimbetto, le scommesse della fantascienza erano assai ottimistiche. Segno del tempi: s’era in pieno boom e il futuro non poteva essere immaginato che roseo. Ricordo che le cose cominciarono a guastarsi sul finire degli anni sessanta e Il medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca (1971) segnò il cambiamento di umore. A rileggerlo, tuttavia, si scopre che il pessimismo aveva cominciato a serpeggiare da almeno una decina d’anni prima, ma in circoli ristretti, tra analisti guardati con sospetto, forse considerati pure un po’ matti. Ignoti al grande pubblico, comunque, come lo sono i matti che prevedono il rinascimento prossimo venturo. Miserie dello storicismo, ci cascano anche i migliori, quelli che, se non ci azzeccano, ci vanno assai vicino.
In esergo riportava una citazione dall’Apocalisse di Giovanni (20, 1-5) ed andava subito giù duro, il libricino di Vacca: “Mentre scrivo mancano trent’anni al compimento del secondo millennio della nostra era e, per ragioni diverse da quelle di mille anni fa, molti si attendono a breve scadenza una tragica catastrofe totale. I profeti di oggi non dicono che dobbiamo temere angeli, draghi e abissi, ma che dobbiamo temere l’olocausto nucleare, la sovrapopolazione, l’inquinamento e il disastro ecologico”. Il clima era completamente mutato, anche piuttosto in fretta, devo dire, perché solo quattro o cinque anni prima un numero di Epoca prometteva un futuro mica male. Forse qualcuno avrebbe fatto fatica ad adattarsi ad una alimentazione tutta artificiale e in pillole, qualcuno avrebbe avuto un po’ di eczema per quelle tutine argentate così aderenti, modello Star Trek, ma per il resto non c’era troppo da lamentarsi: due o tre ore di lavoro a settimana, non di più; vacanze interstellari con grossi sconti per famiglie; case ipertecnologiche e robot tuttofare; energia a iosa e a gratis, grazie all’atomo; il Gerovital, poi, sarebbe stato mutuabile.
Né questo, né l’apocalisse, c’è da dire: un po’ e un po’, diciamo. Già una dozzina d’anni dopo, infatti, Ridley Scott avrebbe stravolto Philip Dick e in Blade runner, che è del 1982, avrebbe costruito un 1992 diverso da quello immaginato del 1968. Meno apocalittico, diciamo. È che siamo portati a immaginare il meglio sempre migliore di quel che poi in effetti sarà, e col peggio esageriamo anche di più. Ci facciamo prendere la mano, ecco.
Il libro di Vacca mi è ricapitato sotto mano in questi giorni e l’ho riletto, senza però riuscire a rievocare l’impressione che potesse avermi fatto quarant’anni fa. Una nota, appuntata a margine del passo che ho riportato, non mi ha aiutato, perché ambigua: “E questo libro si salverà?”, chiedevo. Non potevo certo prevedere l’invenzione degli e-book, ma lo stato in cui era ridotto il volume ha dato a quella nota il valore di una folgorazione: una bolla sulla quarta di copertina, pagine ingiallite, quasi friabili, e in gran parte staccate dalla costa, per la polverizzazione della colla. Un po’ distrutto dal tempo, un po’ no. Il supporto resisteva, diciamo. Così per quanto ho riletto: “Da molti segni appare che un tempo di fenomeni degenerativi è già cominciato…”. Ben detto: già da allora si cominciavano a produrre libri in materiale scadente, era l’inizio della crisi del cartaceo.

Non era iniziata male, anzi. La Bibbia di Johann Gutenberg, per dire, si mantiene ancora in ottimo stato. Altra carta, altro inchiostro, altro prezzo. Sfondo una porta aperta dicendo: un altro genere di lettore. 
Non era iniziata male, la storia, ma neanche benissimo. La gloria andò a Gutenberg, ma il merito era stato tutto del grande Panfilo. Chissà come gli girerebbero le palle a leggere, su Wikipedia, che è certo abbia usato i caratteri mobili 22 anni prima di Gutenberg, senza però riconoscergli alcun reale primato: sarebbero auspicabili ricerche negli Archivi di Stato di Venezia, Capodistria e Milano”, cincischiano. Ignorando che Antonio Coccio, detto il Sabellico (1436-1505), testimonia: Alle altre felicità del principato del doge Pasquale Malipiero si aggiunge che allora, per la prima volta, la maniera di stampare i libri fu trovata in Italia; quella invenzione stessa che si dice essere di un germano” (Storia veneta, 1486).
Testimonianza viziata da orgoglio campanilistico, si dirà. Si dirà che della Bibbia di Gutenberg ci sono giunti 16 esemplari e delle opere stampate dal Nostro nessuna. E questo è falso, perché ci rimane testimonianza del padre guardiano del convento di Capodistria, morto nel 1476: cita un Responsorio di SantAntonio da Padova stampato dal grande Panfilo nel periodo che soggiornò in quella città. Prove in abbondanza che vi soggiornò fino al 1446: quattro anni prima che a Magonza vedesse luce la Bibbia del germano”

Sarà stata carta di qualità peggiore, questo è tutto. Certo, una Bibbia si conserva con cura maggiore di un Responsorio. Sta di fatto che la crisi de Il Foglio ha preso ad avvitarsi con la infelice scelta di cambiare la carta sulla quale veniva stampato: stesse stronzate, ma sotto i polpastrelli si cominciò a sentirlo. 
La crisi del cartaceo prende piede dal trattar male la carta. Per esempio, vorresti farne una Bibbia in volgare ma la chiami il manifesto? Non può che finir male.

domenica 5 febbraio 2012

“Cinque cose per fare bella figura”

