lunedì 10 gennaio 2011

“In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”


“Qui da noi può succedere di tutto, ma le rivoluzioni si fanno solo per scherzo. Come diceva Mario Missiroli, una roba seria non si può fare «perché ci conosciamo tutti»” (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 10.1.2011). Nel corso della sua rassegna stampa (Radio Radicale, 10.1.2011), in un veloce inciso a commento, Massimo Bordin ha espresso un dubbio circa l’attribuzione della citazione: non lo diceva Leo Longanesi? Questione interessante, no?
E dunque cominciamo col dire che Google dà ragione a Bordin con prevalenza di voci, ma fra quelle che danno ragione a Ferrara ve n’è una assai autorevole: la Piccola antologia del pensiero breve (Liguori, 2008) di Franco Fontanini, un maestro del florilegio che, dalla gloriosa vetta dei suoi 85 anni, può menar vanto di essere stato amico di Longanesi: se ha attribuito l’aforisma a Missiroli (pag. 119), possono esserci più dubbi?
Per avere conferma ho telefonato a Fontanini, che però non ha potuto fornirmela. Anzi, appena ho posto la questione, ha cominciato a sollevare qualche dubbio sull’attribuzione a Missiroli: “In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti” gli sembrava aforisma tipicamente longanesiano, più nella penna di un Flaiano, eventualmente, che in quella di un Missiroli. E allora com’era stato possibile che così avesse risolto nel riportare quella frase nella sua antologia? Gli appunti dai quali aveva tratto il materiale per il suo libro – mi ha spiegato – attribuivano la frase a Missiroli ma senza recare indicazione della fonte testuale originaria, a differenza della loro gran parte. Nessuna solida conferma e la faccenda rimaneva aperta.
A questo punto, però, mi è venuta una mezza idea e con la dovuta delicatezza gli ho chiesto se per caso gli appunti potessero aver attinto, almeno nei casi in cui non fosse riportato il riferimento testuale, a fonti spurie e non verificate come spesso accade per le citazioni riportate dalla stampa, dove di solito si cita l’autore, ma quasi mai il titolo dell’opera dalla quale è tratta la citazione. Non l’ha escluso, anzi, con disarmante sincerità ha detto fosse assai probabile. “D’altra parte – ha aggiunto – certi aforismi non hanno un padre certo, né un padre solo”. Non ho saputo dargli torto: non di rado prendono vita dal nulla e si mettono in cerca di un autore, così mi pare di aver detto.

Questione che rimane aperta, dunque? Sostanzialmente, sì. Ricapitolando, propendono per l’attribuzione a Longanesi: molte voci su Google (la più datata è relativa ad un numero di Mondoperaio del 1989); Bordin (che però non ha sollevato la questione quando Ferrara ha citato la stessa frase in un editoriale del 10.4.2006, attribuendola ancora a Missiroli); Pietrangelo Buttafuoco (che è fra gli ultimi ad aver citato l’aforisma, nella prefazione a un libro di Carlo Puca: consultato via sms, non ha mostrato indugio a ribadire la paternità di Longanesi); e, a sorpresa, il professor Fontanini. In tutti i casi non è specificata la fonte testuale.
L’attribuiscono a Missiroli, invece: 28 voci di Google (metà delle quali sono relative alle volte in cui la frase è stata attribuita a Missiroli dallo stesso Ferrara, due volte sul Corriere della Sera, nel 1993 e nel 1994, e altre quattro volte su Il Foglio, compresa quella odierna); Antonello Piroso (La7, 29.1.2007); Francesco Scrima, segretario nazionale della Cisl-scuola (Left, 5.9.2008); e due o tre anonimi. Anche qui, nessuno sa precisare donde sia tratta.
Per quanto mi riguarda, ho letto moltissimo di Missiroli, quasi tutto di Longanesi e tutto di Flaiano, anche se sono letture che risalgono a molti anni fa, ma non rammento di aver mai trovato traccia dell’aforisma in questione. C’è nessuno fra i lettori di questo blog che sappia fornire una fonte testuale certa?

L’importante è che si parli di Adinolfi


Dalla pagina di Mario Adinolfi su Facebook:

