sabato 12 giugno 2010

Lo scalpore


Su L’Osservatore Romano di ieri:

All’articolo Tammurriata nera, di Giulia Galeotti – pubblicato su L’Osservatore Romano dell’11-12 gennaio scorso – andrà il Premio Eduardo Nicolardi 2010; la cerimonia di premiazione si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 10 giugno, alle 18.30, presso l’Institut Français Grenoble di via Francesco Crispi a Napoli. Il premio, giunto alla sua ventesima edizione, è nato per onorare la memoria del poeta e giornalista Eduardo Nicolardi, e per valorizzare chi diffonde, promuove e salvaguarda la canzone e la cultura napoletana nel mondo. Nel suo articolo, Giulia Galeotti citava proprio la celebre canzone scritta da Nicolardi nel 1945 nel periodo in cui dirigeva un ospedale cittadino, come simbolo di una società abituata a non discriminare chi ha un diverso colore della pelle.

È notizia che mi lascia senza fiato, perché a commento di quell’articolo avevo scritto:

Gli italiani sono più razzisti oggi che nel 1945? Può darsi, ma Tammurriata nera è un pessimo argomento per sostenere questa tesi. Giulia Galeotti, invece, è convinta del contrario e così scrive su L’Osservatore Romano:
“Nel vivace botta e risposta con la gente del vicolo, il protagonista-spettatore commenta un fatto «strano», la nascita di un bambino nero da una ragazza partenopea. Nella canzone lo stupore per un fenomeno nuovo («Io nun capisco ‘e vvote che succede / e chello ca se vede nun se crede. / È nato nu criaturo, è nato niro») e diffuso («Sti cose nun so’ rare, se ne vedono a migliare»), viene spiegato in modo affascinante e singolare: «‘E vvote basta solo ‘na guardata / e ‘a femmina è rimasta sott’ ‘a botta impressionata». Interviene quindi il parularo: poco importa che sia dalla pelle bianca o nera, rimane una creatura. «Addò pastíne ‘o ggrano, ‘o ggrano cresce: / riesce o nun riesce, sempe è ggrano chello ch’esce!». Nel 2010, invece, siamo ancora all’odio”.
Bene, è proprio ciò che afferma il «parularo» [in realtà: «parulano»] a smentire ciò che erroneamente sembra a Giulia Galeotti. La sua frase, infatti, è da interpretare in tutt’altro modo: se pianti [un seme] bianco, buona o cattiva che sia la raccolta, mieterai [un raccolto] bianco (se mieti [un raccolto] nero, dev’essere stato piantato [un seme] nero). La spiegazione “affascinante e singolare” è in tal modo rigettata dal «parularo», come è evidente da ciò che dice nel ritornello subito seguente: “Seh, ‘na uardata, sì. / Seh, ‘na ‘mpressione, seh. / Va’ truvanne mo chi è stato / c’ha cugliuto bbuono o’ tiro: / chillo ‘o fatto è niro niro…”. Tutt’altro che bianco, diverso da un bianco, sicché “ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono, / ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro / chillo ‘o fatto è niro niro…”: un nome da [uomo] bianco non lo farà diventare un [uomo] bianco. Ci si legge più razzismo, temo, che il contrario.
(Italiani e razzismoMalvino, 11.1.2010)

Ho ripreso fiato informandomi sui membri della giuria del Premio Eduardo Nicolardi e sull’associazione che ne cura le edizioni, ma qui non è il caso di fare polemiche, perché anche premi assai più prestigiosi vengono dati a cazzo di cane, in Italia, da cani a cani. Quello che mi interessa è altro: Tammurriata nera descrive un’Italia del 1945 meno razzista di quella del 2010, come sostiene la Galeotti nel suo articolo, o no? In altri termini: ho letto male il suo articolo a gennaio?
L’ho letto bene, l’ho letto bene: ci ho passato un pomeriggio, ma ho trovato la conferma alla mia lettura. In due volumi di storia della canzone napoletana (l’enciclopedia di Ettore De Mura e il trattato di Vittorio Paliotti) e in una biografia di E.A. Mario che musicò Tammurriata nera (di Max Vajro) ho trovato lo stesso aneddoto.
Nel 1945, all’Ospedale Loreto Mare, dove Eduardo Nicolardi lavora in amministrazione, nasce un bambino niro e la cosa genera scalpore. Al momento chiamiamolo scalpore. È lo scalpore descritto nella canzone. E che il Nicolardi comunica a E.A.Maio, suo amico (di lì a poco anche suo consuocero). Il quale ne rimane assai colpito. Al punto che gli fa: “È ‘na mamma curaggiosa! È ‘na mamma chiena ‘e core! Edua’, facimmo ‘sta canzone!”.
Curaggiosa: per una donna bianca che mette al mondo un bambino nero, nell’Italia del 1945, ci vuole del coraggio per affrontare lo scalpore. Forse non è proprio scalpore.
La Galeotti non ha capito un cazzo. Ma è stata premiata. È questo che dovrebbe provocare scalpore.