Diamo la qualifica di blog a siti web che non lo sono affatto e forse un po’ di chiarezza non guasterebbe. L’ho già detto, l’ho già detto, ma stavolta mi pare di avere un buon esempio da offrire per ripetermi, e mi ripeto: “Un «nanopublishing» è un blog? Un «corporate blog», un «blogames» o un «M-blog» sono blog? […] Le bacheche on line di personaggi pubblici (politici, uomini di spettacolo, giornalisti, ecc.) sono blog? A mio modesto avviso, no. Si tratta di «siti informatici» che fin troppo spesso non hanno neanche la buona grazia di fingersi «diario in rete». […] Prendo i primi 250 nella classifica di BlogBabel. Se solo depenno le vetrinette di azienda, i civettini di trasmissione televisiva e i siti web di vario vippume, scendono a 89. Se depenno pure i blog collettivi, che non ho mai capito perché ci ostiniamo a considerare blog quando sono imprese redazionali, arrivo a 31”.
L’esempio? Cade l’80° anniversario della nascita di François Truffaut e un blogger può scriverne o no. Se deciderà di scriverne, s’improvviserà critico cinematografico, con pipponi più o meno interessanti, o toglierà la museruola alla memoria, si lascerà andare alle emozioni che gli hanno procurato quei film oppure, perché no, butterà giù il suo perentorio “Adèle H. è una cagata pazzesca!”. Potrà decidere di non parlarne affatto, ovviamente. Perché il cinema non è fra i suoi interessi, perché Truffaut non gli pizzica le corde, perché odia gli anniversari. Oppure potrà limitarsi a postare uno spezzone da Youtube, una citazione da Les aventures d’Antoine Doinel, il solito laconico link che rimanda a Wikipedia.
Un blog che non è un blog, ma un giornalino in rete con l’ansia di non “bucare” ciò che un giornalone cartaceo non “bucherebbe” mai, farà come Il Post e riempirà il “buco” con una scheda di quelle che si leggevano sul retro dei vhs in allegato ai settimanali: a metà tra Wikipedia e il perfetto nulla, che è il luogo ideale dell’esserci per esserci. Non deve venir meno la missione, tuttavia. Parlo della missione informativa, naturalmente. Ecco, allora, che il coccodrillo di vecchia impagliatura diventa “una guida minima per iniziare”, “cinque cose per fare bella figura”, il bignamino essenziale per annuire come si deve quando nel salotto televisivo prende la parola il tuttologo di riferimento, naturalmente della scuderia Sofri-Bignardi, la ditta che si appresta a ereditare i fasti che furono della ditta Costanzo-De Filippi.

venerdì 3 febbraio 2012

Qualche anno fa, ci avrei perso del tempo

Ho telefonato al vecchio e gli ho chiesto: “Ma quella cosa della scomunica a Fidel Castro era solo una voce che girava o davvero…?”. Lo interrogo sempre più raramente su faccende di questo genere, perché ormai ha 85 anni e a quell’età la memoria, si sa, smette d’essere fedele. Qui mio padre m’è sembrato non aver dubbi: “Ma quale voce? Ne parlarono tutti i giornali. Roncalli disse che Fidel sarebbe andato all’inferno”.
A quei tempi, nel 1962, era ancora nel Pci (sarebbe stato espulso qualche anno più tardi, per aver detto che a Praga s’era consumata una porcata) e da bravo militante si teneva aggiornatissimo sull’interno e sull’estero. Rammentavo una discussione piuttosto accesa tra i suoi amici, al tavolino di un bar – avrò avuto sette o otto anni, quindi sarà stato nel 1964 o nel 1965, certamente d’estate – e avevo nitido il ricordo di un tale che, obiettando alla vulgata del “papa buono”, proprio in relazione alla scomunica di Castro, diceva: “Giovanni XXIII e Pio XII, stessa merda!”. 
Volevo una conferma a quanto mi era noto da più fonti e su cui non avevo avuto dubbi fino alla lettura di Rosso Malpelo: “Palla gigantesca!” (Avvenire, 2.2.2012). Gianni Gennari smentisce che papa Roncalli abbia mai scomunicato Fidel Castro. Passi che sia riportato da Wikipedia e da Raistoria, ma mio padre può essere in errore?
In realtà, non c’era neanche bisogno che Giovanni XXIII scomunicasse Fidel Castro: nel 1962 era ancora vigente il decreto del 1949 col quale Pio XII scomunicava i comunisti, tutti. Non sarebbe mai stato revocato formalmente, decadendo implicitamente – secondo non unanime interpretazione – solo nel 1983, col nuovo Codice di Diritto Canonico. Tuttavia innumerevoli fonti riportano la notizia di questa scomunica, e con concordanza di data (3 gennaio 1962). Qualcuna fa cenno pure alla promessa della pena eterna, che ho pensato fosse un di più aggiunto da mio padre, e che probabilmente non sarà stata fatta da Roncalli in persona, ma da qualche zelante al seguito. E allora – chi ha ragione?
Qualche anno fa, ci avrei perso del tempo. 

giovedì 2 febbraio 2012

“Eminenza, faccia qualcosa!”

