Qualche stronzo va dicendo in giro che, giusto per farlo contento, meritasse almeno di cagarsi un poco addosso.
venerdì 1 ottobre 2010
6.874.842.034
Due minuti fa eravamo 6.874.831.153 e adesso siamo 6.874.831.603, ma non faccio in tempo a scriverlo che siamo già 6.874.831.655 e, insomma, non si può dire che il “moltiplicatevi” (Gen 1, 28) sia disatteso, e almeno in questo possiamo vantare d’essere obbedienti a Dio. Certo, qui ci si moltiplica di meno e lì di più, ma siamo tutti suoi figli: è la somma che fa il totale e ai suoi occhi non dovrebbe far la stessa differenza che ieri impensieriva Oswald Spengler e oggi il direttore generale dell’Inps. E tuttavia dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee, che in questi giorni è riunito a Zagabria, si leva un preoccupato monito sull’Untergang dell’Abendland. La crisi demografica europea rivela nei vescovi d’Europa un’ansia da responsabili di enti previdenziali. Alto il morale, graziosissime eccellenze, ché mentre buttavo giù queste due righe, italiani o no, europei o no, siamo arrivati a 6.874.842.034.
Art. 8
Su cosa debba intendersi per libertà religiosa non c’è unanimità di pareri, ma si conviene che “tutte le confessioni religiose sono essere ugualmente libere davanti alla legge”. Anche la nostra Costituzione si esprime in tal senso (il virgolettato, infatti, è al 1° capoverso dell’art. 8), ma lo fa subito dopo aver dichiarato che quella cattolica è più libera delle altre, in virtù dei Patti Lateranensi (2° capoverso dell’art. 7), e subito prima di tentare un correttivo contemplando la possibilità di intese con le rappresentanze delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (3° capoverso dell’art. 8).
Questo correttivo implica, allo stesso tempo, la negazione del principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose e il suo superamento o, come dice Giuseppe Della Torre (Avvenire, 30.9.2010), “mette insieme ciò che parrebbe impossibile conciliare: l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose, con la possibilità per ognuna, attraverso singoli accordi con lo Stato, di ottenere un regime giuridico rispettoso della propria identità”.
Nessuna contraddizione per l’editorialista del giornale dei vescovi: “Trattare allo stesso modo situazioni diverse è altrettanto lesivo della eguaglianza, del trattare in maniera diversa situazioni eguali”. Sembrerebbe un richiamo al 2° capoverso dell’art. 3 della Costituzione, che affida allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini, ma qui è invocato per legittimare un sistema di intese particolari che sono diverse da caso a caso.
Non è tutto, perché per il Della Torre una confessione religiosa può essere libera anche senza arrivare ad una intesa, e ugualmente libera. È il caso dell’islam: “È necessaria la firma di una intesa? E se no, è almeno da considerare opportuna? Diciamo subito che quello delle intese è il regime che la Costituzione contempla come ordinario per regolare i rapporti dello Stato con le confessioni religiose: ma non è l’unico possibile. Una confessione può preferire il non ricorso all’accordo con lo Stato; questo, d’altra parte, può non ritenere possibile – almeno per un certo tempo – aprire negoziati con i rappresentanti di una determinata confessione, ad esempio per conoscerne meglio la realtà interna”.
Inimmaginabile nel caso dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica: qui l’intesa deve essere privilegiata in forma di Concordato e la conoscenza della realtà interna deve essere considerata superflua per non risultare offensiva. Non così con l’islam: “Nel suo patrimonio religioso e culturale vi sono elementi in contrasto con i valori ed i principi racchiusi nella Carta costituzionale, i quali costituiscono il fondamento e la ragione stessa del nostro vivere assieme”.
Principi che renderebbero ragione della necessità dei Patti Lateranensi, ma consentirebbero di definire non opportuna una intesa con la comunità musulmana, tanto meno necessaria: paradossalmente è la diseguaglianza di trattamento che produce eguaglianza di diritti, almeno per il Della Torre.
giovedì 30 settembre 2010
La prevalenza del prete nello storico
La guerra ispano-americana (1898) durò meno di quattro mesi, né di qua né di là causò molte perdite umane (meno di 12.000 in tutto), ma cambiò profondamente la storia di due nazioni: gli Usa guadagnarono il controllo di Cuba, Portorico e Filippine, abbandonando ogni isolazionismo, attirati nella storia mondiale come liberatori, cominciando dagli ultimi oppressi del residuo impero coloniale della vecchia Europa, individui intesi come sudditi di Stato e di Chiesa; per la Spagna fu la fine di un modello sociale che s’era costantemente fondato sull’alleanza tra Trono e Altare, da almeno cinque secoli. Solo marginalmente la sconfitta della Spagna fu sofferta dagli spagnoli come fine dell’impero e arretramento della missione evangelizzatrice, prevalse invece la messa in discussione del modello sociale, e l’alleanza tra latifondo e cattolicesimo risultò perdente. La sconfitta diede voce ai liberali e ai socialisti spagnoli che andarono a costituirsi in fronte avverso a Chiesa e a Monarchia: anticlericali e repubblicani cominciarono a chiedere riforme che per Chiesa e Monarchia avrebbero significato una consistente perdita di privilegi. Insomma, doveva scorrer sangue, doveva esserci guerra civile per fare un po’ di chiarezza.
