domenica 7 novembre 2010

Charles Freeman, Il cristianesimo primitivo, Einaudi 2010



Splen-di-do.


D'un Dio intrigante




Elogio della bistecca



Quando dice che è “meglio essere appassionato delle belle ragazze che gay”, non ci mette a confidenza delle sue preferenze sessuali, peraltro arcinote, e non sottintende alcun “per me”: fa un discorso pubblico, e da posizione autorevole, circa la presunta oggettività di un “meglio” che dovrebbe essere autoevidente. Qui, all’accusa di abuso di potere (e al biasimo morale perché va a puttane) oppone una fiera rivendicazione della sua eterosessualità, ma chi gli ha mai rimproverato d’essere eterosessuale? E allora che c’entrano i gay?
La sua è una risposta che non avrebbe senso logico né forza di argomento neppure se le accuse gli venissero solo dai gay, ed è come se uno, pizzicato a rubare bistecche, si difendesse dicendo: “Meglio che rubare spigole”. Sarà, dipende, è questione di gusti alimentari, ma sei chiamato a rispondere di furto di bistecche e ti difendi dichiarando che preferisci la carne al pesce, come se la questione non riguardasse te. Può funzionare solo se trovi chi sia disposto a stornarla e allora ecco il vescovo di Foligno, monsignor Arduino Bertoldo, disposto a darti una mano con l’elogio della bistecca: “Non capisco il putiferio davanti ad un’affermazione di Berlusconi tanto evidente ed ovvia: meglio amare belle ragazze che seguire omosessuali. Lui ha fatto solo una comparazione, ma non ha screditato nessuno. […] Non ha detto niente di male, credo che per ogni uomo normale sia bello innamorarsi di una donna e non di un omosessuale: la natura e la vita dicono che la inclinazione dell’uomo é verso la donna e non l’uomo e viceversa”.
Ma ce n’è pure per la spigola: “Purtroppo se questa stessa affermazione a parti invertite la avesse fatta un altro leader, tutto sarebbe passato in silenzio. Tempo fa un uomo politico gay ha detto che viveva con un uomo, ma non ho sentito stracciarsi di vesti tra gli etero”.

venerdì 5 novembre 2010

[...]


“Where they did form, Christian Democratic parties did not necessarily come out in favor of modern democracy. «Democratic» meant something more like «popular», or being from and among the people. It was no accident that «volk» and «popolari» became key words in the names and rhetoric of Catholic parties in Western Europe”

Jan-Werner Müller, Making Muslim Democracies
(Boston Review, nov/dec 2010)

[grazie a Giovanni L. Ciampaglia per la segnalazione]

giovedì 4 novembre 2010

Pare



Pare che la Benini rubacchi idee alla Soncini, pare che sia già accaduto “tre o quattrocento volte”. Per il genere letterario in oggetto manco di strumenti critici adeguati a una seria analisi comparativa, ma la Soncini m’è simpatica e la Benini mi sta sul cazzo, quindi mi sbilancio in favore della prima: c’è rubacchiamento.    


Un altro è andato


Però cosa stiamo a parlare di merito e meritocrazia
se poi basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe
per salvarsi la buccia in caso di bisogno e ottenere anche
qualche regalino extra? E' tutta una contraddizione,
non regge più il giochino. Mi dispiace ma io sono schifato.

"basta essere belle, giovani e avere le gambe lunghe"… Caro mio,
ti capisco, ma dove vivi? Guardati intorno. Nessuna "regola"
potrà mai i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente.
Vale per uomini e donne, in tutte le circostanze,
da una fila alla posta ad un esame universitario. E' la vita...




L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi è stato cinque minuti fa, al telefono. L’ho chiamato per chiedergli spiegazioni su quanto aveva scritto in risposta ad un lettore nella pagina dei commenti ad un suo post (Procure scatenate e gioco di squadraJimmomo, 2.11.2010): mancava un verbo e, anche se il senso della frase era chiaro, volevo essere sicuro. La frase: “Nessuna «regola» potrà mai [qui c’era il buco] i piccoli-grandi vantaggi di un aspetto attraente”.
Gli ho chiesto se fossi in errore a immaginare che lì fosse saltato qualcosa del tipo “neutralizzare sul piano della competizione” o, chessò, “impedire che il merito lasci il passo a”, insomma, se si trattasse proprio di una presa di coscienza tra il cinico e il rassegnato, insomma, la presa di coscienza di chi ha capito come gira il mondo e ha deciso di farlo girare come gira. Me l’ha confermato: “Non che sia giusto, ma purtroppo è così”. Ma forse è meglio spiegare com’è.