venerdì 11 giugno 2010

Chi ha fatto fuori padre Vianney?



“L’anno che il Papa ha dedicato ai sacerdoti si sta chiudendo con un giallo” (Il Foglio, 11.6.2010). Non si tratta del caso Padovese, che Il Foglio ha già archiviato come martirio della fede. Il giallo sta nel fatto – cominciate a rosicchiarvi le unghie, la cosa merita – che “Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars, non verrà proclamato «patrono dei preti di tutto il mondo» come l’Osservatore Romano aveva annunciato il 9 giugno”.
Eccitante, no? Eccitante ed edificante, direi. Come un giallo della serie di padre Brown, tenuto conto che il signor direttore copia i papillon a Chesterton. Mica un giallaccio di quelli da cronaca nera, nel quale – faccio per dire – il cadavere è quello di un gay assillante e l’assassino ha agito con la furia di quella resipiscenza omofoba che prende chi ha dato un qualche diritto all’assillante: questo no, sarebbe un Giallo Mondadori, mentre Il Foglio smercia suspense di qualità superiore.
Sentite come monta: “La proclamazione era un passo naturale dopo che nel corso dell’anno più volte il Papa ha citato Vianney come modello per il clero”; al vertice del climax: “Perché dunque la retromarcia?”. (Non ho ancora un iPad, non posso controllare, ma a questo punto, sulla versione scaricabile de Il Foglio, dev’esserci di certo un link che apre un file audio con breve traccia musicale dall’effetto a incalzo, come in ogni buon film noir.)

Chi ha fatto fuori padre Vianney? “Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Vaticano all’agenzia I.Media, l’inedita decisione è stata presa perché il curato d’Ars non è «abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale». Inoltre non riflette «completamente la figura del prete di oggi, all’epoca della comunicazione»”.
Dopo averlo portato in giro dappertutto con più devozione che per una Madonna Pellegrina e per un anno intero? È chiaro che qui il giallista ci sta dando solo una delle false soluzioni che solitamente anticipano, con immediata smentita, la rivelazione finale, la vera soluzione del giallo, due minuti prima dei titoli di coda, all’ultima pagina del thriller. È banale solo a non capire che si tratta di un meccanismo canonico della suspense, solo se siete lettori di basso livello potete chiedervi: se ne accorgono solo adesso che come modello faceva cagare?
Se siete lettori di alto livello – al livello de Il Foglio – vi godete buoni buoni l’effetto a incalzo e le false soluzioni. Dopo la prima, la seconda: “Il motivo potrebbe anche essere burocratico. Qualcosa non avrebbe funzionato nella stesura del Motu proprio che ne sanciva la proclamazione”.

Soluzione finale del giallo? Non c’è: il giallista lascia l’opera aperta. In meno di 24 ore Il Foglio è riuscito ad archiviare un fattaccio oscuro accaduto a migliaia di chilometri di distanza, in Turchia, ma il giallo che sta di là da Lungotevere Raffaello Sanzio resta senza assassino. (Una eventuale delusione prova che siete fatti solo per i gialli volgari, da plebe incolta.)

“L’informazione, va saputa maneggiare”. Per tacere della grammatica.



Agli illustri letterati che scrivono su Il Post andrebbe consigliato un uso meno disinvolto della punteggiatura, almeno nei titoli, com’è nel caso de “L’informazione, va saputa maneggiare” e di “Sapessi com’è strano, fare le primarie a Milano”, entrambi in homepage oggi. So bene che sollevare le basse questioni di grammatica fino agli eccelsi livelli di scrittura offertaci dalle prestigiose firme del fighissimo aggregatore è operazione ardita, a rischio di apparire petulanza un po’ codina, ma ritengo che l’uso della virgola nei due casi sopra riportati non può arrivare ad essere tanto arbitrario.
Il genio italico è in fermento, accanto a un Silvio Berlusconi che vuol riscrivere la Costituzione non sfigura affatto una riforma della lingua ad opera di Luca Sofri, e tuttavia – sarò un fottuto conformista – non riesco a cogliere altra ratio in queste velleità rivoluzionarie se non quella di disfarsi di leggi delle quali – mi sembra di capire – non si è mai penetrato bene il senso: nella proposta di inserire una virgola tra soggetto e verbo, ad esempio, mi pare che l’istinto di scrivere alla-come-cazzo-viene prevalga sulla logica che informa la relazione fra le parti del periodo, e questo – confesso – mi rende un poco controriformista.