Accadde che Chiesa e Monarchia decisero il pugno duro e diedero incarico al generale Miguel Primo de Rivera di fare pulizia di tutta quella teppa relativista, materialista, atea, ergo anticristiana, e al generale andò male, e re Alfonso XIII si esiliò, e alla Chiesa furono sottratti privilegi e beni, e vide luce la Repubblica di Spagna. Radicalmente laicista, anche parecchio massonica, infiltrata di bolscevichi. Preti e classi agiate armarono la plebe a loro fedele, chiesero un aiutino a Hitler a Mussolini, scelsero un caudillo e infine vinsero.
Francisco Franco tenne la Spagna sotto il tallone della sua dittatura per decenni, sempre benedetto da eminenti eminenze e sostenuto da cattolici a 24 carati.
Sarà la terza o quarta volta che don Vicente Cárcel Ortí, uno che fa lo storico per conto della Chiesa, torna sulla Guerra civile di Spagna con un suo articolo su L’Osservatore Romano e, certo, non sbraita come la signora nel video qui sopra, e però irrita lo stesso:
“Con la repubblica si ruppe questa armonia [armonia] plurisecolare e iniziò un gioco sottile, e persino violento, di seduzione e di rivalità fra il potere ecclesiastico e il regime repubblicano. Mentre l’antica monarchia aveva avuto bisogno di una certa sacralità per legittimare e giustificare le proprie ambizioni, e l’aveva trovata nella Chiesa, quest’ultima in numerose occasioni si lasciò tentare dall’idea [fu un peccatuccio] di porre la religione cattolica al centro della società e non esitò a concludere alleanze con il potere politico. In altre parole, l’Altare e il Trono, la Croce e la Spada si aiutarono reciprocamente per essere ognuno al centro della nazione. Tutto ciò provocò aspre lotte e conflitti, che si risolsero però senza grandi traumi [il regno dei cieli non è di questo mondo, dove un poco di ingiustia non guasta], malgrado alcune tensioni nel corso del XIX secolo che furono particolarmente violente e persino cruente [ecco, appunto]. Da un lato lo Stato cercò di sottomettere la Chiesa e dall’altro la Chiesa pretese di controllare il potere politico o di influenzarlo. La storia contemporanea della Spagna è piena di episodi significativi che rivelano la rivalità reciproca fra Chiesa e Stato, in cui le ambizioni degli ecclesiastici a volte suscitarono gesti di intolleranza e reazioni a catena e senza scrupoli [la Chiesa fu attratta dalla spirale della violenza, diciamo]. Questi conflitti spiegano la nascita e lo sviluppo dell’anticlericalismo, che affonda le proprie radici negli ultimi decenni del XVIII secolo e ha assunto caratteristiche più radicali alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, quando l’intransigenza della Chiesa è divenuta più accentuata e l’integralismo di molti sacerdoti e vescovi ha raggiunto il suo culmine. Il trionfo repubblicano del 1931 e lo scoppio rivoluzionario del 1936 furono i momenti culminanti dell’anticlericalismo spagnolo, nato, alimentato e preparato lentamente cento anni prima. La Spagna repubblicana serbò un ricordo tormentato di queste rivalità, il che spiega in molti casi le violenze dell’anticlericalismo [era un anticlericalismo che più lucidamente avrebbe potuto chiedere un clericalismo migliore]. [...] La repubblica non accettò una libertà religiosa generosa e rispettosa [si rifiutò di concedere il soldo e l’inchino]. E la libertà civile e politica che promosse e difese non ebbe fondamenta solide in quanto non riconobbe né riuscì a radicare la libertà religiosa dei suoi cittadini. Questo fu il gravissimo errore della repubblica, soprattutto durante la guerra civile nell’area ad essa fedele, poiché non solo vi fu una persecuzione cruenta contro la Chiesa, ma mancò anche quella libertà religiosa che è il fondamento di tutte le altre libertà […] e coincise con il decennio di maggiore apogeo del paganesimo nazista e del dogmatismo marxista”.
L’affibbiare errori non mi pare igienico da parte di uno storico, ma è che anche qui, come su tutto, in don Vicente prevale il prete.
Mavalà, mavalà
La massoneria non ha mai goduto di buona fama in Italia: condannata dal Papato 586 volte tra il 1738 e il 1983, accusata di cospirare ai danni degli interessi nazionali durante il ventennio fascista, disprezzata dalla cultura che per mezzo secolo è stata egemone in Italia per la critica marxista ai movimenti elitari borghesi, ha finito per ricevere il definitivo colpo di grazia presso l’opinione pubblica nostrana con la vicenda della P2, il comitato d’affari che Licio Gelli strutturò come clone di una loggia del Grande Oriente d’Italia, ma che di fatto la Commissione Anselmi giudicò roba assai poco massonica. Così diffamata, la massoneria non ha mai avuto vita facile da noi, né ha saputo rendersela meno difficile, perché ha finito per andarsi a nascondere nelle vuote ridondanze del simbolico e del rituale, progressivamente banalizzando i suoi principi ispiratori, che sono pur sempre pre-illuministici e pre-liberaldemocratici. Peccato, ma ben le sta.