È che per anni e anni – l’ho conosciuto nel 2002, forse nel 2003 – l’argomento preferito di Federico è stato il merito: l’importanza delle regole era sovrana in gran parte delle sue riflessioni pubbliche e, almeno per quanto mi riguarda, in ogni sua conversazione privata (e non ricordo le abbia mai messe tra virgolette). Meritocrazia e regole contro ogni abuso e privilegio per una società un poco più decente, eccetera: robe così, da patetici liberali dei bei tempi andati, Federico era così. È che il patetico liberale dei bei tempi andati è andato: “Non è giusto, ma è la vita”.
Avevo capito bene e infatti anche la sua risposta al lettore chiudeva a quel modo: “È la vita…”, così va il mondo, “guardati intorno”, non ci si può far niente. Sì, però, “purtroppo”. E la società un poco più decente?

Quando ho aperto dicendo: “L’ultima volta che ho parlato con Federico Punzi…”, intendevo dire che è proprio l’ultima. E mi dispiace perché mi rimane una curiosità: saranno spuntate tette e gambe lunghe anche a lui?

“Questo vecchio con la lingua di fuori”



Ho scritto che “gli rimane solo da cagare sul centrotavola”, ma anche lì, a quanto pare, non gli mancherà l’indulgenza e anche la simpatia di un bel pezzo del paese, oltre all’entusiastico plauso degli adoratori ad oltranza, i professionali e gli amatoriali, che senza meno troveranno sublime lo stronzo sul centrino. C’è da rimanere depressi? Non più di prima: stavolta è toccata ai gay, questo è tutto. Indignati? Non molto di più del solito, vedrete che anche stavolta dirà che è stato frainteso, anche se non lo dirà subito, perché prima vorrà consolidare la fidelizzazione con gli omofobi più riluttanti a rivelare la propria omofobia. Sgomenti? Solo nell’errore di credere che Silvio Berlusconi sia tanto diverso dal paese che lo vota e che lo vuole: anche chi lo sceglie come menopeggio ha in sé un po’ di “questo vecchio con la lingua di fuori, ma può solo proiettarlo in lui, non avendo 5.000 euro a botta.
Non ha bisogno di pensare troppo a ciò che dice, lui, non ha bisogno di calcolare i pro e i contro, la convenienza e il danno: ha la stessa pancia del paese, è sintonizzato con gli umori più nascosti perché più profondi, che poi sono anche quelli meno controllabili perché meno ponderabili. L’omofobia degli italiani è atavica, ancestrale, latina, cattolica, fascista e anche comunista: l’ometto fluttua in una falda, profonda, ma pronta a riaffiorare se le si dà foce, cioè voce.

Siamo alla solita questione: bisogna tollerare gli intolleranti? Possiamo consentire che pregiudizi discriminatori vengano celebrati come verità radicate nella natura umana in nome della lotta al relativismo?
Silvio Berlusconi è solo il “potente medium del cosiddetto «carattere nazionale» (un patetico e disperato conte Mascetti, ma con tanti soldi) e questo carattere è innanzitutto cultura che si spaccia per natura (patetico e disperato sessismo che ha la pretesa di fondarsi in verità biologica): se in nome della tolleranza consentiamo questo spaccio, forniamo alibi alla discriminazione sulla base di una presunta verità naturale. Si possono censurare affermazioni del tipo “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay, ma solo dopo aver negato che l’eterosessualità incarni una verità biologica, facendo cadere le ragioni di quell’ego che si fa centrale in un “meglio che implica un “peggio in ogni diverso.
È chiaro che Silvio Berlusconi non l’ha detta in senso omofobico, ovvero di paura o disprezzo verso gli omosessuali, ma solo in senso egocentrico (Il Foglio, 13.11.2010). Non ci libereremo mai di “questo vecchio con la lingua di fuorifino a quando penseremo di doverlo tollerare come espressione di un esuberante orgoglio nel sapersi dove comunque sta il “meglio”.