Il calo delle nascite è la più comune ossessione di chi ha deciso di non far figli e non c’è bisogno di essere psicologi per trovarne spiegazione. È tipica perciò dei chierici, che amano considerarsi padri dei figli altrui e che soffrono quando scarseggia prole fresca, ma è comune pure tra i laici che restano folgorati sulla via di Damasco dopo aver dissipato gli anni dell’età fertile in quell’estatica fissazione narcisistica che nella riproduzione vede e teme una fattispecie di amputazione.
Vera e propria mania, la crisi demografica. Per quelle ex femministe che abortivano con la stessa disinvoltura con la quale si schiacciavano i brufoletti e che poi son diventate pie figlie di Maria ed editorialiste di Avvenire. Per quei giovanottoni invecchiati male nella malata ricerca di un centro di gravità permanente – politico, culturale, esistenziale – che poi coincideva sempre col buco del culo di un potente, fino a quando il culo è diventato quello pontificio. Per quegli intellettualucci nevrastenici che hanno protratto l’adolescenza fin sulla soglia della senescenza, teorizzando che il capitalismo si procura forza-lavoro da chi non ha altra ricchezza che la propria prole e che far figli è fare il gioco delle multinazionali, peraltro incrementando l’inquinamento, per poi arrivare a trovare mica male l’“andate e moltiplicatevi”, facendosi accesi sostenitori del bonus bebè e del ritorno delle donne ai fornelli. Per preti d’ogni ordine e grado, ovviamente, perché il gregge dall’età media troppo alta dà poca lana e poco latte.
Provate a verificare: una dozzina di questi scassacazzi, presi a caso, raramente arriva a un totale di tre figli, che poi sarebbe il minimo che vorrebbero da ogni coppia. Guai, però, a obiettare: “Falli tu!”. Si offendono. Hanno fatto un’altra scelta di vita, loro. Hanno scelto di far figliare gli altri, esortandoli.

Doppia esortazione, nel taglio basso di pag. 12, oggi, su Avvenire, da parte di due eminenze di peso: il cardinal Bagnasco e il cardinal Caffarra. Nessun richiamo al solito Gen 22, 17: quasi solo Inps e geopolitica, con quale strisciatina di tiepido buonsenso. Ma dei due è il secondo che dà il meglio. D’altra parte, il Caffarra tenta da decenni di autopromuoversi come fine pensatore. In realtà, riciccia il personalismo wojtyliano di Persona e atto, ostinandosi a impreziosirlo col maldestro tecnicismo dell’eclettico che si dà a spericolate incursioni nella psicologia e nell’antropologia.
Per esempio, sulla “progressiva perdita del senso della differenza sessuale”, che è cifra del moderno come momento di liquefazione dei ruoli tradizionalmente codificati: “La difficoltà di riconoscere l’alterità nella sua differenza quale in modo archetipo si dà a vedere nel dismorfismo sessuale umano è un fattore decisivo per il cambiamento demografico. Ciò ha portato da una parte ad una progressiva omologazione del femminile e del maschile, e dall’altra a porre l’atto generativo dentro la sfera del privato. Un atto, quindi, che viene socialmente sotto-stimato. Come mi hanno confermato molte madri”.
Poverino, avrà voluto dire “dimorfismo” e gli è scappato “dismorfismo”. Forse intendeva dire “archetipico”, ma gli è venuto “archetipo”: poco male, via, ci siamo intesi.  Però s’è rifatto mettendo il trattino di sapore heideggeriano tra “sotto” e “stimato”: non è una volgare “sottostima”, quella della quale il momento riproduttivo è fatto oggetto, ma una “sotto-stima” e chi ha orecchio fine per intendere finemente intenda.
Ciliegina sulla torta tutta storta? “Come mi hanno confermato molte madri”. Quasi sembra di vederle, queste madri, sembra quasi di sentirle: “Eminenza, faccia qualcosa! Le nostre scopate hanno un valore sociale, lo dica forte, si faccia sentire!”.

mercoledì 1 febbraio 2012

Non è la fine del mondo

Ho smesso di leggere Il Foglio da poco più di tre mesi e ho spiegato il perché in un post dello scorso 20 ottobre, al quale rimando per non ripetermi. Per l’attenzione che questo blog ha sempre dedicato al giornale di Giuliano Ferrara, l’ho considerato un atto dovuto. Vorrei solo rammentare che scrivevo: “Se qualcuno dei miei lettori mi invierà qualcosa pubblicato su Il Foglio sollecitandomi un commento, può darsi che vi butterò uno sguardo, ma non si offenda se non risponderò in pubblico, né in privato: vi dedicherò attenzione solo se davvero dovesse valere la pena”.
Da allora ho ricevuto una ventina di email di richieste in tal senso, ma nessun allegato mi è parso degno di un commento, fatta eccezione per uno sfregio di Marina Valensise alla memoria di Jacques Lacan. Se devo giudicare da quanto mi hanno segnalato i miei lettori in questi mesi, devo ribadire: “Il Foglio sembra aver esaurito il repertorio dei suoi trucchetti più sofisticati e non riesce che a produrne di meschini, tanto meschini che neanche vale più la pena di segnalarli… Nemmeno riesce più a fare incazzare, che pure può essere un buon motivo per continuare a leggere un giornale: prevale una sensazione di fastidio, mista a pena”.
Di nuovo c’è solo che tra ieri e oggi mi arrivano ben sei email che mi segnalano l’editoriale nel quale Giuliano Ferrara dà finalmente atto che il suo giornale è in crisi, dopo averlo negato tante volte, sempre baldanzosamente. Lo avevo già letto (Massimo Mantellini lo commentava due giorni fa con spietata lucidità), ma scriverne mi era parso superfluo. Qui finalmente mi decido a due righe, così rese doverose.