E però smettiamola di dire cazzate: il mausoleo di Arcore sarà stato commissionato da un piduista, ma non è affatto vero che è pieno di simboli esoterici che rimandano alla tradizione massonica, perché si tratta di una pessima prova di quella architettura cosiddetta “metafisica” che infelicemente si ispirò alle composizioni di Giorgio De Chirico, che non era massone. Trovare analogie tra il tempio di Salomone, costruito dal primo Fratello Muratore, e la pianta del giardino del villone di Silvio Berlusconi – come Caterina Pericone fa su Il Fatto Quotidiano di martedì 28 settembre – è ridicolo.
mercoledì 29 settembre 2010
Varie
Gians sintetizza a meraviglia una faccenda sulla quale io mi sarei dilungato inutilmente. Lo ringrazio per avermelo risparmiato.
Giorni fa ho commentato un’intervista che Pippo Civati ha concesso a Libero, segnalando la sua straordinaria capacità di saper conciliare confusione di idee e velleitarismo, che in varia misura è comune a quasi tutti altri giovani dirigenti del Pd, che non sanno che cazzo vogliono, ma lo vogliono con fiera determinazione. È venuto a lamentarsi fra i commenti, ma onestamente non ho capito di cosa, però mi ha fatto sentire un poco in colpa e mi son chiesto se per caso non fossi stato troppo severo, ripromettendomi di ricalibrare il giudizio alla prima occasione. Eccola: “Ero a Cesena, a Grillo va prestata attenzione, ma ho sentito troppi toni alla Bossi” (il Riformista, 28.9.2010). Quel ma dovrebbe voler significare che, tolti i toni alla Bossi, il grillismo meriterebbe un’interlocuzione politica: il giovane non s’avvede che il grillismo è un leghismo senza terra o con terra virtuale, un web-leghismo, mefitico come tutti i populismi, che non hanno altro fine se non rincorrere umori, col naso dell’istrione o il monitoraggio del demoscopista. Ora, la politica sta all’antipolitica come un progetto di società sta alla liturgia dell’assemblearismo degli autoconvocati (tempo fa l’ho chiamato gentismo). Spiace dire che anche qui Pippo Civati dimostra confusione di idee e velleitarismo.
Bella pagina di Federico Orlando (Europa, 28.9.2010), come sempre quando parla del suo Montanelli. Stavolta ritorna sul periodo in cui il suo Indro subì da il Giornale lo stesso trattamento che poi sarebbe stato riservato a Fini. Dimentica di dire che a Montanelli fu rimproverato fino alla morte di essersi accorto troppo tardi di chi davvero fosse Berlusconi, e solo dopo morto il rimprovero cessò del tutto.
martedì 28 settembre 2010
Il generale incretinimento
La battuta fatta da Umberto Bossi a Miss Padania 2010 è puerile e loffia, da cinepanettone. E infatti, come qualcuno ha fatto notare, è presa da S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa (sceneggiatura di Enrico e Carlo Vanzina, il secondo anche alla regia, 1994): la fa Antonio Servilio (Massimo Boldi), un integerrimo magistrato padano in una Roma antica fatta di cartapesta. Battuta loffia e puerile, pensata e scritta tra Trastevere e lo Stadio Olimpico, ma fatta da un leghista indigna tutta Roma, e c’è chi addirittura mette mano al gladio pronto al bellum civile, mentre altri starnazzano come oche in Campidoglio per il barbaro attacco alla città eterna.
Non vorrei sembrare eccentrico, ma a me pare che a indignarsi si sia più cretini di Umberto Bossi, e mi astengo dal giudizio sull’indignazione sublimata in ironia con iridescenze di vittimismo, che pure s’è vista in giro. Si sono tenuti dibattiti in tv, per questa stronzata, e la blogosfera è stata ancora una volta fedele carotaggio del generale incretinimento della comunicazione pubblica, dall’alto lamento sulla tomba della buona educazione al basso botta e risposta da curva a curva.
Pare che Fabrizio Corona tradisse Nina Moric con Lele Mora
Notizia da far accapponare la moquette di molte discoteche.