Prerecensione


“Venerdì 5 novembre prossimo alle ore 18.00 presso la Libreria Internazionale Paolo VI in via di Propaganda, 4 a Roma si terrà l’incontro per la presentazione del volume «1943 Bombe sul Vaticano» a cura di Augusto Ferrara (Coedizione LEV – Augusto Ferrara Editore)” (zenit.org, 3.11.2010).
Trattandosi di un libro che esce per i tipi della Libreria Editrice Vaticana (la coedizione coi tipi della casa editrice del curatore è scarsamente significativa, tutta di comodo), sarà interessante darci un’occhiatina, per vedere se la versione dell’episodio trattato in questo volume è la stessa – e falsa – che si è tentato di accreditare alcuni mesi fa, quando il giornale del papa, a contorno della riciclatissima – e falsa – storiella di un tentato rapimento di Pio XII (non rapimento mistico, ma sarebbe stato ordito dalle Ss, in realtà inventato da Karl Wolff, in cambio di un lasciapassare vaticano per l’America del Sud, uguale a quello dato a tanti altri gerarchi nazisti), ci rifilò un articoletto ambiguo e vago a firma di Lina Vagni Sansone (Bombe sul VaticanoL’Osservatore Romano, 15-16.3.2010), nel quale la falsità che a bombardare il Vaticano fossero stati i nazisti non era affermata, questo no, ma insinuata, in modo assai sporco. Descritti gli eventi, senz’alcun cenno al fatto che quelle quattro (forse tre) bombe furono sganciate da un aereo della Rsi (cose note da tempo), l’articolo chiude così: “Che dire? Il «connivente» Pontefice rischiò di vedere bombardata la sacra basilica, la tomba del Principe degli Apostoli, per il suo «complice silenzio»!”. L’ironia induce a suggestione: se quelle bombe possono dimostrare che Pio XII non fu affatto «connivente» – e dunque il suo «complice silenzio» è solo una leggenda nera – vuoi vedere che a bombardarlo fu la Luftwaffe?
In realtà, l’episodio è chiaro da tempo (anche per questo non si capisce che senso abbia il libro di Augusto Ferrara, ma ce lo procureremo e vi faremo sapere). A sganciare quelle quattro bombette a basso potenziale fu il sergente Parmeggiani, uomo di Farinacci, decollato da Viterbo nella serata del 5 novembre. Sul perché e sul come già è stato detto tutto, basti quanto in Roma 1943 (Paolo Monelli – Migliaresi 1945; Einaudi 1993) e ne Il Vaticano nella seconda guerra mondiale (Giorgio Angelozzi Gariboldi – Mursia 1992; Mursia 2007): fu una brillante idea di Farinacci, che intendeva attribuire quelle bombe agli anglo-americani dalle pagine de Il Regime Fascista, come accadde il 7 novembre (La Città del Vaticano bombardata) e il 13 novembre (Anglicani e badogliani contro il Vaticano).
Si parlò del ritrovamento di una bomba inesplosa di fabbricazione inglese: non era vero. E Mussolini non ne era al corrente: mostrò contrarietà, quando ne fu informato. Ecco, dunque, la vera natura della suggestione che L’Osservatore Romano tentava di farci passare per bombardamento nazista, come un fascista tentava di farla passare per bombardamento alleato: si trattava di uno specchietto per le allodole, e c’è da augurarsi che il volume di Augusto Ferrara non l’abbia sperluccicato ancora, dopo quasi 70 anni (vedremo, vi faremo sapere).

