“Non c’è nulla di più sgradito che venire maltrattati da chi si crede di aiutare. Chi non era capace di capire la differenza tra la libertà appena ricevuta e la schiavitù subita per secoli andava trattato alla stregua di una belva” (Il sangue del Sud, Mondadori 2010 – pag. 94). Con la consueta chiarezza che non cede mai al comodo semplicismo – anzi, vedremo quanto complesso sia ciò che è descritto in modo chiaro – Giordano Bruno Guerri riesce a stringere in quattro righe il movente psicologico che armò l’esercito del neonato Regno d’Italia contro quanti nelle Due Sicilie rifiutarono uno Stato unitario, cercando di sabotarlo. Non è detto che davvero si aiuti “chi si crede di aiutare”, come minimo perché l’aiuto può anche non essere considerato tale, fino alla possibilità che oggettivamente non sia tale. Già, ma cos’è – sul piano storiografico – l’oggettività? Tranquillo, lettore, non sto per prendere la tangente: rimango sul libro di Guerri che mi hai chiesto di recensire. Il fatto è che l’oggettività dell’aiuto che al Sud venne dal Nord è rappresentato come tale già nel suo sottotitolo, che è Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio: la maiuscola per Risorgimento e la minuscola per brigantaggio. Sarà stata una guerra civile, non c’è dubbio, e sarà stata anche crudelissima come tutte le guerre civili, non mancano i documenti che lo provano, ma i perdenti non avevano neppure un movimento degno di maiuscola. Non è così solo in Guerri: sfogliando la ricchissima bibliografia (pagg. 263-276) non si trova un solo Brigantaggio nei titoli, solo brigantaggio, come un fenomeno senza un’idea interna, come fatto non privo di motivi, ma senza una ratio. Ecco in cosa concorda – unanimemente – la storiografia (anche nelle sue degenerazioni neoborboniche e neosanfediste): i briganti erano in campo senza un’idea, fedeli a Francischiello e al Papa, senza dubbio, ma del brigantaggio si può dire che fu animato da queste fedeltà?
Ma leviamo pure l’elemento emotivo, e dunque retorico, della fedeltà: dietro ai briganti c’era un progetto di società capace di competere con quello espresso dalla nobiltà e dalla borghesia del Nord? L’esito della guerra civile era già tutto nella sconfitta militare subita dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, sennò come sarebbe stato possibile tanto a Mille sfessati? Ciò che muoveva Garibaldi era più forte di ciò aveva mosso Pisacane: oggettivamente Garibaldi portava aiuto, oggettivamente Pisacane no. O meglio: così parve alle genti del Sud. Quanta resistenza fu opposta alla risalita di Garibaldi da Marsala a Napoli? Calatafimi, e poi?
Il movente psicologico che armò il Nord “invasore” contro il Sud “ribelle” era tutto nella sgradevolezza del maltrattamento, che non era stato messo in conto. Il Nord capì che la soggezione e la superstizione avevano reso il Sud per sempre refrattario alla voglia di libertà, mai disgiunta dalla corrispettiva responsabilità, ma lo capì solo a Unità raggiunta, e “potremmo chiamarla la sindrome del «chi me l’ha fatto fare?»” (pag. 5). La delusione provocò una reazione spietata.
La pietas umana può essere tenuta sotto controllo solo fino a un certo punto, poi traspare, quasi sempre in favore dei perdenti: questo è molto bello e accade anche in Guerri. E tuttavia, se in questo libro i briganti trovano modo di chiarire i loro motivi, la ratio di chi li massacrò trova modo di chiarire che non ci fosse altra soluzione che il massacro, perché nel brigantaggio confluivano le trame della Chiesa e dei Borboni contro il nuovo Regno d’Italia (cfr. Cap. VIII – La Chiesa, i Borboni e i briganti – pagg. 107-122): si trattava del proseguimento del Risorgimento, la sua coda feroce e insanguinata.
“Una Unità mal condotta e peggio proseguita” (pag. 252), certo, ma “grazie all’Unità – attraverso un processo lungo, faticoso e non ancora terminato – l’Italia è diventata un grande Paese. Non lo sarebbe mai stata senza il Risorgimento” (pag. 253). Poi c’è da tenere presente – e questo è davvero inquietante – che, mentre il brigantaggio nasce come strumento di una possibile restaurazione clericale e borbonica, finisce per diventare icona, “almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, [di] sindacalisti, contadini e braccianti alle prese con rivendicazioni, scioperi, battaglie [sicché] una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara [come se fosse possibile assurgere i briganti] al rango di mitici combattenti per la libertà” (pag. 260), volti a quell’emancipazione della plebe meridionale che Chiesa e Borboni non avrebbero mai permesso: esito paradossale del mito del brigantaggio, che sul piano sociale residua invece in delinquenza organizzata nelle forme della mafia, della ’drangheta e della camorra.
Guerriglieri e criminali, però, si combattono con le stesse armi.