lunedì 27 settembre 2010
Viaggio intorno alla mia camera
“ognuno affronta il viaggio come può”
I. Nei vecchi libri e ancor di più nelle vecchie riviste s’annidano parassiti che secernono sostanze lisergiche, almeno per quanto mi riguarda, perché ogni volta che salgo sugli scaffali alti – è lì che metto la carta stagionata – ho un trip. Accade – quasi sempre, ma non solo – quando, nauseato del mondo e delle sue follie, mi viene voglia di vomitargli in faccia due righe, ma poi m’accorgo che sono tanto nauseato da non volergli dare neanche questa soddisfazione, al mondo. In questo caso – sempre più frequente negli anni – rinuncio: mi elevo dal basso livello in cui giacciono tv, radio, pc, telefono e giornali: sistemo la scaletta e, piolo dopo piolo, conquisto vette dove l’aria è tersa e l’uomo mi pare meno bestia: evito il presente e mi dedico al passato. E più il presente mi disgusta, più salgo e vado indietro. Vedo Veltroni? Tirò giù le annate di Rinascita. Leggo un incipit di Veneziani? Mi ci vuole un Adriano Romualdi del 1965. M’imbatto in un dibattito pubblico tra Oscar Lafontaine e Paolo Ferrero? Mi riprendo solo col mitico n. 23-24/1965 dei Quaderni Piacentini. Non è una cura: sarei tentato dall’ipotesi che si tratti di ascesi spirituale, se non fosse che mi nausea pure la metafisica: mi vien da credere che dalla carta stagionata opportunamente parassitata si sprigionino tossine psicotrope dallo stupefacente effetto calmante, collateralmente antiemetico, con corteo di traveggole e vertigini, però sempre gradevoli.
Se non mi sono spiegato bene, consentite che provi con un esempio: mi capita tra le mani, dopo tanti anni, un numero di Panorama, quello in edicola venerdì scorso; e lo sfoglio (devo dire: con un anticipo di antipatia verso ogni pag.); e a pag. 21 mi piglia una tal nausea da avere un irrefrenabile bisogno di buttare giù due righe; ma qui desisto e mi decido per l’ascesi... Ma forse è necessaria una digressione.
II. Dare Panorama a chi ha chiesto l’Espresso è svista da non considerare grave se l’edicolante è sulla sessantina e va verso i settanta: dai tempi di Tangentopoli, ma forse già dai tempi della caduta del muro di Berlino, le differenze tra i due fascicoli sono venute a farsi evidenti anche ai distratti, ma per lunghi decenni hanno avuto forti analogie di contenuti e stili, talvolta lo stesso culo in copertina, e ogni analogia, quando consolidata, ha una certa inerzia da stasi nel processo di divaricazione. Sarebbe più corretto dire contrazione al posto di distrazione: i culi cominciano a non somigliarsi più, contenuti e stili cominciano a divergere, ma distraendoti ti sembrano sempre uguali: l’inerzia ti contrae la vista, uno ti chiede l’Espresso e tu gli dai Panorama.
“Non è grave”, ho detto all’edicolante che mi serve da una vita e col quale ho un po’ di confidenza, ma ho aggiunto: “Però lo faccia ancora, signor Peppe, e le do fuoco al pollaio”.
“Non ho tempo per leggerli, li vendo solo. E mi sono sembrati sempre un doppione…”.
“E lo erano, ma dica: probabilmente un tempo non poteva fare differenza tra le facce di chi chiedeva l’Espresso e di chi chiedeva Panorama, ma adesso?”.
“A pensarci è vero: chi chiede Panorama ha quasi sempre una faccia da farmacista… Non so se mi spiego…”.
“Magistrale impressionismo… E mi dica: ho per caso la faccia da farmacista, io?”.
“Adesso no, ma c’è stato un periodo in cui l’aveva”.
“Ok, mi tengo Panorama”.
Chiusa la digressione.
III. A pag. 21 di Panorama (39/XLVIII) c’è un tizio (ci mette anche la faccia) che elogia la riforma Gelmini, che “in fondo vuole ripristinare severità ed efficienza”.
Ripristino mi dovrebbe significare che un tempo la scuola aveva severità ed efficienza, e che oggi non le ha, progressivamente perse, ma adesso ci pensa la Gelmini. Parlerà di una scuola severa ed efficiente con cognizione di causa, questo rubrichista? Non pare proprio: gran casinista al liceo, inconcludente all’università, sempre in evidenza per la pessima condotta e il pessimo profitto. Ma allora di quale scuola parla? Avrà mica in mente le sue elementari moscovite? Dice che la scuola deve tornare ad essere “un’istituzione collegiale tendenzialmente severa”, ma deve trattarsi di una scuola che già non c’era più ai tempi suoi. Nostalgie di purezze sfuggite per un soffio, come quando arrivi a capire che l’embrione è tuo fratello solo dopo che ne hai fatti fuori tre.
“Questo è l’unico modello di scuola che integra, che esprime e giustifica la stessa nozione di istruzione pubblica. Il resto è canto, swing mentale, musica leggera”. Lo guardi e l’artista swing sembra lui, un Gorni Kramer o giù di lì. Presto, la scaletta, qualunque cosa sia almeno a tre metri di altezza... Una boccata di De Maistre, una pagina di Evola, qualunque cosa...