martedì 2 novembre 2010

Gli rimane solo da cagare sul centrotavola




Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Mondadori 2010



“Non c’è nulla di più sgradito che venire maltrattati da chi si crede di aiutare. Chi non era capace di capire la differenza tra la libertà appena ricevuta e la schiavitù subita per secoli andava trattato alla stregua di una belva” (Il sangue del Sud, Mondadori 2010 – pag. 94). Con la consueta chiarezza che non cede mai al comodo semplicismo – anzi, vedremo quanto complesso sia ciò che è descritto in modo chiaro – Giordano Bruno Guerri riesce a stringere in quattro righe il movente psicologico che armò l’esercito del neonato Regno d’Italia contro quanti nelle Due Sicilie rifiutarono uno Stato unitario, cercando di sabotarlo. Non è detto che davvero si aiuti “chi si crede di aiutare”, come minimo perché l’aiuto può anche non essere considerato tale, fino alla possibilità che oggettivamente non sia tale. Già, ma cos’è – sul piano storiografico – l’oggettività? Tranquillo, lettore, non sto per prendere la tangente: rimango sul libro di Guerri che mi hai chiesto di recensire.
Il fatto è che l’oggettività dell’aiuto che al Sud venne dal Nord è rappresentato come tale già nel suo sottotitolo, che è Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio: la maiuscola per Risorgimento e la minuscola per brigantaggio. Sarà stata una guerra civile, non c’è dubbio, e sarà stata anche crudelissima come tutte le guerre civili, non mancano i documenti che lo provano, ma i perdenti non avevano neppure un movimento degno di maiuscola. Non è così solo in Guerri: sfogliando la ricchissima bibliografia (pagg. 263-276) non si trova un solo Brigantaggio nei titoli, solo brigantaggio, come un fenomeno senza un’idea interna, come fatto non privo di motivi, ma senza una ratio. Ecco in cosa concorda – unanimemente – la storiografia (anche nelle sue degenerazioni neoborboniche e neosanfediste): i briganti erano in campo senza un’idea, fedeli a Francischiello e al Papa, senza dubbio, ma del brigantaggio si può dire che fu animato da queste fedeltà?
Ma leviamo pure l’elemento emotivo, e dunque retorico, della fedeltà: dietro ai briganti c’era un progetto di società capace di competere con quello espresso dalla nobiltà e dalla borghesia del Nord? L’esito della guerra civile era già tutto nella sconfitta militare subita dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, sennò come sarebbe stato possibile tanto a Mille sfessati? Ciò che muoveva Garibaldi era più forte di ciò aveva mosso Pisacane: oggettivamente Garibaldi portava aiuto, oggettivamente Pisacane no. O meglio: così parve alle genti del Sud. Quanta resistenza fu opposta alla risalita di Garibaldi da Marsala a Napoli? Calatafimi, e poi?

Il movente psicologico che armò il Nord “invasore” contro il Sud “ribelle” era tutto nella sgradevolezza del maltrattamento, che non era stato messo in conto. Il Nord capì che la soggezione e la superstizione avevano reso il Sud per sempre refrattario alla voglia di libertà, mai disgiunta dalla corrispettiva responsabilità, ma lo capì solo a Unità raggiunta, e “potremmo chiamarla la sindrome del «chi me l’ha fatto fare?»” (pag. 5). La delusione provocò una reazione spietata.
La pietas umana può essere tenuta sotto controllo solo fino a un certo punto, poi traspare, quasi sempre in favore dei perdenti: questo è molto bello e accade anche in Guerri. E tuttavia, se in questo libro i briganti trovano modo di chiarire i loro motivi, la ratio di chi li massacrò trova modo di chiarire che non ci fosse altra soluzione che il massacro, perché nel brigantaggio confluivano le trame della Chiesa e dei Borboni contro il nuovo Regno d’Italia (cfr. Cap. VIII – La Chiesa, i Borboni e i briganti – pagg. 107-122): si trattava del proseguimento del Risorgimento, la sua coda feroce e insanguinata.
“Una Unità mal condotta e peggio proseguita” (pag. 252), certo, ma “grazie all’Unità – attraverso un processo lungo, faticoso e non ancora terminato – l’Italia è diventata un grande Paese. Non lo sarebbe mai stata senza il Risorgimento” (pag. 253). Poi c’è da tenere presente – e questo è davvero inquietante – che, mentre il brigantaggio nasce come strumento di una possibile restaurazione clericale e borbonica, finisce per diventare icona, “almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, [di] sindacalisti, contadini e braccianti alle prese con rivendicazioni, scioperi, battaglie [sicché] una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara [come se fosse possibile assurgere i briganti] al rango di mitici combattenti per la libertà” (pag. 260), volti a quell’emancipazione della plebe meridionale che Chiesa e Borboni non avrebbero mai permesso: esito paradossale del mito del brigantaggio, che sul piano sociale residua invece in delinquenza organizzata nelle forme della mafia, della ’drangheta e della camorra.
Guerriglieri e criminali, però, si combattono con le stesse armi.

lunedì 1 novembre 2010

A quanti farebbe comodo che tacesse per sempre?