Devo considerarlo unico responsabile dei due titoli oggi in pagina su Il Post, perché i pezzulli non sono firmati, sicché è a Luca Sofri che consiglio: Lynn Truss, Eats, Shoots & Leaves: The Zero Tolerance Approach to Punctuation, Profile Books, London 2003. Consigliargli un manuale di grammatica italiana ad uso degli studenti delle medie inferiori potrebbe apparirgli offensivo, e non voglio: sono sicuro che un testo in lingua inglese, relativamente recente, di scorrevole lettura, gli sembrerà meno provocatorio.  

Sì, lo so, la legge non è stata varata ancora, faccio per dire...


Dopo aver visto quant’è tiranno Berlusconi nel mettere il bavaglio ai giornalisti italiani, c’è da vedere solo quanto sapranno essere eroi loro, levandoselo, costi quel che costi, perché la libertà d’informazione è cosa sacra, eccetera.

Interiors



Mosso da ragioni esclusivamente sentimentali, e però così forti da farmi essere disposto a ricorrere a qualche piccola disonestà intellettuale, volevo scrivere una lunghissima pagina in difesa di Daniele Luttazzi: sono stato più di un’ora davanti alla pagina bianca (*) senza riuscire a trovare niente di convincente, neanche tentando di ricorrere a disonestà intellettuali via via più grosse, e confesso che mi sono spinto fino a quelle che sfioravano il grottesco. Ogni volta che mi sembrava di aver trovato un buon argomento per sostenere la sua buona fede o almeno per dimostrare la mala fede in una delle accuse mossegli – e in entrambi i casi non avrei comunque dimostrato la sua innocenza – dovevo ricredermi: l’argomento era inutilizzabile, reso inservibile da precedenti affermazioni di Daniele Luttazzi.
Finisci per odiare chi ami se non ti consente di amarlo, e sì che tu stai lì a rischiare il grottesco, arrivando addirittura a tirar fuori  la differenza tra rapsodo e aedo...

Non sono arrivato a odiarlo – non ci sono riuscito, nonostante tutto – ma sono riuscito a sentirmi un po’ idiota, ed è stato quando dopo più di un’ora, logoro d’imbarazzo dinanzi a me stesso, ho dovuto costatare che la sua innocenza o la sua buona fede erano sostenibili solo a patto che Daniele Luttazzi mi fosse venuto incontro dichiarando: “Oh, ma io non conosco la lingua inglese”.
Ma lui – mi son chiesto – sarebbe capace di amarmi fino a venirmi incontro, e fino questo punto? Qui ho ceduto e ho dato dello stronzo a me e a lui.


(*) Avevo pure l’Instrumentun laboris in arretrato, puttana la miseriaccia!


giovedì 10 giugno 2010

mercoledì 9 giugno 2010

La cronaca ti costringe ai paragoni



Paragonata a Morgan, Asia Argento mi diventa personcina seria e perbene.

Tutto chiarito: quelli della Reuters sono santi e io sono un fetente


Sono stato aspramente rimproverato di aver corredato un post con una delle foto della Reuters che ritraevano un soldato israeliano pestato dai «pacifisti» della Freedom Flotilla: mi hanno detto che usare quella foto aveva intento malizioso, come a reclutare la ragione in forza di un dato emotivo, perciò intrinsecamente strumentale… E pensare che si trattava di una foto taroccata, ripulita di lame e sangue: a pubblicare la foto originale – è chiaro – avrei avuto intento ancora più ingannevole.