I presupposti
Ecco i primi risultati della sconsiderata campagna contro l’elevato numero di parti cesarei in Italia, sulla quale mi ero permesso di avanzare qualche dubbio già nel 2002, quando a sollevare il problema furono i Radicali, sempre primi in tutto, e per i quali si era di fronte ad un fenomeno analogo a quello delle mutilazioni genitali femminili: “La donna aveva chiesto il parto cesareo ma per la clinica non c’erano i presupposti per eseguirlo” (ansa.it, 26.9.2010). Vi chiederete quali fossero i “presupposti”, li troverete nelle linee guida che il Ministero della Salute ha emanato qualche mese fa (le commentavo qui). Prima di quella data, un medico avrebbe potuto decidere in pace, arrivando perfino a lasciare libertà di scelta alla donna: se vuole partorire con un taglio cesareo, perché non dovrebbe essere rispettata la sua volontà? Del proprio corpo si dovrebbe poter decidere liberamente: perché ci si può rifare naso e tette, e non si può essere libere di partorire come meglio si crede? Ma qui, nel nostro caso, la cosa più grottesca è che sulla lotta al parto cesareo Ministero della Salute e Radicali una volta tanto si trovano d’accordo, anzi, c’è l’onorevole Maria Antonietta Farina Coscioni che continua a sollecitare il governo con le sue interrogazioni parlamentari sul massacro di pance che si consuma lungo la Penisola. Ecco i primi risultati: niente cesareo, parto spontaneo e, voilà, il feto muore. Poi, sì, certo, va’ a capire se non fosse destino... Una cosa è sicura: sono state rispettate le linee guida del Ministero e prosegue la battaglia radicale contro le mutilazioni genitali femminili nostrane. E dunque stavolta faremo un’eccezione: metteremo questo morto in conto ai Radicali. Qualcuno, so bene, cinicamente commenterà: “Un feto in più, un feto in meno… Non batteranno ciglio”. Sbagliato: questo qui era un feto voluto, uno di quelli sacri pure ai Radicali.
5:35-5:42
A me pare che il video diffuso ieri da Gianfranco Fini sia buono, molto buono, però penso che potesse fare anche meglio, molto meglio, e mi riferisco in particolar modo al punto in cui ha detto: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera” (5:35-5:42). Invece di quel “lasciare la Presidenza della Camera”, io ci avrei messo un semplice “rompergli il culo”, con ciò ribadendo la sostanza di quanto sta nei fatti, e solo in quelli certi, rigettando dunque tutte le suggestioni sulle quali è imbastita la tesi di Vittorio Feltri, che ha finito per guadagnare qualche credito di legittimità solo perché insistentemente riproposta all’opinione pubblica, sensibile all’insistenza con la quale è avanzata una tesi e refrattaria al dubbio sulla solidità degli argomenti che dovrebbero dimostrarla.
Tale credito di legittimità è in qualche modo riconosciuto anche da Fini nel contemplare, qui per la prima volta, l’eventualità delle sue dimissioni e di fatto – ripeto: di fatto – poco importa se con ciò voglia ammettere di essere alle prese con una questione morale o non sia piuttosto costretto a concedere che tale sia diventata pur non essendolo mai stata: “non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera”, dice, e con ciò fa sua la tesi alla quale Feltri è stato capace di dare legittimità. È un cedimento che non avrei concesso: fuor d’ogni suggestione, la questione non è politica, tanto meno istituzionale, ma solo familiare, dunque privata. Intendo dimostrarlo, naturalmente, tanto più che su queste pagine non ho mai neppure sfiorato la vicenda, ma prima voglio sgombrare il campo da quanto lo rende fertile alle suggestioni.
Inizierei col dire che l’immobile fatto oggetto di tante attenzioni in questi mesi non è un bene pubblico: gli può esser data attenzione come proprietà di An, si possono sollevare dubbi sulla sua vendita, ma, ammesso e non concesso che Fini ne abbia tratto qualche utile diretto o indiretto ai danni di An, la questione diventa pubblica – perché Fini è persona pubblica – solo quando questo sia processualmente dimostrato, e ci siamo ancora assai lontani.
Ora, “se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario”, sarebbe dimostrato che “la mia buona fede è stata tradita”, non già che a Fini sia tornato un utile ai danni di An: per dimostrare questo c’è bisogno di una sentenza che lo dichiari colpevole di furto, truffa, ecc. Qui sarebbe dimostrato che Fini è penalmente colpevole e moralmente abietto: potrebbero esserci gli estremi per la decisione di dimettersi, laddove ne sentisse il dovere in ossequio alla coerenza che gli ha fatto dire in più occasioni che un servitore dello Stato non deve avere macchie, né godere di impunità (eventualmente qualche “scudo”). Ma prima di una sentenza del genere, se mai vi si giungerà, che senso ha promettere di dimettersi? Dov’è dimostrato che sono moralmente abietto se “la mia buona fede è stata tradita”? Dov’è dimostrata la macchia che mi rende indegno di continuare a servire lo Stato?