Ruby avrebbe bisogno di una scorta, come ne avrebbe avuto bisogno Brenda.

 

La famiglia-base-del-consorzio-civile



“Quella prima pagella, alle elementari, non la scorderò mai. Non perché i voti fossero tanto brutti o tanto belli, ma perché in prima pagina, in calligrafia arzigogolata, c’era scritto: «Giordano Bruno Guerri, figlio di Gina Guerri e di N.N.»: cioè di nessuno. Figlio di padre ignoto. Invece io il babbo ce l’avevo, eccome, e tornava a casa tutte le sere, e mi copriva di coccole e mi voleva bene. Solo che in quegli anni - parlo dei metà Cinquanta - il diritto di famiglia era crudelissimo, spietato. Mio padre aveva avuto un matrimonio, di divorzio neanche a parlarne, ed esisteva una tremenda legge sul concubinaggio per cui se avesse riconosciuto un figlio convivente e nato fuori dal matrimonio sarebbe finito in galera, come un delinquente qualsiasi. Ora, a mezzo secolo di distanza, non farò del colore lacrimoso sulla mia umiliazione e i miei tormenti di bambino, su come la faccenda dell’N.N. si riseppe subito in classe, su come la crudeltà degli altri bambini infierisse e su come per anni - anni, tutta la mia infanzia - io abbia aspettato le pagelle come uno schiaffo pubblico dal quale non mi potevo difendere. Neppure il mio forte, grande babbo, mi poteva difendere, perché lui non esisteva, era N.N., nessuno. È orribile pensare a quale ferocia possano arrivare uno Stato, una società, nell’intento di difendere la moralità pubblica, il perbenismo, la famiglia-base-del-consorzio-civile”

Giordano Bruno Guerri, il Giornale, 30.10.2010

“Dracula all’Avis”


Il bunga-bunga ha messo in ombra molte notizie degne di attenzione, per esempio la nomina a garante dei diritti dei detenuti di Roma che Gianni Alemanno ha deciso in favore di Vincenzo Lo Cascio, persona vicinissima a Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Rozzo ma efficace, Francesco Storace ha commentato: “Ci aspettiamo che, coerentemente, Alemanno nomini Dracula all’Avis”.
In altri tempi, a destra, si sarebbe aperto un dibattito sulla filosofia che informa il criterio corporativistico delle rappresentanze. Sarebbe finito a sediate in faccia, ma il dibattito si sarebbe aperto.

Zaccheo: molto ricco, molto peccatore e basso di statura


Per chi crede al caso, è un caso, ma chi dietro al caso sa vedere la divina provvidenza non può che rimanere affascinato dal fatto che ieri – proprio ieri – la liturgia della domenica prevedesse una meditazione sull’episodio evangelico di Zaccheo (molto ricco, molto peccatore e basso di statura), al quale Gesù perdona ogni peccato previa consistente elargizione. C’è da segnalare solo lieve discrepanza tra il testo del Vangelo, dove si legge che Zaccheo elargisce “la metà dei miei beni” (Lc 19, 8), e quello che Benedetto XVI sceglie a commento: “diede via la sua ricchezza” (S. Girolamo, Omelia sul Salmo 83, 3), intendendo “tutta”. Insomma, la Chiesa offre il perdono a Silvio Berlusconi, c’è solo da discutere sul prezzo: tutto il suo patrimonio, calcolato intorno agli otto miliardi di euro, o solo la metà?