Lascio da parte lo specifico, preferisco tenermi sul generale, perché la crisi de Il Foglio è la crisi di tante altre testate che sono in edicola solo grazie al finanziamento pubblico, come Stefano Menichini ci dà modo di rammentare grazie a un suo intervento su Il Post, che si commenta da solo.
Preferisco dirlo a lui, piuttosto che a Giuliano Ferrara: non condivido le tue opinioni e difenderò sempre il tuo diritto di esprimerle, ma da nessuna parte nelle opere di Voltaire sta scritto che tu abbia il diritto di mangiare grazie alle tue opinioni e che a riempirti il piatto debba essere il contribuente. Se non riesci a fare delle tue opinioni un lavoro che ti dia da vivere, coltivalo come hobby e cambia mestiere. Soprattutto, non piagnucolare come se la chiusura de Il Foglio (ma stai pensando a quella di Europa, vero?) fosse la fine del mondo. Tuttal più è che Rutelli non riesce più ad assicurarti uno stipendio.

lunedì 30 gennaio 2012

Come non essere d’accordo?

“Nomi noti si applicano a fenomeni contingenti per incrementare il proprio stipendio e intrattenere le masse”: è il “bluff” della “filosofia pop”, quella dei Ferraris, dei Regazzoni, dei Galimberti, che “applicano dotte analisi alla cultura popolare”, cosa che una volta si faceva o con stile (Roland Barthes) o per scherzo (Umberto Eco), poi lo scherzo è stato preso sul serio e il rischio è ora di morire di noia magari senza stile sicché “dalla cosmologia siamo passati alla cosmetica dell’attualità, dove non conta che i concetti siano lucidi ma ben lucidati”.
Come non essere d’accordo? Lo scrive Edoardo Camurri (La Lettura - Corriere della Sera, 29.1.2012), laureato in filosofia teoretica con una tesi sulla contesa che Alexandre Kojève e Leo Strauss ingaggiarono sulla tirannide, e poi finito a condurre Mi manda Raitre, via Vanity Fair.

Semplice

In occasione della morte di Scalfaro ci si domanda per l’ennesima volta – con rinnovato stupore, vedo – come mai a Pannella venne in testa di proporre proprio lui alla Presidenza della Repubblica. Ovviamente è inutile chiedere a Pannella, così abituato a mentire a se stesso da incazzarsi se non lo si trova convincente.
Io credo di aver trovato una spiegazione che ha il solo difetto di essere assai semplice, troppo semplice per chi immagina che Pannella sia un tipo estremamente complicato. Non lo è affatto, anzi, una cozza ha psiche più complessa.

Ordunque, mancavano solo pochi mesi all’annunciata scadenza anticipata del settennato di Cossiga, quando…


sabato 28 gennaio 2012

Il Consiglio d’Europa, per Avvenire

È facile far confusione tra Consiglio Europeo, Consiglio dell’Unione Europea e Consiglio d’Europa, ma si tratta di tre cose assai diverse. In sostanza, il primo ha funzione di indirizzo circa le priorità politiche in ambito comunitario, il secondo detiene col Parlamento Europeo il potere legislativo e il terzo non conta un cazzo: col soffice eufemismo scelto dal giornale della Cei, una risoluzione approvata a maggioranza dal Consiglio d’Europa “non è vincolante per gli Stati membri”. Non potrebbe essere altrimenti, d’altronde, perché del Consiglio d’Europa non fanno parte solo i membri delegati dai 27 paesi della Unione Europea, ma anche – tanto per dire – quelli di Russia, Ucraina, Armenia e Azerbaigian.
Una risoluzione del Consiglio d’Europa non è di per se stessa autorevole neppure sul piano morale, almeno secondo il giornale dei vescovi, sul quale, in occasione dell’approvazione di un documento che condannava l’omofobia, leggemmo: “Il documento, in nome della lotta alla discriminazione contro l’orientamento sessuale e il cosiddetto gender, opera una forte azione di lobbying giuridica, politica e culturale per aprire la strada nel vecchio Continente al matrimonio gay e alla possibilità di adozione per le coppie omosessuali prefigurando anche una sorta di reato di opinione per chi osi esprimere valutazioni etiche o religiose in merito”. Oltre a non contare un cazzo, insomma, il Consiglio d’Europa dovrebbe essere pure un covo di tipacci. 
E tuttavia Avvenire ora ne canta le lodi per una risoluzione votata a maggioranza, peraltro risicata, contro la scelta eutanasica. Ora il Consiglio d’Europa è il “consesso che riunisce parlamentari di ben 47 Stati del Vecchio continente (venti in più della Ue)”, come se bastasse questo a renderlo perciò più autorevole. Seguono le euforiche dichiarazioni di Luca Volontè e Renato Farina, per i quali “il documento può avere un grande valore sui pronunciamenti della Corte di Strasburgo e, di rimando, sulle leggi nazionali”. Quello contro l’omofobia non poteva e non doveva, quello contro l’eutanasia, via, perché no?

venerdì 27 gennaio 2012

1555

In occasione della Giornata della Memoria, il ministro Lorenzo Ornaghi sottolinea il valore altamente didattico della rassegna allestita al Vittoriano sull’orrore dei ghetti. Come dargli torto? La mostruosità dei lager è tutta in nuce alla segregazione nei ghetti. Perciò avrebbe potuto aggiungere che l’istituzione del ghetto risale al 1555, grazie alla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV, che l’antisemitismo razziale ha radici solidissime nell’antigiudaismo teologico, che l’odio contro l’ebreo arriva al Mein Kampf partendo dalle Omelie contro gli Ebrei di San Giovanni Crisostomo. Un uomo di cultura come il nostro ministro della cultura non dovrebbe ignorarlo e farebbe bene a non nasconderselo. Ma è quel che è, ed è dove è, per aver consumato la rotula baciando la mano a tanti cardinali: il poveretto non può, deve rimuoverlo, e il ghetto gli si materializza innanzi, dal nulla, nel 1939. 