Sabato sera Blob ha rimandato in onda la scena, tratta da Agorà su Raitre, in cui il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, si augura platealmente che io venga picchiato. Tre ore dopo è stato accontentato.
Alessandro Sallusti non si è augurato che Mario Adinolfi fosse picchiato. Si è limitato a dire: “Il bamboccione Adinolfi dice: «Ma che c’è [di grave] a picchiare un finanziere?». Io vorrei che qualcuno picchiasse lui come hanno picchiato il finanziere e poi ci viene a raccontare se è bello oppure no”. Si tratta di un espediente retorico: mettiti nei panni di chi ha subito l’aggressione prima di minimizzare la gravità del fatto. Di plateale c’è solo la reazione di Adinolfi, che ben prima di far chiudere la frase a Sallusti va in escandescenze – difficile capire se in buona o cattiva fede – come se fosse stato fatto oggetto di una minaccia. Il tentativo di stabilire un nesso causale tra la puntata di Agorà, che è del 21 dicembre, e l’aggressione subita da Adinolfi, che è dell’8 gennaio, è strumentale e pretestuoso. Ancor più lo è il collegamento tra l’aggressione subita e la replica data da Blob tre ore prima, soprattutto se con una frase come “[Sallusti] è stato [prontamente] accontentato”, che mira a rafforzare l’indimostrato nesso causale con la suggestione di una significativa articolazione temporale degli eventi.
Alle 23.30 mi trovavo ad attraversare la strada all’intersezione tra via dei Colli Portuensi, circonvallazione Gianicolense e via Gasparri (sic).
Almeno in apparenza, l’ammicco su “Gasparri” è inerte, perfino un po’ scemo, d’altronde un po’ più avanti sarà detto: “Non credo sia stata un’aggressione «politica»”. Però, seppure in modo ironico, il “sic” insinua una fatale coincidenza in forma di presagio: “nomen omen”, il centrodestra è dentro.
Quattro motorini, particolarmente euforici perché il sabato sera bisogna esserlo, decidevano di giocare alla caccia al pedone. Li ho mandati sonoramente a quel paese, sembrava la solita idiozia che si vive sulle strade romane, invece gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola di circonvallazione Gianicolense all’altezza del civico 390. Li ho guardati in faccia. Tutti ragazzini, forse non c’era neanche un maggiorenne. Tutti in cerca di sballo…
È quanto basterebbe ad archiviare la disavventura come un banale alterco degenerato in zuffa, se non fosse che…
… qualcuno ha riconosciuto “er ciccione della tv”.
… qualcuno ha riconosciuto “er ciccione della tv”. E tanto basta ad aprire un supplemento di indagine per verificare se vi siano attinenze di specie con “gli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata”. Quasi a malincuore, Adinolfi dovrà escluderle, ma finirà per riconoscere “un clima simile” e la disavventura gli servirà a lanciare un monito: “Se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi”. Se liquidiamo l’accaduto come un banale alterco tra un pedone e dei ragazzini in motorino, siamo degli irresponsabili.
E proprio al grido di “ciccione” il più bassino, quello che evidentemente deve dimostrare qualcosa agli altri e vuole una medaglia di malinteso “coraggio” da appuntarsi sul petto, parte con un destro sul mio labbro e con un colpo di casco che s’abbatte sulla mia arcata sopraciliare sinistra. Tutto molto doloroso.
L’aggravante è patente perché l’aggredito è “ciccione”. Fosse stato smilzo, nemmeno l’avrebbero sfiorato. Se l’humus non è politico, è culturale. Almeno così dovremmo intendere.
Anche otto contro uno, per fortuna, ho una mole convincente: sono grosso e so difendermi. Uno degli otto richiama all’ordine il “Boccia”, quello che mi ha colpito, inconfondibile nella sua testa rasata e dà l’ordine di ritirata. Il Boccia dice al suo “complice” in sella al motorino di coprire con il casco la targa. Troppo tardi, l’ho mentalmente appuntata.
Quanto possa essere “inconfondibile” una testa rasata è assai opinabile, ma ormai è tardi: leggere il fatto come volgare lite per motivi di viabilità ci espone al rischio di sottovalutarne la cifra.
Tre persone hanno assistito all’aggressione. Un signore cinquantenne si avvicina per sincerarsi delle mie condizioni e per dire qualche parola di circostanza contro quei ragazzini balordi. Penso che poteva pure intervenire mentre mi colpivano, invece di fare solo lo spettatore, ma deve essere la mia rabbia del momento. È umano avere paura. La nottata continua tra caserme dei carabinieri e pronto soccorso. Mi vengono riscontrate ecchimosi, edema, ferite lacero-contuse. Niente di terribile. Ma il turbamento è profondo.
Finalmente fa capolino la paura. Assente nel grosso Adinolfi, che si limita al turbamento, è attribuita al signore cinquantenne che non è intervenuto. Potrebbe trattarsi di una proiezione, ma qui occorre andar cauti, sennò anche ad Adinolfi, come a Sallusti, potrebbe venir voglia di minacciarci: mettiti nei panni di chi ha subito l’aggressione prima di minimizzare la gravità del fatto. Come potremmo lamentarci, dopo?
Non credo sia stata un’aggressione “politica”. Chi mi ha colpito probabilmente neanche sa chi sia Sallusti, né io considero in alcun modo il direttore del Giornale mandante “morale” di questa aggressione.
E allora perché scrivere che “è stato accontentato”?
Certo che per la prima volta oggi sono andato a rivedermi il video che su YouTube riprende lo spezzone mandato in onda da Blob. E ho trovato, tra gli altri, questi commenti. [Seguono improperi, insulti, ecc.] Toni pazzeschi, di una violenza incredibile.
Sono asprezze che accompagnano Adinolfi da anni, non senza avergli dato modo di farsene vanto, come un sensibile indicatore di notorietà, se non di popolarità. Sarebbe ingiusto dirle meritate, ma spesso, e da più parti, si è sospettato fossero sapientemente provocate, e con gusto. Questo sarebbe pazzesco, il resto non avrebbe nulla di incredibile.
Tutto questo credo ci costringa una riflessione sul punto a cui è arrivata la conflittualità nel paese, la tensione tra noi, rompendo gli argini della civile convivenza. Non siamo agli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata. Ma siamo in un clima simile e se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi. È un impegno che prendo io per primo, con i segni in faccia di un’aggressione incomprensibile. O, forse, comprensibilissima.
Qui siamo al tirare i fili. Non siamo negli Stati Uniti, ma chissà. Un’aggressione incomprensibile, ma forse no. Sallusti non c’entra niente, ma è stato accontentato. Insomma, ad Adinolfi è capitato quello che poteva capitare a chiunque ma, essendo capitato a lui, deve avere un senso che gli possa tornare utile a far nostro il suo turbamento. Non è un comportamento limpido, ma che importa? L’importante è che si parli di Adinolfi. Nel mio piccolo mi auguro di averlo accontentato.


domenica 9 gennaio 2011

Un gran savoir-faire


Bisogna segnalare alcune incongruenze tra il discorso che Nicolas Sarkozy tenne a Roma, il 20 dicembre 2007, in presenza delle alte gerarchie ecclesiastiche che gli stavano per conferire il titolo di Canonico onorario della Basilica di San Giovanni in Laterano, e quello che ha tenuto al Palais de l’Elysée, qualche giorno fa, in presenza dei rappresentanti delle maggiori confessioni religiose in Francia (cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, ebrei e buddisti): deux conceptions très différent de la laïcité, parbleu!
Il candido sarà portato a credere che Monsieur le Président abbia cambiato idea e il cinico penserà che abbia un ghostwriter per ogni occasione, ma poco importa : se prima “la laïcité n’a pas le pouvoir de couper la France de ses racines chrétiennes”, adesso la République deve ai non cristiani e ai non credenti “le respect d’une neutralité absolue”; se prima era affermata “la tendance naturelle de tous les hommes à rechercher une transcendance”, adesso “le droit de ne pas croire” è naturale quanto “le droit de croire”; se prima “la morale laïque risque toujours de s’épuiser quand elle n’est pas adossée à une espérance qui comble l’aspiration à l’infini”, adesso “la République ne peut pas accepter qu’une religion investisse l’espace public sans son autorisation [et] ne laissera jamais aucune religion, quelle qu’elle soit, lui imposer sa loi”...
Se Sarkozy non ha cambiato idea, bisogna riconoscergli un gran savoir-faire.


Quel gran genio del mio amico




Pregiudizio



Se schifate Nichi Vendola per ragioni di natura squisitamente politica e volete argomentarle, dovrete sudare sette camicie per sorvegliare l’inconscia omofobia che pare sia la regola in ogni eterosessuale, perché basterà un solo cenno, anche apparentemente neutro, alla sua omosessualità e ogni argomento perderà forza: sarà liquidato come pregiudizio. Io dovrei sudarne quattordici per commentare un colonnino di Maria Romana De Gasperi senza che vengano in superficie i sedimenti del sarcasmo che mio nonno riservava a suo padre, quando da bimbetto, leccando un cono, lo ascoltavo chiacchierare al bar coi suoi amici (l’Alcide era già morto da una decina d’anni, ma mio nonno lo schifava come fosse ancora vivo).
Neanche ci provo. Risparmio quattordici camicie, riproduco il colonnino e mi limito a chiedere: ma se la Chiesa non avesse quei due grammi di senso di colpa verso il padre, la figlia meriterebbe di vedersi pubblicate cagate come queste?