A zoppo, zoppo e mezzo



[Proseguono le indagini della polizia turca, ma per i cattolici è già tutto certo: monsignor Padovese è stato ucciso per odio religioso. Si nega anche l’eventualità che il movente dichiarato dal reo confesso possa essere quello vero, come se non fosse neanche teoricamente possibile che Sua Eccellenza avesse perso la testa per il giovane Altun, e intanto nessuno osa dire una frase semplice, anche se impegnativa: il Padovese non era gay. Io non sono certo che lo fosse, né che sia stato ucciso per le sue pressanti avances, e nemmeno escludo del tutto che l’omicidio sia stato rituale. Ma a fronte di questo insistere nel volercelo rifilare come martire, mi sento autorizzato a usare argomento altrettanto zoppo in favore della tesi del delitto a sfondo sessuale.]

Nell’iconografia cristiana il “guancia a guancia” è pressoché esclusivo tra la Vergine e il Bambino, e perfino i santi Sergio e Bacco, che la vulgata vuole gay, vengono solitamente raffigurati in posa non compromettente. Ma non bisogna leggere con quest’occhiale poco levigato la stranezza dell’icona appesa al muro in casa Padovese, in quel di Iskenderun: i tratti dei due santi rimandano a quelli tradizionalmente riferiti ai santi Pietro e Paolo, e anche se tra i due in realtà non corse ottimo sangue – Paolo andò d’accordo a malapena con se stesso – esistono dipinti su tavola e mosaici che li ritraggono a figura intera, nell’atto di baciarsi sulle guance, com’era in uso fra i cristiani del I e del II secolo (talvolta fino al IV) quando si incontravano… No, la stranezza sta nell’aver isolato quel particolare per un quadro da appendere in casa o, meglio, di aver scelto proprio quel dettaglio: il “guancia a guancia” tra due maschi, senza dubbio santi, e di prima importanza, quindi al di sopra di ogni sospetto in quanto a ineccepibilità di comportamento. Naturalmente non è detto che la scelta sia stata conscia.

Decapitato?

In molti paesi dove è vigente la shari’a – l’Arabia Saudita, per esempio – la pena comminata per il peccato/reato di sodomia è la decapitazione. Superfluo dire che, anche in questa occasione, come in mille altre nella tradizione islamica, il grido di “Allah Akbar!” che si leva a compimento dell’esecuzione capitale non è altro che un sigillo equivalente al nostro “amen”, nulla più di un “così sia”.
Essere decapitato da mano musulmana, insomma, non è di per se stesso un merito che possano apporsi sul petto solo i martiri della fede cristiana, crociati o meno, ma spetta di diritto pure i gay. Che monsignor Luigi Padovese sia stato decapitato, dunque, non fa prova provata che lo sia stato a causa della veste che indossava, e non esclude che il motivo stesse sotto quella.

Le contraddizioni in Dio

L’uomo vive di contraddizioni, ed è oggetto di discussione se eliminarle non comporti l’eliminazione dell’uomo stesso. In uno di questi tentativi – il monoteismo – lo sforzo mira ad azzerare le contraddizioni umane nelle contraddizioni che l’uomo ha appioppato a Dio, nel venirlo a costruire così come lo vediamo nella Torah, nei Vangeli, nel Corano: il monoteista si libera delle contraddizioni riponendole nel Mistero entro le quali non sono più tali, e il suo Dio si contraddice senza sbagliare mai.
Se prendiamo l’islam, per esempio, dove le parole di Dio sono indiscutibilmente quelle del testo sacro, senza che all’interprete sia consentita una lettura simbolica o allegorica, abbiamo un Allah violentissimo, ma anche infinitamente misericordioso, che qui prescrive di sgozzare gli infedeli, lì di tollerarli, più in là perfino di amarli come fratelli.
Idem coi Vangeli, naturalmente, dove le contraddizioni si contano a dozzine, ma il cristianesimo – anche il fondamentalismo cristiano, che tende a coranizzare i Vangeli – lascia un margine all’interprete, sicché le contraddizioni dell’uomo si annullano in Dio – rimanendo tali nel peccato – con la plasticità che i tempi richiedono al suo Cristo vivente: e così, dal puntare l’attenzione a un Dio “padrone del cielo e della terra”, la si sposta al “date a Cesare quel che è di Cesare”.