mercoledì 25 gennaio 2012

Il wagneriano che è in voi

I membri del Comitato nazionale eletti all’ultimo congresso di Radicali italiani (Chianciano Terme, 29 ottobre-1 novembre 2011) si sono riuniti per la prima volta, lo scorso week end, nella storica sede di Via di Torre Argentina. Non lo sapevate? È colpa del regime partitocratico che ve l’ha tenuto nascosto, sciocchini. Niente panico, da radioradicale.it potete recuperare l’evento nella sua interezza, di durata solo di poco superiore (21h 14' 39") al ciclo wagneriano de L’Anello del Nibelungo. Non vi piace Wagner? Tranquilli, basta un intervento a riassumerli tutti, e a buon diritto, perché si tratta del denso quarto d’ora di Angiolo Bandinelli, radicale – come si dice – “storico”, già allievo di Pantaleo Carabellese (se non lo conoscete, cazzi vostri), già segretario del Partito radicale (1969-1972), già deputato (1986-1987). Insomma, un monumento. Di quelli che sono cari ai piccioni. E tuttavia da questo Comitato era rimasto fuori, lui e il piedistallo: non eletto. Poi – com’è, come non è – ripescato.
[Sbobinarlo è come descrivere a parole il sublimato di naftalina, praticamente impossibile: consiglio di sniffare alla fonte.]

«Sono qui per rispetto verso questa assemblea, della quale sono divenuto membro per un caso, non essendo stato eletto democraticamente tra i 60 che sono stati scelti in congresso. Devo dire che questa cosa non l’ho gradita, ma non voglio parlare del mio caso privato: il caso è politico. Subito dopo la non elezione, andando a cercare e finalmente trovando la lista degli eletti, quelli veri, e vedendo che non c’ero, mi sono dispiaciuto. E allora c’è stato uno scambio di opinioni sulla faccenda ed io ho dato una definizione della elezione del Comitato nazionale che ho definito “di stampo camorristico”. Da un autorevolissimo personaggio del partito mi è stato detto: “Ah, ma tu dici che qui siamo camorristi?”. No, ho detto che questo metodo è camorrista e qui voglio spiegare perché ritengo tecnicamente di aver ragione. E lo dico per mettere in guardia, perché questa situazione venga modificata radicalmente…»

Basta una chiave accennata da un corno all’inizio dell’atto, e del Valhalla wagneriano si respira l’aria a pieni polmoni. Così è in questo dramma.
Il Comitato nazionale è l’unico organismo radicale eletto democraticamente, democraticamente il Bandinelli è escluso dal Comitato nazionale, ma non basta che venga pietosamente ripescato: urge modifica statutaria perché questo non accada più. C’è una falla nello Statuto, dunque? Può darsi, il fatto è, a redigerlo materialmente, indovinate chi fu. Bravi, non sarete wagneriani di testa, ma di stomaco andate forte: fu il Bandinelli istesso.
Dal Regolamento del Congresso di Radicali italiani, art. 9: «Ciascun congressista iscritto può candidarsi a membro del Comitato nazionale su base individuale, comunicando la propria candidatura alla Segreteria di Presidenza entro il termine previsto dall’ordine dei lavori. La Segreteria di Presidenza, dopo aver validato le candidature, ne dà pubblicità».
Qui, alla candidatura di Bandinelli, non sarebbe stata data la pubblicità dovuta: in questo riposerebbe il germe camorristico che ha generato la mostruosità che orripila il nostro. Tutta colpa della Segreteria di Presidenza, dunque, che risponde alla Presidenza. Ora provate a indovinare chi fosse membro, tra gli altri, della Presidenza del Congresso. Ecco, bravi, avete fatto centro: il Bandinelli istesso.  

Suppongo abbiate pensato che esagerassi dicendo che si potesse avere il polso della cosa pannelliana anche da un mezzo intervento di un solo membro, peraltro fortuito, del Comitato nazionale di Radicali italiani. È che ignoravate il wagneriano che è in voi.

Insomma

L’apologo morale era cristallino e ricco di suggestioni allegoriche. Un apologo assai invitante, insomma. Tuttavia sono bastati pochi giorni per capire che i personaggi non erano all’altezza dell’antonomasia nella quale si è cercato di insaccarli: Schettino non era Capitan Codardia, De Falco non era quintessenza del Senso del Dovere. La pratica dell’“inchino”, che all’Isola del Giglio ha trovato l’infortunio che prima o poi doveva trovare, era incoraggiata dall’armatore e tollerata dalle Capitanerie di Porto. Sul ritardo nella segnalazione del guaio, intanto, comincia a configurarsi l’utile della Compagnia: Schettino cercava di pararsi il culo, ma non era un culo tutto suo. È vero, non è rimasto sul Concordia fino all’evacuazione dell’ultimo naufrago, ma la tempistica si va chiarendo: è sceso dalla nave quando già oltre l’80% dei passeggeri erano in salvo e quando rimanere a bordo non avrebbe reso più agevole portare a termine l’operazione. Morire, certo, l’avrebbe reso un eroe, facendo passare in secondo piano la manovra errata. Senza dubbio ha le sue colpe, ma diventa sempre più difficile cimentarle con l’onore di un Capitan Coraggio che impartisce lezioni di etica marinara dalla poltrona del suo ufficio.
Sugli esiti. Non più di due dozzine di vittime, nella peggiore delle ipotesi. Tenuto conto del fatto che i passeggeri del Concordia erano più di 4.200, siamo dinanzi ad un naufragio dagli esiti assai fortunati. Mai tanto chiasso per gli zatteroni di turisti per caso che vanno a fondo tra Tunisia e Lampedusa.