Troppo presto per Fogazzaro



Si può parlare di Fogazzaro senza fare alcun cenno al suo tentativo di conciliare la teoria di Darwin alla dottrina cattolica, ma si può citare il libro che raccoglie le sue conferenze sul Divino Disegno nell’evoluzione delle specie (Ascensioni umane, 1899) senza fare alcun cenno al fatto che fu messo all’Indice? Giuseppe O. Longo lo ritiene corretto: “Consapevole dei gravi problemi che la nuova teoria, cui aderì senza riserve, poneva al magistero della Chiesa, si dedicò al tentativo di conciliarla con il cattolicesimo, esponendo le proprie idee con un linguaggio semplice ma nient’affatto semplicistico… Per il nostro, la continuità tra uomo e natura è garantita dalla costanza delle leggi che Dio ha posto in essere all’origine del creato… La sua intenzione era di combattere l’ignoranza degli evoluzionisti che decretavano la morte del cristianesimo…” (Avvenire, 8.1.2011). Tutto vero, ma perché tacere che la Chiesa non gradì affatto e stroncò con decisione? L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica gli mossero da subito pesanti attacchi e nel 1906 un decreto del Sant’Uffizio condannò il libro, pretendendo ed ottenendo dall’autore che non fosse ristampato o tradotto in altre lingue: Longo le ritiene notizie superflue. Scrive che “Fogazzaro considera la creazione dell’anima umana, dotata di libero arbitrio e di senso morale, un fatto evolutivo, dovuto all’aggiunta d’una quantità infinitesima alla spiritualità preesistente”, e la riconosce come “mirabile intuizione di quanto oggi la scienza ha scoperto, cioè che la quantità può trasformarsi in qualità”, ma evidentemente non ritiene necessario informare il suo lettore che fu proprio questo ad essergli rimproverato come erroneo perché in contraddizione con la dottrina.
In sintesi, Fogazzaro cercava di rendere digeribile Darwin ai cattolici con l’espediente che con candido cinismo, a cento anni esatti dalla condanna di Fogazzaro, sarebbe stato ripescato dal cardinale Christoph Schoenborn al Ratzinger Schülekreis di Castelgandolfo del 2006: si può considerare l’uomo che discende dalla scimmia come scimmia che ascende all’uomo. Né Fogazzaro, né Schoenborn, né chiunque altro ritenga che sia possibile conciliare creazione ed evoluzione potrà mai spiegarci come sia possibile, nell’ascendere da bestia pelosa a creatura fatta a immagine di Dio, che l’anima subentri in corso d’opera: il primo uomo dovrebbe essere nato tale, e dunque con un’anima, da due genitori non ancora pienamente umani, e dunque senza. Per ciò che la dottrina afferma circa l’animazione sorgono problemi enormi, solubili con argomenti troppo complicati per essere ruminati dal gregge senza mal di pancia. Troppo presto per riabilitare tutto Fogazzaro, ci vorranno altri cento anni.



sabato 8 gennaio 2011

“La domanda non è retorica”


“Perché tanta intolleranza?”. Il cardinale Angelo Bagnasco mette le mani avanti e dice che “la domanda non è retorica”, ma “nasce dal sangue di tanti cristiani, dalle loro sofferenze”. Escluso il fatto che siano ripagati con la stessa intolleranza che, a torto o a ragione, si rimprovera loro (Sua Eminenza esclude che possa esserlo a ragione e lamenta l’ingiustizia del ritenerlo a torto, in entrambi i casi aprendo il brevario e chiudendo quello di storia), perché? “Forse i cristiani sono discriminati e perseguitati perché parlano di dignità e di uguaglianza di ogni persona, uomo o donna che sia? Di libertà di coscienza? Perché predicano l’amore anche verso coloro che si pongono come nemici? Perché parlano di perdono,  rifiutano la violenza e operano come costruttori di pace? Perché predicano la giustizia e lo Stato di diritto? Forse è per questo che qualcuno li giudica pericolosi e inaccettabili, oggetto di intolleranza, meritevoli di persecuzione e di morte?”. E meno male che non voleva porre domande retoriche, sennò chissà come avrebbe posto il problema.


Fallacy


“Il riferimento all’autorità è esposto all’accusa di sofisma quando, nel corso di una discussione su un oggetto tanto comprensibile agli interlocutori che ogni argomento pertinente sarebbe loro perfettamente accessibile, in luogo appunto degli argomenti pertinenti che potrebbero essere addotti da una parte, o in opposizione ad argomenti non pertinenti addotti dall’altra, si ricorre all’autorità”, che qui direi possa essere intesa in modo estensivo, così nei “casi in cui l’appello all’autorità costituisce sofisma” (che è il titolo del paragrafo dal quale ho tratto il precedente virgolettato) possiamo mettere tutto quanto nella Tradizione è cogente come tautologico e autoreferenziale, che per Jeremy Bentham (The Book of Fallacies) dà massima espressione di violenza quando l’autorità “ha un interesse opposto a quello della collettività”. È dunque impossibile la piena fedeltà alla Tradizione senza ricorso al sofisma: per renderla del tutto inemendabile è indispensabile l’appello non pertinente all’autorità, almeno saltuariamente.
Così, “colui che, su una questione relativa all’opportunità, per il tempo avvenire, di una legge o prassi consacrata si appella come argomento decisivo all’autorità, presuppone l’una o l’altra di due cose: che il principio dell’utilità non debba valere per il periodo in questione come criterio atto a giudicare nel merito della cosa; oppure che la prassi di tempi diversi e più antichi debbano essere considerate in ogni caso come prova conclusiva della natura e tendenza della prassi attuale, una prova conclusiva che renderebbe superfluo e fuori luogo ogni ricorso alla ragione o all’esperienza presente”. Sicché non è difficile comprendere perché l’utilità – Bentham la definisce “massima felicità per il maggior numero di individui” – debba trovarsi così spesso sottomessa alla cogenza della morale tradizionale, in forza del sofisma che vuole la morale antecedente e superiore all’uomo, una e inemendabile per definizione. [Poco oltre lo chiamerà “sofisma delle leggi irrevocabili”.]
“In ogni settore delle scienze fisiche applicate – scrive – nessuno è tanto sfrontato o tanto pazzo da affermare o anche soltanto insinuare che la cosa più auspicabile, la condotta più ragionevole e preferibile, sia di sostituire alla decisione fondata sull’evidenza diretta e specifica la decisione fondata sull’autorità [perché] la follia di una tale scelta è dimostrabile […] Nel settore delle scienze morali, ivi inclusa la religione, la follia di voler raggiungere un’opinione corretta con un’analoga ricetta sarebbe altrettanto universalmente riconosciuta, se tanto ostinatamente non si opponessero la ricchezza, l’agio, la dignità che sono connessi a quell’opinione e da essa confortati”.
In altri termini, non è data morale tradizionale senza una élite che faccia uso efficace del “sofisma delle leggi irrevocabili” per far coincidere il fine col mezzo nel “rafforzare abusi o istituzioni che sono di detrimento alla maggioranza degli individui”. Non è data cogenza del tautologico e dell’autoreferenziale fuori dall’interesse ultimo di una oligarchia che sappia far coincidere nell’abuso il fine e il mezzo di un’istituzione.


venerdì 7 gennaio 2011

[...]