Ciò detto, veniamo al punto cruciale. Fini ritiene di essere fatto oggetto di una campagna denigratoria mirante a sollevarlo dalla carica che ricopre e ritiene che gli strumenti usati siano quelli del “metodo Boffo”. In realtà, nel caso dell’ex direttore di Avvenire, certo consensualmente, il Giornale fu usato nella partita dell’Istituto Toniolo, peraltro ancora aperta. E tuttavia, estrapolando il solo strumento tattico, eravamo in presenza di un dato reale (una condanna per molestie) sulla quale veniva costruita una trama poi rivelatasi falsa (“noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato”): il dato reale non avrebbe sortito alcun effetto, se non l’avesse sortito quello falso, ed è questo che ancora oggi non rende del tutto chiare le ragioni di quelle dimissioni, se non chiamando in causa la guerra ancora in corso tra bertoniani e ruiniani. Ma se di “metodo Boffo” si è trattato anche nel caso della campagna contro Fini, non c’era miglior modo per neutralizzarlo che rigettare la logica che fa debole alla calunnia, piuttosto che farla propria perché la si vede trovar credito pubblico. Perché nel primo caso si cade in piedi, nel secondo si batte di testa.
E dunque: “Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a rompergli il culo. Sfido chiunque a dimostrare che io abbia tratto vantaggio dai suoi eventuali maneggi e intanto rimango alla Presidenza della Camera perché mi so innocente di quanto calunniosamente mi si accusa sulla base di quella eventualità”.
domenica 26 settembre 2010
Gauguin devoto
Nel dar notizia che “una grande mostra dedicata a Paul Gauguin sarà inaugurata il prossimo 30 settembre alla Tate Modern di Londra”, L’Osservatore Romano titola L’esotico devoto (26.9.2010). Sapevate di un Gauguin devoto? Nemmeno io. Sapevo – e l’articolo me ne dà conferma – che fosse un “caustico anticlericale”: L’Église catholique et les temps modernes, che scrisse nel 1898, mi era sembrato – e l’articolo me ne dà conferma – “un pamphlet contro il cattolicesimo”. Cosa dimostrerebbe la sua devozione? Un quadro – “una sorta di opera-testamento”, scrive Sandro Barbagallo – nel quale sarebbe evidente che per Gauguin “dalle parabole di Cristo si potessero ricavare verità profonde”. Qui c’è da trasecolare.
Il quadro è del 1897, dunque antecedente al suo libello anticlericale, e questo – è vero – può non voler dir nulla (si può essere cristiani e insieme anticlericali; si può essere devoti nel 1897 e non esserlo più nel 1898), ma il fatto è che in esso non v’è alcun riferimento a Cristo, tanto meno alle sue parabole, e l’unico elemento di carattere religioso è la statua di un idolo tahitiano,
in tutto simile agli altri che Gauguin ritrasse in almeno altri sette suoi dipinti, su analogo basamento.
Rimanesse qualche dubbio, ci è rimasta una sua lettera a Daniel de Monfreid, nella quale si intrattiene a lungo sul dipinto senza che gli scappi un solo cenno a Cristo e alle sue parabole.
C’è un punto, è vero, in cui Gauguin scrive di aver voluto dipingere un quadro che avesse la traccia narrativa di un gospel e da questo Noemi Margolis Maurer deduce che “he conceived of it as a religious parable” (The Pursuit of Spiritual Wisdom, Fairleigh Dickinson Univ. Press 1998 - pag. 168), ma, ammesso che la deduzione sia esatta, si tratterebbe di una parabola di Gauguin, non di Cristo, e dal testo della lettera si evince che l’allegoria è animista, non cristiana. Può darsi che Barbagallo abbia letto il libro della Maurer, ma lo ha letto male e perciò scrive una grandissima cazzata.
Non basta. Nel tentativo di darci ad ogni costo qualcosa che faccia di Gauguin un buon cristiano, Barbagallo scrive: “Gauguin non amava parlare degli studi teologici della sua giovinezza al Petit-Séminaire de la Chapelle-Saint-Mesmin, nei pressi di Orléans. Dall’età di undici anni, infatti, oltre alle altre materie, studiò Liturgia, insegnata dal vescovo di Orléans, Félix-Antoine-Philibert Dupanloup”. È esatto, ma occorre precisare che non scelse di andare al Petit-Séminaire, che vi restò solo tre anni e che si trattava di comuni lezioni corrispondenti alla nostra ora di religione: non era poco per poter millantare di aver fatto studi teologici?
Ancora: “Nel villaggio di Atuana, compra dal vescovo Martin un appezzamento di terra e fa costruire una nuova casa, che chiama Maison du jouir, dove muore l’8 maggio del 1903. Il vescovo Martin, purtroppo, distrusse alcune opere che considerava blasfeme e oscene. Ciononostante permise che la salma venisse sepolta nel cimitero della chiesa della missione, ma senza un nome”. È una sintesi che edulcora non poco i fatti, perché tra il vescovo e il pittore ci fu sempre un sano odio reciproco. Un discorso a parte meriterebbe quel “ciononostante”, ma non dimentichiamo che Barbagallo scrive per L’Osservatore Romano. Chiediamoci piuttosto come ci arriva.
Nato nel 1973, si è laureato in Storia dell’Arte Contemporanea con una tesi su Simona Weller, che ha sposato nel 2004.