Si scherza, naturalmente, non ci è dato far altro: la Ruby gli costa molto di più della Patrizia o della Noemi, siamo costretti a constatare che l’anima del povero premier ha piena ipostasi nelle sue sorti politiche. Anche per questo il declino di Silvio Berlusconi sembrerebbe ormai inevitabile, perché, se fino a ieri se la cavava con qualche leggina, qualche sgravio fiscale, un po’ di soldi alle scuole dei preti e un baciamano al papa, adesso il perdono della Chiesa gli costerebbe addirittura il doppio di quanto a Zaccheo costò quello di Gesù.

domenica 31 ottobre 2010

Farinacci


Anche Giordano Bruno Guerri (il Giornale, 31.10.2010), come Giorgio Israel (Il fascismo e la razza, Il Mulino 2010), pensa che nel 1938 gli italiani fossero razzisti, che il razzismo in Italia non fosse solo il “fenomeno secondario” di un nuovo progetto di società ma un carattere identitario, e che questo spiega perché le leggi razziali furono accolte senza mugugni, anzi perfino con qualche entusiasmo. Mentre con Israel non si capisce bene donde venga, questo antisemitismo, con Guerri abbiamo la spiegazione data dal fascistissimo Roberto Farinacci: “Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli. […] Noi non possiamo nel giro di poche settimane rinunciare a quella coscienza antisemita che la Chiesa ci ha formato lungo i millenni”. Adeguarsi alle richieste di Hitler non costava niente: è sulla tradizione dell’antigiudaismo cristiano che l’Italia cattolica diventava ecumenicamente antisemita con la Germania luterana.

Se no, no



Intervistato da Stefano Lorenzetto per Panorama (4.11.2010 - pagg. 38-44), Ettore Gotti Tedeschi si riposiziona: a botta calda aveva detto che non si trattava di riciclaggio, che si trattava di un errore fatto da chissà chi, ma non da lui, non dallo Ior, nemmeno dal Vaticano –  e chissà chi intendeva usarlo – non v’era dubbio che vi fosse per attaccare lui, lo Ior e il Vaticano; ora concede che, forse sì, si tratta di riciclaggio, ma che lui non centra, e che il responsabile potrebbe, forse sì, essere uomo dello Ior e/o del Vaticano, ma che né Ior né Vaticano centrano niente, non posso entrarci, sempre innocenti in partenza. Il dispositivo retorico è lo stesso usato per i preti pedofili appena si scopre che sono pedofili, smettono di essere preti e qui dovrebbe convincerci che il denaro nella piena disponibilità del Vaticano può essere sporco solo quando quella disponibilità non è piena: quando cè ipotesi di illecito bancario, insomma, la banca che per definizione è strumento del bene non può aver commesso il male e, dunque, se si constata un illecito, chiunque sia lautore, non conta che a trarne utile siano stati lo Ior e il Vaticano: in partenza, sono da considerare vittime dellillecito, se dellillecito si ha notizia. Se no, no.

Il grafico si è fatto le ossa a Postalmarket



“Ingeritevi”


Di recente ha avuto il mandato di rievangelizzare l’Europa e muove i primi passi alla guida del dicastero che gli hanno cucito addosso ad hoc. Fa tenerezza, monsignor Rino Fisichella. Soddisfatto della promozione, senza dubbio, ma preso da un velo d’ansia, come se non sapesse da cosa cominciare: moltiplicare le processioni e le recite pubbliche del rosario oppure un bel dibattito pubblico con il presidente della Fondazione Italianieuropei? L’indugio ansioso è subito sciolto, vada per la seconda.
E dunque eccolo, il Fisichella. Si è sempre mosso più da mondano che da chierico, habitué di ogni girone alto della società secolarizzata, masticando più politica che teologia, più quotidiani che Bibbia: è lui che mandano a rievangelizzare l’Europa, probabilmente sanno già da cosa comincerà, lo avranno scelto proprio per questo. Da dove volete che cominci? Da un bel dibattito pubblico sul tema delle radici cristiane d’Europa, con Massimo D’Alema.