La doppia ingiustizia


A prima vista sembra indignazione che si levi da argomenti forti, prima di tutto, però, chiariamo: la lettrice scrive al direttore di Avvenire nella “sper[anza] che [egli] possa fare qualcosa” e il direttore le risponde che “qualcosa l’h[a] fatta già da tempo” – non guarda più il Grande Fratello (chissà da quale edizione in poi) – ma si rende ben conto che boicottare non basta, “non è sempre sufficiente”. Per evitare che all’indignazione subentri la frustrazione, e alla frustrazione un moto di rivalsa, gli autori del programma dovrebbero rivedere la decisione che hanno preso ed espellere il blasfemo, sarebbe il minimo.
Cambiare canale non basta. Non basta nemmeno l’implicito invito a boicottare il reality. Né basta l’implicita pressione sui responsabili del programma e/o sul direttore della rete e/o sulla proprietà dell’emittente: Marco Tarquinio (o chi per lui) troverebbe pace solo ottenendo ciò che chiede e cioè la punizione del blasfemo.
Bisogna tener conto del fatto che gli autori del programma hanno commutato l’espulsione in una pena più mite e il blasfemo è stato “nominato” d’ufficio, sicché il direttore di Avvenire potrebbe chiedere ai suoi lettori di dar voce all’indignazione col televoto, ma non lo fa, neanche vi accenna. Non viene neppure sfiorata l’ipotesi di appellarsi all’art. 406 del Codice Penale per offesa al sentimento religioso (pena fino a un anno di reclusione) o al can. 1369 del Codice di Diritto Canonico per pubblica bestemmia (pena fino alla scomunica), evidentemente neanche queste sanzioni basterebbero.
Chiarito questo, ci sarebbe da affrontare l’argomento delle decine di milioni di cristiani che vengono perseguitati a causa della loro fede perché ingiustamente considerati blasfemi, mentre a un blasfemo vero, qui da noi, in Italia, culla del cristianesimo e cuore della cattolicità, non è torto neanche un capello. Par di capire che l’ingiustizia sia doppia e che la dirigenza di Mediaset potrebbe almeno dimezzarla.   

martedì 4 gennaio 2011

Ad Assuntina brucia il culo


Assuntina Morresi scrive: “Brutto segnale, se a decidere sulle questioni eticamente sensibili – quelle della vita e della morte – sono i tribunali”. Si sta lamentando, sulla prima pagina di Avvenire, del fatto che “nei giorni scorsi il Tar della Lombardia ha dichiarato illegittime le linee guida regionali che precisavano alcune modalità di applicazione della legge 194”. In pratica, ad Assuntina brucia il culo: il cervellotico escamotage confezionato dai suoi amici ciellini per sabotare una legge dello Stato è stato dichiarato illegittimo dal giudice competente a esprimere parere dirimente. Le brucia il culo e lamenta: “Vuol dire che c’è un grave conflitto in corso, e che la politica deve intervenire con urgenza: solo chi rappresenta la volontà popolare infatti è legittimato a stabilire le regole del vivere comune, a maggior ragione su queste delicatissime tematiche”. E qui smetti di leggere.
Non s’era detto che nessuna maggioranza può mettere in discussione ciò che la superiore legge morale detta riguardo alla vita e alla morte? Non s’era detto – anzi, non s’era strepitato – che “sulla vita non si vota”? Possiamo forse dichiarare legittime tutte le decisioni che la volontà popolare prende sulle questioni eticamente sensibili? E se la volontà popolare sbaglia e non si esprime come si deve? Si tratta di tematiche che pongono in discussione principi non negoziabili, e allora di cosa discutiamo? Come ci azzardiamo a mettere ai voti cosa sia il bene e cosa il male, quando già tutto è scritto in una legge che sta prima e sopra l’uomo?
Domande retoriche: all’Assuntina è scappata una mostruosità. Tanto le brucia il culo che non si controlla e invoca ciò che, fuori dal contesto, sarebbe da stigmatizzare come errore che porta dritto all’indifferentismo etico che la dittatura della maggioranza... Brrr, non voglio neanche pensare ai rischi del mettere vita e morte della persona in mano alla volontà popolare. È che qui e ora la volontà popolare non esiterebbe a decidere come piace a lei, soprattutto se rappresentata da Roberto Formigoni. Non fosse così, strepiterebbe che vita e morte stanno solo in mano a Dio, e lì devono restare. Ma il culo le brucia e il bruciore la confonde.