Con l’islam è diverso. L’islam non ha bisogno di interpretazioni e queste contraddizioni le risolve in un califfato che non è né teocratico né cesaropapista. E sul rapporto cogli infedeli risolve le contraddizioni prima della politica, mentre il cristianesimo le risolve tramite essa: ecumenismo sul piano interno, evangelizzazione su quello esterno, tutto secondo quando possibile, con prudenza e opportunismo. Nessuna prudenza, invece, e scarsissimo opportunismo nell’islam: le sorti della politica interconfessionale sono affidate a quelle del califfato virtualmente elaborato, ed è da quando i musulmani hanno perso i loro territori in Europa che l’elaborazione del califfato è revanchista e sciovinista, cioè jihadista. Il trauma delle crociate e poi della sconfitta subita a Lepanto ha precluso all’islam ogni altra possibile elaborazione delle contraddizioni del suo Dio.
E dunque – per dirla con Manuele II Paleologo – “Maometto ha portano di nuovo solo cose cattive e disumane”? Sarebbe un “modo pesante” di porre la questione, così disse Benedetto XVI a Ratisbona, quattro anni fa, e non bastò: le proteste levatesi nel mondo musulmano lo costrinsero a inserire nella sua lectio – dopo – che l’imperatore bizantino si fosse espresso “in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile”. E però il problema resta: per quanto espresso in modo inaccettabilmente pesante, il concetto di un islam inemendabilmente irrazionale e violento è – o non è – di questo pontificato? Se Giovanni Paolo II baciava il Corano, lo vedremo fare pure a Benedetto XVI?

Cominciamo col dire che, quando lo fece Giovanni Paolo II, quasi nessuno ebbe troppo da ridire (ai lefebvriani venne un attacco epilettico), ma era il maggio del 2001, mancavano ancora quattro mesi all’11 settembre: l’islam non era stato ancora dichiarato nemico dell’occidente. Il gesto non sarà piaciuto di certo al cardinale Joseph Ratzinger, quello che alcuni mesi prima aveva firmato la Dominus Jesus, ma se è per questo molto di ciò che faceva Giovanni Paolo II non gli andava a genio, ma non aveva indole per darlo a vedere. Sempre stato un cagasotto, il nostro. Uomo dei due passi avanti ed uno indietro. Come con l’islam. “Per la dottrina musulmana – diceva a Ratisbona – Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”: un po’ meno “pesante” di Manuele II Paleologo, indubbiamente, ma non di tanto. Sicché in una nota aggiunta successivamente: “Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica”.
Mica si diventa papa senza essere almeno un poco figlio di puttana.

Ordunque, siamo al passo indietro dopo i due passi avanti di Ratisbona? Pare proprio di sì, e in fondo già nei ritocchi successivi alla lectio era evidente l’intenzione: il professorino s’era accorto che da pontefice l’uditorio si ampliava di orecchie poco condiscendenti, fino al permaloso. Ma con le batoste prese da al Qaida, con il venir meno della sensazione di essere assediati da un miliardo e più di jihadisti, con la costruzione (ancorché surrettizia) di un “islam moderato”, i musulmani diventavano più facilmente dei possibili alleati che dei nemici contro la secolarizzazione del mondo.
I segni c’erano già tutti nel 2007 e nel 2008 con la ripresa dell’attività interconfessionale su temi di comune interesse. Meno irenismo, più agenda geopolitica. Naturalmente rimanevano in piedi gli enormi problemi politici relativi ai musulmani nei paesi di tradizione cristiana e ai cristiani nei paesi di tradizione islamica, ma questi, se non accantonabili, erano secondari a fronte dell’urgenza di spiritualizzare un mondo sempre più materialista.
Marciare divisi per colpire uniti: il senso del “trialogo” (cristiani, ebrei e musulmani) proposto dal papato era (ed è) questo. Ma in quale ardita ipotesi culturale e psicologica si possono immaginare insieme i vincitori e i vinti di Lepanto?

“Perché la Chiesa non può abbandonare lo spirito di crociata?”, si chiede uno jihadista cattolico. “Molto semplicemente perché non può rinnegare la propria storia e la propria dottrina. […] L’idea di crociata infatti non è solo un evento storico circoscritto al Medioevo, ma è una costante dell’animo cristiano che nella storia conosce momenti di eclissi, ma che sotto diverse forme è destinata a riaffiorare. […] Il Vangelo del resto, nel suo significato originario, è annuncio di vittoria militare, in questo caso la vittoria di Cristo sul male e sulle potenze delle tenebre” (Roberto De Mattei – Il Foglio, 8.6.2010). Manuele II Paleologo ne rimarrebbe imbarazzato: non è dunque solo l’islam a volersi imporre con la spada? E come si tengono buone queste feroci pecorelle? Come si può convincerle che i musulmani sono “fratelli”?
Ne scriverò ancora, diciamo che questa era solo l’esposizione del tema. Ma fin d’ora pare chiaro che molti ratzingeriani si sono dichiarati tali troppo in fretta, senza aver chiaro chi sia davvero Joseph Ratzinger. Ne vedremo delle belle: o Benedetto XVI dovrà tradire Joseph Ratzinger (come in parte ha già fatto) o dovrà tradire l’immagine che Joseph Ratzinger aveva dato di sé per vendemmiare fra i riformisti e i tradizionalisti (e anche questo in parte è già stato fatto).