Mentre seguo il dibattito, mi viene da pensare a Peppone e don Camillo: si sono già spartiti Brescello, ma continuano a far finta di lottare, di fatto convivendo grazie a un patto, neanche tanto tacito… Faccio per vergognarmi di questa volgare analogia, ma è proprio il moderatore a proporla chiudendo il dibattito: Piero Schiavazzi paragona D’Alema e monsignor Fisichella proprio a Peppone e don Camillo, senza pudore. Citando Nadia Urbinati, Schiavazzi dice che “un certo grado di tensione tra la sfera civile e la sfera religiosa è fisiologico per la democrazia: questa dialettica non deve essere mai repressa, ma non può essere mai risolta”. Si è data replica dell’antico muso-contro-muso narrato da Guareschi, ma un minimo d’etica condivisa è possibile.
Non ha torto nel tirare queste conclusioni. Infatti, D’Alema ha detto che “l’Europa ha bisogno – in modo vitale, in questo momento – dell’apporto cristiano per restituire forza ai suoi valori e al suo progetto” e ha detto che per lui è stata una grande stronzata levare dalla Carta europea il riferimento alle radici cristiane d’Europa. E però ha detto pure che bisogna fare un compromesso (una vera mania, da Togliatti a Berlinguer, e oltre): i non credenti devono riconoscere che “la fede religiosa è un lievito essenziale per una società più giusta, per una comunità autenticamente umana”; e i credenti devono riconoscere che “non c’è un monopolio dell’etica, [e che] ragioni integralmente umane possono fondare un impegno personale, civile, politico coerente con i principi etici”.
Ha letto i più recenti documenti ufficiali del magistero sociale della Santa Sede, ha letto le ultime prolusioni della Conferenza episcopale italiana – ha tenuto a far sapere, come se un politico potesse farne a meno, ma lui no, perché è D’Alema – ed è tutta roba che gli è piaciuta; e rammenta l’udienza che Giovanni Paolo II gli concesse (non rammenta la sua presenza in San Pietro alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, vabbe’, non si può rammentare tutto); e, insomma, non avendo una zia suora, cerca come può di far capire che ha comunque le referenze per un dialogo con il mondo cattolico, anche se si è sempre dichiarato non credente.
Dialogo che vorrebbe in esclusiva: chiede che la Chiesa molli quei politici che intenderebbero “usare il cristianesimo come ideologia dell’occidente”. Poi, dopo una mezza dozzina di ellissi che vanno a convergere su Berlusconi: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”.

Eccoci al cuore della questione che sta dietro a tutte le magniloquenze: D’Alema chiede alla Chiesa un aiutino. E tuttavia, quando fa riferimento a “quel cristianesimo che annuncia la liberazione dell’uomo”, mostra di non capire che arriva in gran ritardo: quel tipo di cristianesimo è stato bollato come poco cristocentrico, adesso va di moda un altro cristianesimo. Mostra di non capire che la Chiesa non potrà mai rinunciare al monopolio dell’etica, non potrà mai negoziare su quanto non ritiene negoziabile, non potrà mai consentire che ragioni integralmente umane estrudano il trascendente dalla nomopoietica. Insomma, D’Alema mostra di non aver capito un cazzo della Chiesa degli ultimi trent’anni. Peggio: pensa che il pragmatismo che il suo compare Amato ricicla dal pragmatismo di Acquaviva possa tornar buono a stabilire un nuovo patto con le gerarchie ecclesistiche, come, quando e se il blocco sociale di questo centrodestra dovesse sfaldarsi costringendo Santa Sede e Cei a riposizionarsi. Pia illusione, ma vediamo da dove muove.

“L’Europa rischia di smarrire i suoi valori” e, se li perde, “perde la sua forza maggiore”. E quali sono? Per Massimo D’Alema sono la libertà e la tolleranza. Si può convenire, come no, ma precisando che si tratta di valori che l’Europa ha scoperto solo assai tardi nelle forme comunemente intese oggi. Infatti, bisogna far subito chiarezza: la libertà di cui parla D’Alema include o no quei diritti non ritenuti tali prima della rivoluzione americana e di quella francese? Immagino non si tratti della libertà di cui ci parla il Socrate di Platone, penso non sia la libertà che si esaurisce nella definizione che ne avrebbe dato Seneca; forse non è neppure la libertà per come è intesa nel Sillabo di Pio IX. Idem per la tolleranza: suppongo che D’Alema pensi più a Voltaire che a Marco Aurelio; quando dice tolleranza, credo intenda più quella mostrata dai musulmani verso i cristiani nella Sicilia sotto l’islam che quella mostrata dal Papato verso gli ebrei dal IV al XIX secolo. Sulla libertà di coscienza, sulla libertà di parola e di stampa, sulla stessa democrazia e perfino sullo stesso liberalismo, la Chiesa cattolica è venuta a dover cambiare idea e il cambiamento non è venuto dal suo interno ma dalle cannonate avute dall’esterno: fino a poco più di un secolo fa considerava la libertà di parola e la democrazia come due cancri della società. E dunque?