C’è ancora molto da dire


I. C’è ancora molto da dire sulle violenze ai danni dei cristiani copti di Alessandra d’Egitto, sull’Anschluß di tutte le comunità cristiane non cattoliche e delle Chiese particolari locali che Benedetto XVI ha più che implicitamente dichiarato in Medio Oriente nel farsene rappresentante sul piano diplomatico, sulle reazioni del grande imam di Al Azhar che ha accusato il Papa di subdola ingerenza e di doppiopesismo ipocrita. Ho già detto delle questioni sollevate da queste prese di posizioni nel contesto di quella escalation di violenza che sta rimodellando entità e forma della presenza cristiana in terra musulmana; qui aggiungo, se non l’ho già fatto, che questo Capodanno è probabilmente destinato ad essere considerato un punto di snodo nella storia ultramillenaria delle relazioni tra mondo islamico e mondo cristiano, più della storica visita di Giovanni Paolo II alla Moschea di Damasco, più della storica lectio di Benedetto XVI a Ratisbona. Non credo di esagerare e con questo post cercherò di spiegare perché, dicendo da subito che qui, ad Alessandria d’Egitto, più che a Damasco in senso positivo e a Ratisbona in senso negativo, sono venute in superficie le questioni di “teologia politica” che sono in discussione nel mondo cristiano e in quello islamico a cavallo dei due millenni: seppur rapidamente dovremo citare il Concilio Vaticano II, il I Incontro interreligioso di Assisi del 1986 e la Dominus Iesus del 2000, arrivando a Damasco (2001) e a Ratisbona (2006), per averne chiaro lo sviluppo. Mi limiterò alle questioni di “teologia politica” in campo cristiano, anzi cattolico, ma quelle in campo islamico non saranno del tutto trascurate. Prima però sarà il caso di chiarire cosa intendo per “teologia politica” e lo farò servendomi, come ho già fatto, dell’impostazione data da Merio Scattola in Teologia politica (il Mulino, 2007).
“«Teologia politica» è un’espressione composta che può avere tre significati distinti, corrispondenti alle tre diverse relazioni possibili tra i due termini che la costituiscono. Se prevale in primo di essi, si genera una «politica della teologia» che rimane subordinata al dettame religioso e che, in determinati casi, aspira a realizzare una ierocrazia o una repubblica santa”.
Fermiamoci un istante: una «politica della teologia» è presente nel mondo islamico, ma non è assente in quello cristiano, dove la politica risulta non di rado subordinata a quel Bene sul quale il magistero cattolico dichiara piena e totale competenza, fino al punto da pretendere di far coincidere il Bene col Vero, la Carità con la Giustizia, sugli assunti di un dettame religioso che oggi si appella alla ragione non potendo più contare sulla forza. [Il concetto di laicità non ha senso nel mondo islamico, perché la società non può che costruirsi sul Libro: è l’ermeneutica del Libro che plasma la società e il legislatore è servo di Dio, senza che vi sia possibilità di contraddizione sul piano politico (almeno in via teorica) con l’essere suddito del Califfo. La storia dell’occidente cristiano, invece, si è consumata in un affinamento della teocrazia in egemonia culturale, che con la caduta dei suoi bastioni temporali ha portato alla crisi della sovranità sociale di Cristo, prima, e alla messa in discussione dell’autorità magisteriale. Tutto questo è stato possibile perché il Dio dei cristiani si è incarnato e ha accettato di addossarsi gli effetti del peccato originario per esigere gratitudine fino alla morte e fin dentro l’altra vita: era quanto implicava l’impossibilità di una coincidenza tra civitas Dei e civitas hominis, perfettamente realizzata invece della società musulmana eretta sul dettato coranico. Ma riprendiamo Scattola.]
“Se i due termini [«teologia» e «politica»] hanno forza uguale, avremo una riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico, cioè ordinante, implicato in ogni teologia”. Una diversa riflessione sul nucleo teologico della politica è evidente tra cristianesimo e islam, tuttavia è altrettanto evidente che mai come dal Concilio Vaticano II in poi c’è stato il tentativo, soprattutto da parte cattolica, di una riflessione comune finalizzata ad un asse di convergenza in opposizione alla “deriva secolaristica” indotta dalla modernità (o in essa coincidente). Potremmo dire che non s’era mai vista tanta attenzione all’islam da parte della Chiesa di Roma, e tuttavia assai ambigua sul piano teologico e su quello politico, dalla preghiera comune allo stesso Dio (ad Assisi e a Damasco), fino alla ricerca del “trialogo” tra i monoteismi, alla riaffermazione che extra ecclesiam è possibile solo l’errore (con la Dominus Iesus), fino alla configurazione di una inevitabile scontro di civiltà causato dalla irriducibilità della violenza intrinseca al Corano (a Ratisbona).
“Se infine – prosegue Scattola – predomina il secondo termine, viene prodotta una «teologia della politica», cioè una «teologia civile», alla quale si chiede di rafforzare il legame comunitario e l’ordinamento interno” (e io qui aggiungerei: anche di farsi ragione polemica offensivo-difensiva, con le reciproche accuse di usare Dio come strumento e fine di conquista: evangelizzazione e jihad, crociata e aspirazione al califfato mondiale, veluti si Deus daretur e Allah Akbar).
“In via approssimativa – conclude Scattola – si può dire che ai tre tipi di teologia politica corrispondono tre differenti estensioni del suo concetto, che infatti può essere inteso in senso ampio, in senso proprio e in senso speciale”. E qui – anche qui in via approssimativa – li abbiamo rappresentati per il cristianesimo e per l’islam.
Possiamo passare ad identificare “in senso proprio”, e per il solo campo cristiano, quel “nucleo teologico della politica” che porta il pensiero di Joseph Ratzinger a farsi causa di guai seri per mettere un freno all’indifferentismo sulla vera verità che sta soltanto nel Credo di Nicea. Dovremo parlare della Dominus Iesus.

II. Sfrondiamo, sfrondiamo quanto è possibile: “La missione universale della Chiesa nasce dal mandato di Gesù Cristo […] Al termine del secondo millennio cristiano, però, questa missione è ancora lontana dal suo compimento. È per questo più che mai attuale oggi il grido dell'apostolo Paolo sull'impegno missionario di ogni battezzato: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9,16). Ciò spiega la particolare attenzione che il Magistero ha dedicato a motivare e a sostenere la missione evangelizzatrice della Chiesa, soprattutto in rapporto alle tradizioni religiose del mondo. […] La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. […] La pratica del dialogo interreligioso non sostituisce, ma accompagna la «missio ad gentes»…”.
Qui dobbiamo fermarci: come possono stare insieme, senza contraddizione, la missio ad gentes e il sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che in molti punti differiscono da quanto la Chiesa crede e propone? Come si conciliano il mandato proselitario fino in capo al mondo, dunque anche in partibus infidelium, con la tolleranza dell’errore nel quale si ostinano gli infideles? C’è un punto in cui deve necessariamente cadere una delle due cose: o l’impegno missionario di ogni battezzato, che l’infedele sente come crociata (e il cristiano non cattolico come campagna papista), o il rispetto dell’altrui errore, che il battezzato sente come tradimento del mandato.
Ecco come è risolta la questione dalla Dominus Iesus: “Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso […] [sulla base di] alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata. […] Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo”. La questione è risolta col ribadire che “deve essere fermamente creduta la dottrina di fede […] refutando interpretazioni erronee e riduttive”. Ti rispetto, ma è fuori discussione che tu abbia torto e io ragione. Scusami, ma non posso lasciarti nell’errore, Gesù mi ha comandato di farti cambiare idea e battezzarti. Ripeti insieme a me: Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto”. E con ciò abbiamo chiarito fino a che punto sono nella possibilità di rispettarti. Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes. La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali [...] La Chiesa dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo”.
Potrebbe anche funzionare, tutt’è trovare in partibus infidelium degli infideles disposti a farti fare, tutt’è trovare musulmani che non siano saldi nella loro fede come tu lo sei nella tua e siano disposti a farti evangelizzare il loro pezzo di terra. Prova e metti in conto che il tuo “rispetto” per la loro fede possa non essere recepito come tale. Di poi, tenuto conto di quanto abbiamo detto sulla “teologia politica”, prova a spiegare bene a un musulmano che intendi per civitas Dei e per civitas hominis, e prova a convincerlo della bontà delle tue intenzioni prima di offrirgli il battesimo. Prendi la Dominus Iesus e leggigli lentamente, scandendo bene: “La missione della Chiesa è di annunciare il regno di Cristo e di Dio e di instaurarlo tra tutte le genti; di questo Regno essa costituisce sulla terra il germe e l’inizio. Da un lato, la Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell’unità del genere umano; essa è quindi segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e ad instaurarlo”.
C’è rischio di essere scambiato per un colonizzatore? Fagli capire che sei pronto al martirio. E metti in conto che anche loro non temano la morte. Buona evangelizzazione, ci risentiamo quando c’è da contare i morti.