Un’altra considerazione, prima di chiudere. Ancora non è noto il testo integrale dell’Instrumentun laboris per la Chiesa in Medioriente (qualche stralcio a Radio Vaticana, solo frustoli), ma potrà essere utile leggere quello la Chiesa in Africa dell’anno scorso, al punto in cui si fa cenno ai rapporti interconfessionali (102). Metto in evidenza i tratti salienti: “In certi luoghi, la convivenza con i nostri fratelli musulmani è sana e buona; in altri, invece, la diffidenza da entrambi i lati impedisce un dialogo sereno”. Qui è interessante notare che ultimamente la Chiesa di Roma tende a prendere le distanze da quel cristianesimo fondamentalista col quale aveva civettato negli scorsi anni, quasi a sottolineare che diffidenze cattoliche verso i musulmani non ci sono mai state, eventualmente erano soltanto di folli evangelici nel fondo più rurale di una certa America. “La tendenza a politicizzare le appartenenze religiose è del resto un pericolo comparso laddove si era iniziato il dialogo”, ma questo non vale pure per i lepantisti di casa nostra?
Ci divertiremo, ci divertiremo un sacco a constatare che le contraddizioni in Dio sono assai al di sotto dell’umano di quando rimangono nell’uomo.  

Bhopal


In un certo qual modo è stata fatta la volontà di Madre Teresa di Calcutta, che appena arrivò a Bhopal, dopo la tragedia, disse: “Perdonate, perdonate, perdonate!”. E infatti i proprietari della Union Carbide sono stati perdonati, mentre i dirigenti locali hanno avuto una condanna irrisoria. Più di mezzo milione di intossicati, qualche migliaio di morti, danni alla salute tuttora enormi, malformazioni fetali in numero cinquanta volte maggiore alla media standard…
Ora che Bhopal ritorna sulle pagine dei giornali, della santa va ricordato che la sua holding rifiutò ogni forma di aiuto umanitario alle donne che avevano deciso di interrompere la gravidanza che era in corso al momento dell’intossicazione. L’aborto di un feto gravemente malformato era peccato più grave dell’aver provocato la malformazione, tutto secondo la logica che dà un tozzo di pane all’affamata che si tiene un figlio malformato e lo nega all’affamata che interrompe la gravidanza.

Poi, volendo, bisognerebbe andare a controllare se fra i facoltosi benefattori della holding della santa ci fossero gruppi o singoli in qualche modo collegati a industrie che trattassero isocianato di metile: la santa accettava denaro da chiunque, anche da sanguinari dittatori come Duvalier – una straordinaria macchina per far soldi, la santa – perché non da quelli?

La via smilza da Togliatti a Benedetto XVI



Segnalazione

Un Luca Massaro perfetto.

martedì 8 giugno 2010

“Una cosa personale”


“Sicuro è che non si tratta di un assassinio politico o religioso, si tratta di una cosa personale”, ma questo per Benedetto XVI. “Aspettiamo ancora tutte le spiegazioni”, aggiungeva, e probabilmente faceva riferimento alle indagini in corso. Ora, “secondo voci nella polizia turca” (Il Sole-24Ore, 8.6.2010), Murat Altun avrebbe confessato di aver ucciso monsignor Padovese perché esasperato dalle sue asfissianti avances sessuali. “Una cosa personale”, proprio come aveva detto Benedetto XVI. Ma un martire della fede torna sempre comodo, soprattutto se la “cosa personale” è imbarazzante, e allora ecco che il papa potrebbe essere costretto a rivedere la sua opinione sull’omicidio. “Non vogliamo mescolare questa situazione tragica con il dialogo con l’islam”, aveva detto, ma ora potrebbe essere costretto a farlo, spinto dalla comunità cattolica in Turchia, alla quale un vescovo martire tornerebbe assai più utile di un vescovo omosessuale, e da quei lepantisti che hanno subito storto il muso al suo porgere la mano ai “fratelli musulmani”. 