Ventisette anni di differenza, ma pare una coppia felice. La Weller è l’artista che Benedetto XVI ha scelto per la medaglia commemorativa dell’Anno Paolino, non si capisce perché il maritino non possa fare il critico d’arte sul giornale del papa.
venerdì 24 settembre 2010
Poteva bastare la fede
“Uno studio basato su 14 simulazioni al computer, condotto dallo Us National Centre for Atmosphere Research e dall’università del Colorado, pubblicato dalla rivista online Public Library Research e anticipato ieri dalla stampa britannica, sostiene che un vento con una velocità di 100 chilometri orari, che spirasse per almeno dodici ore, avrebbe potuto creare un «ponte» di terra lungo 5 chilometri e largo 3 per all’incirca quattro ore. Più che sufficiente per consentire a Mosè e al suo popolo di passare dall’Egitto al Sinai nel loro viaggio verso la Terra Promessa, verso Israele” (repubblica.it, 23.9.2010 – via PPR). C’era bisogno delle simulazioni al computer? Poteva bastare la fede, eventualmente la cache di Google Earth.
giovedì 23 settembre 2010
Vedremo
L’altrieri, quasi un secolo fa - “Dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica è Bernardino Nogara”, così alla sua morte, nel 1958, il cardinale Francis Joseph Spellmann, arcivescovo di New York. Per un quarto di secolo, dal 1929 al 1954, il compianto aveva gestito, accrescendolo enormemente, il patrimonio dell’Amministrazione delle Opere di Religione (1929-1942), già Commissione delle Opere Pie (1908-1929), che grazie al Concordato si ritrovava nelle casse il miliardo di lire graziosamente donato dall’“uomo della Provvidenza”, il cavalier Benito Mussolini. Nogara aveva posto due condizioni all’assunzione dell’incarico: “(1) Qualsiasi investimento che scelgo di fare deve essere completamente libero da qualsiasi considerazione religiosa o dottrinale. (2) Devo essere libero di investire i fondi del Vaticano in ogni parte del mondo”; e gli furono accordate. “Fra il 1929 e l’inizio del secondo conflitto mondiale Nogara piazzò i capitali vaticani, con i relativi agenti, nei più vari settori dell’economia italiana, particolarmente in quelli dell’energia elettrica, delle comunicazioni telefoniche, del credito bancario, delle ferrovie locali, della produzione di macchine agricole, del cemento e delle fibre tessili sintetiche” (Nino Lo Bello, L’oro del Vaticano, Edizione del Borghese 1971).
Nel 1942 l’Amministrazione delle Opere di Religione diventa Istituto per le Opere di Religione (Ior), al quale il Regime concede l’esenzione delle imposte sui dividendi, rendendolo di fatto un potentissimo intermediario finanziario off shore per la ricaduta dei privilegi e delle agevolazioni che le normative di molti stati, in primo luogo l’Italia, accordano al Vaticano. Non c’è da stupirsi che in questo modo lo Ior diventi in poco tempo una fantastica macchina per riciclare molto denaro sporco e farlo fruttare. Non tutto viene alla luce perché “lo Ior, in quanto istituto che opera con modalità proprie, non è mai stato tenuto a nessun tipo di informativa, né verso i propri clienti, né verso terzi, né tanto meno a pubblicare un bilancio o un consuntivo sulle proprie attività” (Ferruccio Pinotti, Poteri forti, Rizzoli 2005), ma quello che di tanto in tanto è fin qui emerso dà un’idea della clientela che ha servito. Dal 1960 ad oggi sono provate innumerevoli prestazioni dallo Ior fornite a mafiosi, tangentisti e perfino trafficanti d’armi, anche se la parte più consistente del malaffare è sempre stato di più basso profilo criminale, nelle varie forme dell’evasione fiscale.
Ieri, quasi oggi - Scandali sempre più imbarazzanti. I privilegi vaticani riescono a neutralizzarli sul piano giudiziario, ma non possono molto su quello del danno d’immagine. Si arriva al punto che Angelo Caloia, presidente del Consiglio di sovrintendenza dello Ior dal 1989 al 2009, scrive preoccupato al segretario di Stato, il cardinale Angelo Sodano, come se in mano avesse una macchina che ormai produce reati finanziari in modo autonomo, in forza di dinamiche incontrollabili: “Si ha la sensazione netta che ci si trovi di fronte, tutti, a un potenziale esplosivo inaudito, che deve essere doverosamente portato a conoscenza delle più alte autorità” (in: Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A., Chiarelettere 2009). Diventa necessaria una bonifica: “Dall’inizio di quest’anno, gli organi della Banca d’Italia e dello Ior operano in stretto collegamento proprio in vista dell’adeguamento delle operazioni dello Ior alle procedure antiriciclaggio. A questo scopo è stato istituito nell’ambito dello stesso Ior un ufficio di informazione finanziaria, sotto il controllo del cardinale Attilio Nicora. E in questa direzione vanno lette la costante collaborazione con l’Unione europea e soprattutto le missioni intraprese nei mesi scorsi dai vertici dello Ior a Parigi, sede dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e del Gafi (Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di capitali). Ai due organismi è stata allora prodotta la documentazione per l’iscrizione della Santa Sede alla cosiddetta White List, che raccoglie i Paesi che aderiscono alle norme antiriciclaggio. Per l’adeguamento alle esigenze che nascono dall'inclusione della Santa Sede tra gli Stati che operano contro il riciclaggio e il terrorismo, il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, ha anche nominato un’apposita commissione presieduta dallo stesso cardinale Nicora. La direzione dello Ior è inoltre impegnata da tempo [poco più di un anno, non di più] ad adeguare le sue strutture informatiche alle regole vigenti in materia di lotta al riciclaggio. Così lo Ior intende porsi sulla stessa linea delle banche italiane” (L’Osservatore Romano, 23.9.2010).