III. Dal momento in cui Giovanni Paolo II lo fa prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ambiguo e scialbo professorino, che s’è fin lì fatto notare solo come acuto chiosatore di teologi che al suo confronto rimarranno sempre dei giganti, comincia a costruire una dottrina della teologia politica possibile alla Chiesa dinanzi alla modernità e alla minaccia che essa arreca ai sistemi dei saperi tradizionali. Ho usato il plurale, ma bisogna tener conto che per Ratzinger questi sono tutti in uno. Romano Guardini gli ha fatto capire che la Patristica è il laboratorio che ha prodotto teologia, ma anche progetto di società: una civitas hominis nella quale ogni sapere sia sorvegliato dalla fede e ogni agire sia dettato da un magistero. Non solo: i Padri hanno fornito i Dottori di uno strumento per legare Dio e società in reciproco rapporto di necessità. In modo molto ellittico potremmo dire che questo modello di teologia politica comincia a mostrare seria difficoltà quando la cifra monarchica di questa teologia politica perde sostegno storico con la caduta delle monarchie e l’avvento delle democrazie: solo in questo punto la dottrina cattolica perde l’aderenza sulla società che per secoli è stata cogente ed è qui che si crea una bolla, un embolo, che può ischemizzare un organo del “corpo mistico del Cristo vivente”, cioè della Chiesa.
Quid agendum? Trattare col mondo, facendo almeno finta di voler dialogare, o arroccarsi in una sterile testimonianza di fedeltà all’ortodossia, fidando nella semina del sangue martire? Perdere centralità per farsi più forti a latere o rimanere al centro per indebolirsi sempre più? Falso problema, per Joseph Ratzinger, che davanti al bivio fa una scelta triviale: “La forma istituzionale della Chiesa è parte essenziale della fede. Ma le istituzioni possono vivere solo se sostenute da convinzioni fondamentali comuni e se esiste un’evidenza. Il fatto che questa evidenza non sia pacifica è la vera ragione della crisi attuale della Chiesa. […] È per questa ragione che le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo se si legano a una lotta seria, convinta, per una nuova evidenza delle opzioni portanti della fede” (Joseph Ratzinger - 30giorni, II/2000). [Per dire: se Giuliano Ferrara avesse letto questa cosuccia nel 2000, non sarebbe diventato ratzingeriano, perché un ateo devoto non rientra nello schema ratzingeriano di teologia politica. In altri termini: il (veluti si Deus) daretur è solo un assaggino, poi viene il datur ed è scostumatezza rifiutare.]
La controversia tra tradizionalismo e progressismo in ambito ecclesiologico è sterile e insignificante perché lo è in ambito cristologico: a quel Cristo che arriva a noi da Nicea non può che corrispondere una categoria che supera tradizionalismo e progressismo. Questo Cristo si è incarnato in un processo geopolitico che ha reso la cristianità (e l’Europa, suo portato geografico) l’espressione del mandato apostolico, cioè di evangelizzazione, ma anche di inculturazione del cristianesimo, e quindi anche di missione extra-europea, di colonizzazione, di presa del possesso di roccaforti ed enclavi, di marcatura dei territori (il sangue dei martiri come l’urina dei cani) perché, a naso, quella cittadina in India, quel quartiere di Lagos, quella piazza di Alessandria d’Egitto siano cristiani per diritto del nome (il nome dei santi come stradario dell’ecumene). L’ambiguità di Ratzinger e il suo perenne osare e ritrarsi sono da riconsiderare in questo sistema di teologia politica. Per darne una visione il più possibile corretta occorre citare alcuni brani di una conferenza tenuta da Joseph Ratzinger ad Hong Kong nel 1993, che ha un incipit assai simile a quello della Dominus Iesus di 7 anni dopo.
“Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere”. E tuttavia Cristo è re di tutte le genti. “La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno”. E tuttavia è dichiarato l’obbligo di quel bisogno. “Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana”. E grazie al cazzo, potremmo dire, ma poi ci ricordiamo questo vorrebbe essere un post serio. Vabbe’, ormai è fatta, proseguiamo.
“Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica”. Mi pare già chiarissimo, ma se non lo fosse: “In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna. Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina”.
Avete già intuito dove si va a parare? Bravi, tra poco dirà che non si può dare piena libertà ai cristiani senza consentire loro di convertire. Non fossero molesti e arroganti, uno potrebbe pure consentire, ma avendo una fede e una cultura con analoga “missione mondiale” non finisce inevitabilmente a botte? Poco male: prenderle in missione matura meriti.
Teologia politica: “I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità”. Se la Verità è Una, non possiamo immaginare giusto il mondo che non la proclami e non la contempli. “Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di inculturazione, ma di incontro di culture o interculturalità […] Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono. Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede”. L’eccezione, naturalmente, conferma la regola.
“La fede cristiana è certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio. La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità. Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto”. Di sillogismo zoppo in sillogismo strabico, si arriva a legittimare il paradosso: il dialogo ha per fine la conversione, sennò è inutile, addirittura può risultare dannoso, perché contaminante.