venerdì 20 gennaio 2012

In generale, io detesto le categorie

Gentile dottor Castaldi,
mi chiamo Chiara Bruni e sono una farmacista titolare di parafarmacia. Sono membro dell’associazione Essere Farmacisti che tutela appunto la nostra categoria e, in questo caso, ne sono il portavoce. Il presidente, dott. Alessandro Mazzacca, mi chiede di contattarLa per esprimerLe un sincero ringraziamento per il post del 30 dicembre intitolato “Le facciamo chiudere in tre mesi”, dove, con chiarezza, riporta la discussione ascoltata in una farmacia tra il titolare e i suoi amici. Ovviamente tale discussione ci indigna, non solo per i toni e i modi con cui veniamo apostrofati, ma anche e soprattutto perché siamo purtroppo coscienti del fatto che tali manifestazioni di spavalderia sono assai frequenti da parte dei farmacisti titolari nei riguardi di colleghi che hanno investito i loro soldi, e fatto dei sacrifici per guadagnarsi un piccolo posto nel mondo, senza ereditare, né chiedere niente a nessuno. Putroppo c’è da dire anche che il farmacista, pur nella sua cafoneria, ha una parte di ragione nel dire che le aziende farmaceutiche sono in accorto con le farmacie per praticarci prezzi più alti e che le farmacie stesse hanno accordi con i medici di base nell’“anticipare” i farmaci salvavita, pur di tenersi il cliente. Pertanto sono oggi a chiederLe due cose: la prima, di continuare ad occuparsi di questo argomento, come solo un blog sa fare, denunciando l’atteggiamento di onnipotenza delle farmacie, forti della loro continua impunità, e di clientelismo delle case farmaceutiche, magari (e se la cosa La interessa, in questo La potremmo aiutare) toccando anche altri aspetti di questa situazione spesso nebulosa per il cittadino; la seconda, di fornirci il nome del farmacista del Vomero, per inoltrare una denuncia per diffamazione, perché... poveri sì, ma fessi non tanto, mi consenta questa battuta.
Noi, da parte nostra, stiamo dando tanta rilevanza a questo suo articolo. Se fosse interessato alle nostre vicende, ieri alcuni nostri rappresentanti si sono incatenati davanti a Montecitorio e oggi saremo presenti in tanti a Roma, per una manifestazione a favore della liberalizzazione del farmaco. Se volesse contattarci, le lascio il mio recapito, non esiti a chiamarmi, per qualsiasi chiarimento. Ancora grazie.

Gentile dott.ssa Bruni,
sono il solo testimone di quanto riportato in quel post ed è proprio per questo motivo che ho evitato di riportare il nome del farmacista. Lei pensa che sarebbe disposto a confermare ciò che ha detto? In ogni caso, dove sarebbe la diffamazione della quale vorreste incolparlo? No, mi creda, penso di non potervi essere utile nel modo che mi offre, peraltro il mio post non aveva alcuna intenzione di colpire una categoria per favorirne un’altra. In generale, io detesto le categorie: in un modo o in un altro, mirano a tutelare interessi particolari, ben al di là e ben al di sopra dell’interesse generale, che è l’interesse di tutti e di ciascuno. In tal senso, mi pare che anche la vostra non faccia eccezione e la sua lettera me ne dà conferma. Saluti.

mercoledì 4 gennaio 2012

Oratori nei centri commerciali

L’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, lancia l’idea di aprire oratori nei centri commerciali. Anche se si tratta di un caso isolato, siamo dinanzi a una decisa inversione di tendenza che, con l’albergo nel convento e la libreria in sagrestia, prima o poi avrebbe portato all’apertura di centri commerciali negli oratori, per non pagare l’Ici. Tuttavia rimangono seri interrogativi sulla proposta, primo fra tutti: la diocesi pagherebbe lo spazio da destinare ad oratorio? A prezzo di mercato o con qualche agevolazione?

sabato 31 dicembre 2011

[...]