Ricordate i sei senegalesi uccisi dalla camorra a Castelvolturno nel 2008? Uccisi perché neri? Pare che furono fatti fuori per errore: la camorra li riteneva, a torto, rivali nello spaccio di droga. A chi poteva tornar comodo che la strage avesse un movente “razzista”? Un po’ a tutti, forse agli stessi camorristi, dopo aver capito di aver sbagliato bersaglio. I quali non è affatto escluso che nel far fuori i sei senegalesi possano aver gridato: “Crepate, negri di merda!”.
Così per la morte di monsignor Padovese: potrebbe tornar comodo anche agli islamisti che sia stato ucciso perché cristiano, e vescovo per giunta, piuttosto perché avesse fatto saltare i nervi ad Altun con le sue pressanti richieste. Che questi possa aver gridato: “Allah Akbar!” (ma le fonti sono tutte di parte cattolica) diventa la cosa più importante, mentre passano in secondo piano tutte le stranezze del caso.
 
Monsignor Luigi Padovese aveva rinunciato al suo viaggio a Cipro poche ore prima di essere ucciso, dopo che Murat Altun gli aveva comunicato che non lo avrebbe seguito. Quel viaggio era un appuntamento importantissimo (doveva essere accanto a Benedetto XVI che consegnava quell’Instrumentun laboris alla cui stesura il Padovese aveva dato un grande contributo), ma a tuttora nessuno sa spiegare perché il vescovo vi abbia rinunciato.
Murat Altun era alle sue dipendenze come autista da quattro anni, e tuttavia il Padovese lo voleva accanto a sé anche quando non doveva spostarsi. Non sarebbero mancate occasioni per uccidere prima il vescovo, soprattutto nella settimana che ha preceduto quella nella quale si è consumato l’omicidio, nella quale il Padovese ha trattenuto presso di sé l’Altun senza mai consentirgli di tornare a casa. È diventato islamista in quarantotto ore, l’Altun?
Tutti dicono che si fosse convertito o stesse per farlo: per un islamista sarebbe inammissibile anche solo il simularlo.

Non regge, la tesi dell’omicidio rituale è fragile fino all’inconsistenza. E il fatto che su di essa si affanni soprattutto chi conosceva bene monsignor Padovese puzza maledettamente.

lunedì 7 giugno 2010

La coscienza


Non si può escludere la presenza di una qualche forma di coscienza nel soggetto in stato vegetativo persistente: non si può esserne sicuri, ma nemmeno la si può escludere, a questo arriva la “commissione Roccella”. Resta inteso che invece si possa escludere del tutto nel soggetto sano che decida di non voler vegetare, nel caso.


Nothing really blue

 


[...]



Soldato israeliano in mano a “pacifisti” filopalestinesi.


L'autista



“Era in procinto di partire per Cipro, incontro a Benedetto XVI, ma è stato ucciso alla vigilia, giovedì 3 giugno, festa del Corpus Domini” (Settimo Cielo, 3.6.2010). Sandro Magister trascura l’essenziale: monsignor Luigi Padovese aveva prenotato il volo a Cipro per sé e per il suo autista, annullando la prenotazione poche ore prima di essere ucciso. Eppure, come fa notare Andrea Tornielli, “quell’appuntamento a Cipro era certamente uno dei più importanti dell’anno nella sua agenda [perché] aveva collaborato intensamente al documento preparatorio del Sinodo [e] doveva essere vicino al Papa nei tre giorni della visita” (il Giornale, 6.6.2010).
Cosa può averlo fatto rinunciare? Sappiamo solo – grazie a ciò che ci racconta suor Eleonora Di Stefano (Il Giorno, 4.6.2010) – che la decisione del Padovese di non andare a Cipro è stata di poco successiva al rifiuto dell’autista di seguirlo. Visto che il programma della visita papale a Cipro aveva Nicosia come unica tappa, a cosa gli serviva un autista al seguito, soprattutto se in penose condizioni psicofisiche?