IV. Sempre dalla conferenza di Hong Kong: “I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le loro endemiche filosofie della religione”. Inutile sottolineare che il cristianesimo sia una di queste: la più forte endemia subita dai popoli del Mediterraneo. “L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto”: non avrai altro Dio fuorché me e io sarò il tuo Dio, sicché l’errore sarà sempre e solo altrui, e ti autorizzerà su mio mandato a correggere quanti siano in errore; dove poi Dio non c’è (allontanato o ucciso), tu lo farai vivere tramite te e darai l’annuncio che è il solo, vero, buono e giusto Re. Ti è concesso non mostrarti troppo monarchico, via.
“La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma”: in meglio, naturalmente, se la conversione è al cristianesimo; in ottimo, se è al cattolicesimo. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,29), gli altri sono idoli: “Questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione. […] Nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella dualità delle nature. Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth”. Se non avviene anche l’inverso, non è Logos; e a Ratisbona aggiungerà che il Dio dell’islam “non è legato a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza”, che dal Logos trae strumenti.
Ed è sulla base di questi assunti che dovrebbe aprirsi un dialogo con le altre fedi: ogni concessione in deroga allontanerebbe dal Logos. Dite se voi se questo Logos non debba a stare almeno un pochino sul cazzo ai musulmani, e al punto da farli diventare illogici, cioè irragionevoli. E lì si ha la prova del nove: Allah non è il vero Dio, perché ispira atti violenti a chi lo idolatra come vero Dio; quindi, i musulmani sono in errore; il loro Allah è un errore. Funziona? Può funzionare? Dando per scontato che l’incipit del vangelo di Giovanni sia da leggere come lo leggeva Agostino, sì, senza dubbio. E a Ratzinger tanto basta. Prego, cari figlioli musulmani, dialoghiamo, ma partiamo dal presupposto che il Logos assiste i nostri argomenti e i vostri siano irragionevoli. Vi va?
Questo modello di teologia politica agisce (come dicevamo nel primo paragrafo di questo post) come «politica della teologia» subordinata al dettame religioso, come criterio che informa la riflessione sul nucleo teologico della politica e sul significato filosofico-politico che esso implica e come «teologia civile» chiamata a rafforzare il legame comunitario: la conversione informa il senso ampio, quello proprio e quello speciale dei termini che sono mobili da questa all’altra civitas. La salvezza si immanentizza, ma non si esaurisce nell’immanenza; la logica dell’uomo si fa specchio del trascendente, ma non ne racchiude (e come potrebbe?) la ragione: la fede sta lì per questo e sigilla il tutto. Non vi è venuta una gran voglia di dialogo? E allora siete bruti.
Già tutta in nuce nella conferenza di Honk Kong, la Dominus Iesus sembra tuttavia rivolta soprattutto ai fratelli maggiori (ebrei) e ai fratelli minori (cristiani riformati), tenendo un po’ da parte musulmani, indù, buddhisti, ecc. Arriva dopo Assisi (1986), ma poco prima di Damasco (2001), che precede Ratisbona (2006). Qualcuno penserà che dopo le aperture di Giovanni Paolo II, peraltro più formali che sostanziali, Benedetto XVI voglia farsi cappellano dello scontro di civiltà. Non è così e deluderà parecchi ingenui malintenzionati che vorrebbero ridurre la fede a storia, cultura e morale, che per Ratzinger sono un guscio vuoto senza che dentro Cristo vi si muova nella pienezza della sua pretesa, rappresentata dal magistero petrino. In questo senso, per esempio, molti atei devoti storceranno il muso sulla questione della Turchia nella Comunità europea, prima osteggiata dal cardinale Ratzinger e poi, almeno ufficialmente, non più osteggiata da Benedetto XVI; la lectio di Ratisbona ecciterà molti lepantisti, che poi saranno delusi dalle affannate rettifiche, precisazioni, limature, fino a vere e proprie scuse; e molti teocon, che avevano investito molto sulle possibili implicazioni politiche del termine composto “giudaico-cristiano”, rimarranno di sasso alle dichiarazioni di Benedetto XVI nel suo viaggio in Terrasanta; la batosta finale sarà nel riservare a questi entusiasti un “cortile dei gentili” come anticamera, in attesa della piena conversione.
Raccoglierà poco successo, l’idea di un’alleanza col mondo islamico contro la modernità: è da subito evidente che, stanti i prerequisiti di parte cristiana (ma anche di parte islamica) a un dialogo interreligioso che non si esaurisca nell’interculturale, è impossibile una base di accordo. Lo stesso Ratzinger è costretto ad ammetterlo, anche se in modo assai cauto, in Luce del mondo (LEV, 2010): “Sappiamo di essere impegnati oggi in una lotta comune. Abbiamo in comune, da un lato la difesa di grande valori religiosi – la fede in Dio e l’obbedienza a Dio [ma si tratta di un Dio diverso, di un diverso modo di intendere la fede, di una diversa forma di obbedienza: tutti ostacoli insormontabili per un dialogo che dovrebbe avere come fine ultimo la conversione dei musulmani al cristianesimo] – e dall’altro la necessità di trovare una giusta collocazione nella modernità. [Ci si annusa,] vengono affrontati i seguenti interrogativi: che cosa significa tolleranza? Qual è il rapporto fra tolleranza e verità?”. Ma nessuna delle due parti può concedere una tolleranza che accetti l’altrui verità come verità altra di un solo Vero: per cristiani e musulmani “il rapporto fra tolleranza e verità” non può essere che di conflitto (armato da parte dei musulmani più intolleranti). “A questo – prosegue – si collega anche la domanda se della tolleranza faccia anche parte il diritto a cambiare religione. Questo è un aspetto che gli interlocutori islamici riconoscono con difficoltà. Chi è giunto alla verità, si dice, non può più tornare indietro”. Ma non è così anche per un cristiano? Voilà, l’interlocuzione è bloccata in entrambi i sensi.
Ma c’è di più. A Peter Seewald che gli chiede: “Non è passato molto tempo da quando i Pontefici consideravano loro compito difendere l’Europa dall’islamizzazione: a questo riguardo il Vaticano ha cambiato totalmente politica?”, Benedetto XVI risponde: “No. Sono le situazioni storiche ad essere cambiate”. E tuttavia “importante è trovare ciò che abbiamo in comune”. Sia lecito considerare che è proprio ciò che hanno in comune i cristiani e i musulmani – la pretesa che la verità sia una e appartenga solo agli uni, tenendo gli altri nell’errore – a rendere impossibile il costruirci sopra una qualsiasi politica comune, per quanto episodica: la teologia politica non è sola politica, non può curare interessi comuni che non siano fondati su una comune verità, e infine Benedetto XVI è costretto ad ammettere che “non possiamo certo fonderci”. In realtà, ne avevamo avuto il sospetto.
[Vorrei qui citare un interessante intervento di Fabio Brotti: “Perché islam e cristianesimo possano convivere pacificamente occorrono delle condizioni precise. Penso che la storia lo dimostri in modo inconfutabile. La condizione prima è che la comunità cristiana o quella musulmana debbono rappresentare, nel territorio dato, una piccola minoranza. La condizione seconda è che in quel territorio esista un potere sovrano forte e deciso, e non democratico. In qualsiasi Stato debole o democrazia ove esistano una comunità musulmana forte e una comunità cristiana anch’essa forte, lo scontro interreligioso sarà sempre inevitabile. Non conosco alcun caso di convivenza pacifica tra due comunità altrettanto forti e dedite ad un intenso proselitismo. […] Ovunque […] differenti religioni siano convissute in pace, lo hanno sempre fatto sotto un potere formidabile” (Brotture, 4.1.2010). Manca solo un rilievo che forse è implicito in quel “formidabile”: ritengo che alla “piccola minoranza” debba essere concessa una tolleranza proporzionale alla sua insignificanza, ma il fatto è che anche piccole minoranze cristiane o islamiche intenderanno sempre la loro libertà come diritto di fare proselitismo. E quando questo miete frutti, per quanto esigui siano, la maggioranza li avvertirà come un pericolo.]
[segue]