Anno che va, anno che viene

Anno che va, anno che viene, anche per chi ha un blog è tempo di bilanci e programmi. Stavolta provo anch’io e prendo spunto da Massimo Mantellini, che scrive: «Tranne poche eccezioni quasi tutti bloggano meno. Il grosso della rarefazione ha avuto origine qualche anno fa con l’adozione diffusa dei social network. Le piccole cose delle nostre vite oggi finiscono altrove: in uno status update, in un tweet, dentro le cascate di tumblr».
Bene, anch’io da qualche tempo bloggo assai meno, ma non ho un tumblr; ho un account su Twitter, ma non ho mai fatto neanche un tweet di prova; avevo una pagina su Facebook che ho aggiornato solo due o tre volte, e che ho chiuso mesi fa. Ciò nonostante bloggo meno, molto meno. Anni fa sono arrivato anche a una dozzina di post al giorno, praticamente postavo tutto ciò che scrivevo, spesso senza neanche rileggere, e non di rado portavo in pagina anche cose scritte molti anni addietro.
Scrivo meno, oggi? Al contrario, scrivo quanto prima. Forse appena un po’ meno di prima, perché da poco mi è nato un figlio e ho riscoperto il gusto di essere padre. Tutto sommato, però, resto il grafomane che sono sempre stato. È che al momento di postare mi faccio vincere da scrupoli che prima non avevo. Rileggo, correggo, mi accorgo che non si tratta della forma, rinuncio. 
Il punto di rottura è stato nel marzo del 2010, col cambio della piattaforma. Se oggi rileggo le paginate che postavo sul Cannocchiale, mi rendo conto che qui, su Blogspot, la mia scrittura pubblica ha in gran parte smesso d’essere un diario. Ero più spudorato, adesso l’intimo resta quasi tutto sul cartaceo. Ho ripreso a riempire quadernetti, come ho sempre fatto, fin da ragazzino.
Così è anche per la produzione – diciamo – letteraria: racconti e poesie, che prima postavo senza alcuna riserva, adesso rimangono gelosamente custoditi in faldoni. Intendiamoci, penso che narrare e comporre versi sia lecito a chiunque. Io lo faccio da sempre e penso che non smetterò mai. Penso anche che a chiunque sia lecito rendere pubblico questo genere di produzione, ma, almeno per quanto mi riguarda, ho visto che oltre l’episodica sortita “per vedere l’effetto che fa” cado in imbarazzo.
Quando ancora Internet non esisteva, non mi sono mai azzardato neppure a immaginare la pubblicazione delle mie poesie o dei miei racconti, men che meno di quei lunghi paginoni in forma di saggi brevi, in gran parte incompleti, che mi sono sempre serviti per mettere ordine alle mie letture, e che una volta rendevo pubblici senza farmi alcuno scrupolo di annoiare il lettore. Nel momento in cui ho vinto la mia lunga e fiera resistenza all’acquisto di un pc e all’accesso al web – era l’inizio del 2001 – avevo al mio attivo solo la pubblicazione di lavori scientifici, tutto il resto era chiuso in un migliaio di quadernetti. Ho subito ceduto alla tentazione di pescare qua e là, l’occasione è stato un thread che Piero Welby aveva aperto sul forum di radicali.it, e per un poco ho continuato anche su malvino.ilcannocchiale.it, ma dopo la morte di Piero ho smesso. Può darsi che mi interessasse essere letto solo da lui.
Non so darmi spiegazione, invece, del perché d’un tratto io abbia rinunciato a pubblicare tutto ciò che avesse attinenza alla mia vita privata. Solitamente accade che questo ritrarsi sia dovuto a qualche esperienza traumatica, ma non è il mio caso. Non mi sono mai sentito davvero ferito a morte dalle critiche che ho ricevuto in questi otto anni che Malvino compirà a marzo, anzi, devo dire che il giudizio più benevolo è stato proprio su quanto più mi aveva dato imbarazzo a rendere pubblico.
Posso solo provare a fare una ipotesi, ma seguendo una traccia che mi pare attendibile: pur essendo un medico, non ho quasi mai parlato del mio lavoro, e, pur vivendo a Napoli, ho raramente parlato di questa città. Sarebbero stati due filoni inesauribili, ma da sempre mi è sembrato che dessero spazio solo a una scrittura furba, un po’ ruffiana, fatta per intrattenere. È che odio l’anedottica e l’apologo morale, e a scrivere della mia città o del mio lavoro ci sarei inevitabilmente finito dentro. Non sono poeta, non sono scrittore, non sono saggista, non sono giornalista, non ho mai aspirato ad esserlo. Non ho mai ritenuto che esistesse uno spazio pubblico per la mia scrittura che non fosse quello della polemica. Mi piace giocare a scacchi e fare a botte, diciamo. Diciamo che ultimamente non trovo occasioni stimolanti e quelle vecchie mi sono venute a noia. Così preferisco riempire pagine per me stesso: una Introduzione alla teologia cattolica alla quale pensavo già da anni, il libretto di un’opera buffa in attesa di trovare un musicista che sappia parodiare bene Rossini...
Leonardo Tondelli scrive: «Non mi interessa scrivere per me stesso […] A me interessa produrre cose che gli altri trovino interessanti e leggibili: e più sono gli altri meglio è». A me, invece, interessa moltissimo scrivere per me stesso: ho scritto pagine che non renderei mai pubbliche e che a rileggere mi danno grande soddisfazione, per non parlare della soddisfazione che trovo nello scrivere pagine che già so che non pubblicherò mai. Tuttavia sarebbe disonesto negare il piacere di constatare, quando accade, che quanto rendo pubblico sia trovato interessante e leggibile. È che non tengo molto al numero, peraltro so di non avere una scrittura semplice, né facile, per non parlare dei temi che maggiormente mi interessano, ostici al grande pubblico del web. 
Luca Massaro afferma che «il blog, come forma espressiva, si sta avvicinando sempre più a una specie di “prova d’artista”, ovvero a un esercizio di arte estemporanea del pensiero». Ecco, sì, può darsi, basta non contarci troppo.  


venerdì 30 dicembre 2011

“Le facciamo chiudere in tre mesi”

“Le facciamo chiudere in tre mesi. Col giro di affari che abbiamo, possiamo chiedere alle case farmaceutiche di darci per tre o quattro mesi forniture in esclusiva o a prezzo agevolato, non possono negarcelo, e poi in fondo conviene pure a loro: le parafarmacie non reggerebbero alla concorrenza, si troverebbero con gli scaffali vuoti o sarebbero costrette a vendere a prezzo pieno dei prodotti che noi potremmo scontare anche del 20%. Nel sacchetto mettiamo pure le pasticche Valda in omaggio per le nonnine e le Zigulì per i bambini... Voglio vedere se poi la gente entrerà più in una parafarmacia... Senza tener conto del fatto che le città sono già sature di farmacie e i parafarmacisti dovrebbero aprire i loro negozietti in periferia: basta mettersi d’accordo coi medici di base che servono quelle aree, dar loro gratuitamente i farmaci salvavita di maggior consumo, trattenendo le fustelle: li distribuirebbero gratuitamente ai pazienti postdatando di qualche mese le prescrizioni, tanto per loro fa poca differenza sugli accrediti... No, li facciamo chiudere in un niente, questi pezzenti...”