A parte Quell’“ingeritevi” è poco appropriato: si sono già ingeriti l’ingeribile, non ha senso l’appello. Su ciò che non mettono bocca – hanno fatto il loro calcolo, lo rifaranno solo se cambiassero le circostanze – non vogliono mettercela: non si riuscirà ad ottenerne i favori, sono e si sentono troppo forti, e a ragione. Quando Fisichella assolveva Berlusconi dal peccato mortale di blasfemia invitando a considerare il contesto, il contesto non era la barzelletta che conteneva la bestemmia, ma il quadro sociopolitico che contiene questo Berlusconi e questa Chiesa italiana non ancora del tutto post-ruiniana. D’Alema davvero non ha capito niente di cosa è accaduto alla Chiesa negli ultimi decenni.

sabato 30 ottobre 2010

“Rispettosa prudenza”


Si può capire che Sandro Bondi rimproveri a Famiglia Cristiana di “aver superato i limiti della correttezza” – l’editoriale in edicola è prossimo all’insulto – ma non si capisce perché le rimproveri la mancanza della “rispettosa prudenza propria dei cattolici”. Sarà mica una larvata minaccia?
In questione, per chi si ispiri al magistero della Chiesa, è il profilo di una figura pubblica che dovrebbe essere esemplare: quale “rispettosa prudenza” è richiesta a Famiglia Cristiana al riguardo? Sospendere il giudizio su fatti che, per l’essere di dominio pubblico, sono di cattivo esempio all’elettorato cattolico? Ma sarebbe come pretendere che il magistero taccia sullo scandaloso modello morale che sta nel consentire a ciascuno di morire come e quando voglia. E dov’era Sandro Bondi quando c’era da rimproverare ai politici cattolici del suo partito la mancanza di “rispettosa prudenza” nel dare dell’assassino a Beppino Englaro?


“Antica mitologia”


Voi saprete che i cristiani sono perseguitati in molti paesi, per lo più dagli indigeni, per lo più membri di altre confessioni religiose: sono sgozzati dai musulmani in alcuni paesi di tradizione islamica, bruciati vivi dagli indù in India, ecc. In ciò si realizza – consentitemi l’inciso – uno dei punti bassi di quella sinusoide che parrebbe essere destino dei cristiani: essere perseguitati, perseguitare, essere perseguitati… Credete che, se non fossero almeno po’ perseguitati, non prenderebbero a perseguitare? Concesso, ma significherebbe che hanno perso il vizio che musulmani e indù non hanno ancora perso. Chiuso l’inciso.
Ora, ciò che nei cristiani v’è di ammirevole sta nella disarmata mitezza con la quale subiscono le persecuzioni in paesi di tradizione non cristiana da membri di altre confessioni, continuando a tendere la mano in segno di amicizia, chiedendo e offrendo rispetto per le reciproche differenze. Ne dà prova il messaggio di auguri che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha inviato agli indù per la festa di Dipavali, che la Sala Stampa della Santa Sede ha detto essere “simbolicamente fondata su un’antica mitologia”.
Bene, ciò è corretto: il Dipavali (da dipa, lampade) prende origine da un episodio della vita di Rama, quando al ritorno dal suo esilio ogni abitante di Ayodhya accese in suo onore una lampada all’uscio di casa. “Antica mitologia”? Può darsi, ma non più dell’episodio in cui Gesù disse al primo Papa: “Su di te edificherò la mia chiesa” (Mt 16, 18).
Ora provate a dire ad un papista che il Papato regge su un  mitologia e vedete se non gli vengono le crisi epilettiche: state delegittimando il mandato che sta nella Successione Apostolica, come minimo siete degli schifosi luterani. E che facevano i papisti ai luterani quando stavano in cima all’onda sulla sinusoide? E dunque: se qualche indù si offende a sentirsi degradare a mito il suo Rama e gli viene lo stesso tipo di epilessia...?