E tuttavia parrebbe che lo Ior abbia continuato a movimentare denaro sporco: la Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior da poco più di due anni, e Paolo Cipriani, direttore generale, per violazione delle norme antiriciclaggio. Vedremo.
Come sempre, quasi mai - Il presidente si difende, dice che non era riciclaggio, ma soltanto “un giroconto Ior su Ior: semplicemente abbiamo trasferito del denaro per investirlo in bond tedeschi [ma il diavolo s’è messo di traverso e s’è verificato] un errore nelle procedure. [Cazzarola, cerchiamo di darci una ripulitina e] finiamo nel mirino proprio nel momento in cui stiamo lavorando più alacremente possibile per applicare la norme antiriciclaggio[?] [Insomma,] stiamo lavorando per entrare l’elenco dei Paesi che rispettano le norme internazionali antiriciclaggio e contiamo di farcela per dicembre [, non sarebbe stato carino nei confronti del Papa chiudere un occhio per due o tre mesi?]” (il Giornale, 22.9.2010). E chi può essere il fetente che rifiuta un favore alla banca dove il Papa ripone l’Obolo? Mussolini non osò. La Dc salvò il culo a Paolo VI pure sulla cedolare secca. Mai un prelato sfiorato da un giudice, mentre intanto morivano Sindona ed Ambrosoli, De Pedis e Gardini. Negare un trattamento di favore al Papa rivela odio anticlericale. E dunque chi sta a tirare i fili di quello che dev’essere sicuramente un complotto laicista e anticristiano? Non è sospetto che si vada a far clamore per il movimento di una irrisoria somma di 20 miserabili milioncini di euro proprio dopo il trionfale tour inglese di Sua Santità?
La quasi totalità dei vaticanisti italiani pone la questione proprio in questi termini (e io perciò li schifo).
martedì 21 settembre 2010
“Da vari decenni”
Sarebbe stato illogico, disse Mussolini, che il XX Settembre restasse festa nazionale dopo il Concordato, e disse proprio “illogico”. La logica era quella che reggeva il Concordato e infatti la richiesta di abolire le celebrazioni ufficiali gli veniva da Pio XI, subito accolta. Non è affatto carino festeggiare una vittoria riportata su chi ti è diventato amico: non puoi cancellare la data dal calendario, non puoi impedire che nella ricorrenza qualcuno senta ancora vive le ragioni che furono di qua e di là dalle mura leonine, ma nemmeno puoi rendere solenne, tanto meno festoso, il ricordo della presa di Porta Pia. Al papa brucia ancora il culo, non è bello fargli questo sgarbo: ti ha definito “uomo della Provvidenza”, ti ha tolto dai coglioni le associazioni cattoliche che ti davano fastidio, ti benedice i manipoli e i gagliardetti, e in cambio ti chiede solo il dovuto rispetto. Già è tanto che da qualche tempo, facendo di necessità virtù, ha preso a dire che la perdita del potere temporale è stata per grazia divina: non potresti evitare di rammentargli ogni anno che è stata per sconfitta militare? Bene, sposta la festa nazionale dalla data in cui è caduto lo Stato Pontificio a quella in cui è sorto lo Stato della Città del Vaticano. Fatto, nel 1930.
Chi ha festeggiato il XX Settembre in questi 80 anni? Giusto quattro gatti spelacchiati. A 140 anni da Porta Pia è venuto il momento di fare un altro favore al papa: si può farglielo, miagoleranno solo quei quattro gatti. Si tratterebbe di cancellare ogni memoria dei fatti, facendo della data l’occasione per festeggiare la gentile concessione che il Papato fece all’Italia. E infatti cosa dice il cardinal Tarcisio Bertone? “Siamo raccolti in un luogo altamente simbolico per compiere un atto di omaggio verso coloro che qui caddero. Dal loro sacrificio e dal crogiuolo di tribolazioni, di tensione spirituale e morale, che quell’evento suscitò, è sorta però una prospettiva nuova, grazie alla quale ormai da vari decenni Roma è l’indiscussa capitale dello Stato italiano…”.
“Da vari decenni”. Perché non “da più di un secolo”? Perché Roma è “indiscussa” capitale dello Stato italiano solo dal 1929 in poi, non dal 1871. La logica che porta clericali e fascisti ad abolire la festa nazionale del XX Settembre in coerenza al Concordato è la stessa che porta Bertone e Alemanno a festeggiarlo come evento condiviso. E hanno tutto il diritto di farlo: in un’Italia che dal 1930 in poi non ha mai coltivato la memoria di Porta Pia, chi ha il diritto di lamentarlo come mistificazione storica?
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