Così, più o meno, ieri sera, in una farmacia del Vomero, sarei tentato di dire quale. Senza dubbio figlio di farmacista, re della bottega lasciatagli da papà, più o meno sulla quarantina, abbronzato da troppe lampade o appena rientrato da Cortina. Urlava quasi, nebulizzando qualche schizzetto di saliva per un leggero difetto di pronuncia sulle labiali, rivolto a due avventori che dovevano essere conoscenti o amici e che ascoltavano sorridenti e compiaciuti. Un notaio e un tassista?
Ero entrato a comprare un ciucciotto per mio figlio, avevo l’auto in seconda fila, non potevo intrattenermi.

mercoledì 28 dicembre 2011

A singulti

Certi meccanismi sono venuti a perdere l’efficacia di un tempo, ma continuano ad avere un gran peso nella programmazione delle coscienze, fin dalla prima infanzia, sicché dobbiamo rassegnarci a non pretendere troppo: di fronte alla paura, vedremo ancora per secoli la superstizione prevalere sulla ragione, e l’istinto gregario sulla cooperazione; ancora per secoli, di fronte al pericolo, l’impulso più comune sarà quello di rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza, disponendosi all’obbedienza pur di fuggire la responsabilità; ancora per secoli, come fin qui è stato, buona parte della programmazione consisterà nel fare accettare il programma come “naturale”. Non è affatto strano, dunque, che proprio adesso la democrazia sia oggetto di tante critiche; comprensibile che si parli del suo fallimento, e di quello del liberalismo; “naturale” che la tentazione più forte sia quella dello Stato organico. Durerà per qualche tempo, e non sarà stata l’ultima volta, perché l’umanità procede a singulti. Perché la prossima sia meno dura occorre non disperare, ma nemmeno lasciar tutto alla speranza: anche se guardata con sospetto o, peggio, derisa, la ragione che si oppone alla “natura” va coltivata ancora. Con più impegno, se possibile.

martedì 27 dicembre 2011

L’idea malsana

The Wall Street Journal pubblica un inedito di Christopher Hitchens (The True Spirit of Christmas), dal quale cavo questa perla: «One of my many reasons for not being a Christian is my objection to compulsory love. How much less appealing is the notion of obligatory generosity». Il segno del suo genio era in questa straordinaria capacità di andare al cuore dei problemi in modo semplice e diretto, servendosi di strumenti retorici ineccepibili sul piano logico: qui, esemplarmente, bastano «compulsory love» e «obligatory generosity» per cogliere, con una autofagia, il nucleo psicopatologico del cristianesimo e così rigettarne il messaggio. Non c’è alcun bisogno di argomenti filosofici o teologici: si rigetta l’idea malsana che l’amore possa essere oggetto di comandamento. Meglio dell’opera omnia di Friedrich Nietzsche, e in meno di due righe.

domenica 25 dicembre 2011

Un cane morto

Sul numero di la Lettura che ieri era in allegato al Corriere della Sera, in un piccolo box a pag.4, Corrado Ocone polemizza con Gilberto Corbellini, che “qualche settimana fa, su Il Sole-24 Ore attribuiva a Benedetto Croce una mentalità antiscientifica che a suo dire sarebbe all’origine di tanti nostri ritardi non solo culturali”. Ocone afferma che “Croce non era contro la scienza”, ma contro il positivismo, “cioè la pretesa di assolutizzare il metodo naturalistico”. Bene, bisogna cominciare col dire che a muovere l’accusa a Croce era Armando Massarenti, il cui articolo era in pagina accanto a quello di Corbellini, che neppure citava il filosofo neoidealista.
“Il 6 aprile 1911 – scriveva Massarenti – si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche. Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico. […] Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati”. Fu così che diventammo “un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome”. Io ritengo che questa lettura sia corretta e che basti aver letto Croce per averne conferma.
Per Croce, nella più stretta aderenza al principio idealista, per il quale ciò che è reale è già tutto a priori nella nostra mente, la conoscenza si esaurisce in intuizione e concetto. La scienza? Una pratica creativa, artistica, poetica: “Cosa c’è di strano nell’affermare che la scienza si fonda sopra elementi artistici, quando questi elementi sono stati identificati con le rappresentazioni del reale o del possibile? Non sono l’individuale reale, e quello immaginato o possibile, la materia dalla quale la scienza induce leggi e concetti?” (La storia considerata come scienza). Voilà, la scienza è degradata a trasfigurazione del reale, la cui conoscenza può essere affidata solo alla perfezione dello Spirito: gli strumenti coi quali la scienza affronta il reale non possono essere che “pseudo-concetti”, buoni tutt’al più per “chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni o almeno di indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e di richiamarle” (Logica come scienza del concetto puro).
Non è un caso che di Croce non vengano più ristampate le opere filosofiche: a rileggerle si sente puzza di cane morto. Fosse per quelle, Croce sarebbe stato già dimenticato da tempo: lo ritroveremmo solo in due righe, su qualche dizionario, come un neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa. A salvarlo dall’oblio è stato solo il suo tiepido antifascismo, qualche discorso in Parlamento, qualche pagina ben scritta sul Seicento, il catalogo degli aneddoti smerciato dalle figlie, le citazioni ormai stucchevoli che certi tromboni sfiatati si passano da ormai tre generazioni.
L’ho già scritto tre settimane fa: Benedetto Croce puzza. Quando ci libereremo dei suoi devoti, per fortuna tutti assai attempati e prossimi alla dipartita, potremo cominciare a dare una ripulitina a quel liberalismo, tutto sui generis, al quale legò il suo nome. Fino ad allora saremo costretti a sopportare come liberali, perché crociane, le vacue e pompose fole degli avanzi del neoidealismo patrio.