Murat Altun non era solo il suo autista, diciamo che era soprattutto un suo figlioccio. Sua Eccellenza gli si era tanto affezionato da volerlo accanto a sé, notte e giorno, per l’intera settimana antecedente a quella in cui si sarebbe consumato l’omicidio e, quando il giovane aveva fatto ritorno a casa, non aveva fatto passare due giorni: “Si stava riposando quando il vescovo lo ha chiamato chiedendo di andare a prenderlo per fare una passeggiata. Mio figlio – racconta la signora Altun, che si dice “triste perché è morto il vescovo, non perché mio figlio è in prigione”gli ha detto che era stanco ma lui ha insistito […] Voleva portare mio figlio a fare una passeggiata e poi a pranzo fuori” (Avvenire, 6.6.2010).
Un attaccamento un po’ asfissiante, forse, ma è troppo poco per dar credito alle insinuazioni. Avvenire cita il quotidiano turco Sabah, che avrebbe “ipotizzato moventi sessuali”, ma su sabah.com.tr non ne ho trovato traccia, neanche in cache: si parla solo di possibili moventi “personali” (“kişisel”), sicché quella del giornale dei vescovi sembrerebbe una excusatio non petita. Tanto più se con l’ansiosa notazione che si sarebbe trattato di “ipotesi poi rivelatesi false”, e non si capisce come.

Ma questo, in fondo, non è cosa rilevante. Inoltre bisogna tener conto che in Turchia l’omosessualità non è ben tollerata, e Murat Altun potrebbe far fatica ad ammettere che l’affetto che gli portava monsignor Padovese fosse tutto casto. La cosa importante, e al momento assai controversa, è capire se Murat Altun fosse un convertito al cattolicesimo o in procinto per esserlo, e qui le voci sono contraddittorie e ambigue: tutti dicono di sì, smentisce solo la sorella di don Andrea Santoro. E sì che un vescovo ucciso da un neoconvertito sarebbe cosa assai imbarazzante, assai più che se ucciso da un giovane stanco delle sue stringenti attenzioni.


A parte
“La Chiesa dica che quel vescovo non è morto per accidente”, chiede Giuliano Ferrara, che da blogger poco informato – sua unica fonte è Settimo Cielo, a quanto pare – chiede che le gerarchie ecclesiastiche facciano subito di monsignor Padovese una bandiera della “condizione dei cristiani nel mondo islamico”, non foss’altro per “i giudizi drammatici [che] sull’islam e la condizione penosa della libertà di coscienza e religiosa al suo interno” sono stati espressi in passato da Sua Eccellenza, “francescano e patrologo, genuino missionario in terre difficili e innamorato della Turchia” (Il Foglio, 7.6.2010). Non si rende conto che la Santa Sede non può arrischiarsi a farlo con troppa leggerezza: può darsi che monsignor Padovese sia morto proprio per un “accidente” da “innamoramento” o, peggio, da proselitismo. Santo sì, ma solo dopo il processo a Murat Altun, se questi continuerà a darsi per matto.

sabato 5 giugno 2010

Finisci per inorgorglirti


Quasi tutti i redattori e buona parte dei collaboratori fissi de Il Foglio hanno un blog. A che possa servir loro, non s’è mai capito. Non è cosa ridicola, e un po’ puzzona, dare a gratis la propria scrittura? Scrivono su un giornale (ullallà!), peraltro un giornale assai critico sul blogging. Sarà che vogliono dimostrare indipendenza dalla linea del giornale, non vedo altra spiegazione, ma allora perché ilfoglio.it li linka? Sarà che il giornale vuole dimostrare indipendenza dalla sua linea? Saranno gli unici blog decenti in giro, via, la spiegazione sarà questa.

Che palle? Che palle. giuro che la prossima volta non spenderò neanche un rigo. È dal 2003 – quando la Deficiente scrisse che i blogger erano segaioli – che questa storia va avanti, sempre uguale: di tanto in tanto il boss si sveglia cogli zuccheri alti, sceglie uno dei due suoi registri da bipolare (controcorrente o contro-controcorrente), commissiona una provocazione indirizzata alla blogosfera a uno dei poveracci tenuti ad un desk a pane e acqua, e aspetta la doccia di insulti per sciacquarsi le ascelle. Tommaso Marinetti pagava per essere fischiato, qui si scrocca. E visto che ultimamente al boss queste provocazioni vengono a fotocopia, i blogger ormai lo schifano e lo schivano. Addirittura – orrore! – danno del blog al suo giornale.



En passant, volevo dire: ieri, concepivo una meditazione sul «pacifismo» della Freedom Flotilla a partire da uno degli italiani a bordo, quell’Angela Leno che dirige Infopal – bene, mi pare assai scorretto che Il Foglio mi rubi l’idea e stamattina mandi in edicola una robetta ricicciata dall’idea di un blogger. Mi pare scorrettissimo, ma fa niente: in un certo qual modo fa piacere avere un seguito.