lunedì 3 gennaio 2011

Senza pudore, probabilmente nella convinzione di essere brillante





Signor sceicco


[Lo sceicco Ahmed El Tyeb, che è una delle più alte autorità dell’islam e da nove mesi ricopre la carica di grande imam di Al Azhar, ieri stava per essere linciato al Cairo da una folla di cristiani inferociti, intenzionati a vendicare le vittime dell’attentato terroristico che un gruppo vicino ad Al Qaida – al momento è l’ipotesi più verosimile – ha compiuto ad Alessandria d’Egitto, lo scorso 31 dicembre. Si è salvato per miracolo, pare, ed è questo che ieri mi faceva riflettere su quanto sia difficile per i cristiani mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori.
Scampato al linciaggio, Ahmed El Tyeb si è trovato sotto gli occhi un’agenzia con le parole pronunciate da Benedetto XVI poche ore prima, all’Angelus, e – saranno stati i nervi – gli sono sembrate un atto di ingerenza, almeno così ha detto. Da italiani abituati alle prolusioni del cardinal Ruini, ieri, e del cardinal Bagnasco, oggi, ci sarebbe d’obbligo un grande vaffanculo al grande imam: se due paroline di cordoglio sono ingerenza, come dovremmo definire i diktat della Cei? Tuttavia – vedrete il perché – merita un altro trattamento.]

Est modus in rebus, signor sceicco: abbia maggior cura dei termini che usa e scelga meglio i suoi argomenti. Lei ha chiesto: “Perché Benedetto XVI non ha chiesto la protezione dei musulmani quando venivano massacrati in Iraq?”. Perché non era ancora lui, il papa, e comunque il suo predecessore non restò zitto, né nel 1990, né nel 2003, mentre l’allora cardinale Ratzinger sosteneva che “non esistevano motivi sufficienti per scatenare una guerra contro l’Iraq” (30giorni, IV/2003).
Se non erro, signor sceicco, lei ha detto meno di un anno fa: “The Qur’an […] states unequivocally that if God has willed to bring just one religion, one creed, one color of skin, or one language, He would’ve done so, but in fact He has not willed it so; instead, He willed divergence to continue to the end of time. […] As consequence of the divergences that God has willed for mankind, religions and doctrines must also diverge and must remain divergent, until God inherits the earth and whatever is on it. Thus we can safely say that doctrinal divergence is both a Qur’anic and a universal truth. Indeed, no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself. If such be the case, then the relationship of the Muslim to the non-Muslim is one of seeking to know each other or to learn about each other”.
Questo le fa onore, sa? Lei è quello che qui da noi chiamiamo “musulmano moderato”. Con la sparata fatta ieri contro Benedetto XVI, però, lei corre il rischio di sembrare l’energumeno che non è, facendo apparire lui il mite che non è. Metta a confronto la sua tolleranza con la Dominus Iesus: perché passare dalla ragione al torto?

“Il perenne annuncio missionario della Chiesa – scriveva Ratzinger – viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso”, che è proprio quello al quale lei invece sembra accordare consenso sulla base di quei “presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che – per Ratzinger – ostacolano l’intelligenza e l’accoglienza della verità rivelata”. Non c’è paragone: lei è una personcina a modo e Ratzinger è un fottuto fanatico, perché invertire i ruoli?
Lei sostiene che “no Muslim could ever imagine a humanity in consensus about a single creed or religion or one being entirely reduced to one religion, even if this religion is Islam itself”, e invece Ratzinger ha scritto che “le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità [alle quali] tuttavia non può essere attribuita l’origine divina e l’efficacia salvifica”, sicché “i seguaci delle altre religioni […] oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici”.
Rispetto a un integralista del genere, signor sceicco, lei ci fa una figura da galantuomo: perché buttare tutto al cesso? Solo perché quelle furie cristiane volevano ficcarle un crocifisso su per il culo? Via, si calmi.

Comicità protesica



La comicità basata sullo stravolgimento della lingua può essere occasionale (come era in Totò, per esempio, che di tanto in tanto storpiava un termine, per lo più colto, aulico o – già allora – desueto, per godere nel vederlo – e far godere nel mostrarlo – degradato in uno sgorbio buffo, talvolta mostruoso) oppure essere continuo (sull’errata pronuncia di un termine o su un suo doppio senso, sugli errori grammaticali e sintattici, sull’acciaccamento del lessico, vuoi alto, vuoi basso) e allora trae efficacia dall’invenzione di una specie di neolingua che in fretta diventa la cifra del comico, che così finisce per diventare strumento della sua stessa invenzione (se i testi sono i suoi).
Ne abbiamo visti tanti, di questo secondo tipo – fittissime sequenze di strafalcioni e fraintesi, di tempi e modi verbali pressoché anarchici e di doppiette anacoluto-pausa, di frasi dalla demenza surreale o di luoghi comuni stravolti (quasi sempre scivolando nella maniera) – e quasi tutti negli ultimi due o tre decenni: da Frassica a Bergonzoni, dai Fichi d’India ad Albanese, da Banfi a Zalone, molte neolingue, molto manierismo.
Questo tipo di comicità esige uno sforzo inversamente proporzionale al risultato: l’inaudito e l’estemporaneo hanno spesso efficacia dirompente, il meditato e il collaudato annoiano presto, quasi sempre (e perdono spontaneità, che poi è grave ipoteca su tutti i tipi di comicità).
[Sì, confesso che non mi piace affatto questo tipo di comicità. Mi pare troppo protesico e nelle protesi non scorre mai sangue.]

Zalone, per esempio, cioè Luca Medici. Per quanto ancora potrà continuare a strapparci quel sorriso che certifica la nostra compiaciuta soddisfazione nel trovarci culturalmente e moralmente superiori ai suoi coatti tanto sguaiati (però dalla disarmante innocenza animale)? Tra poco avranno dignità di citazione e ci supereranno in caratura iconica.
E per quanto tempo potrà riproporci – in parodia – la precipua fenomenologia del cantante imitato? Già Vendola si sforza di aderire il più possibile all’imitazione e tra poco l’imitatore si troverà senza più neolingua, scippatagli da Vendola: sarà vero teatro – o cabaret – dell’assenza, e Zalone sarà esiliato in qualche genere serio. Fine.

Due o tre cose


Quest’anno parleremo molto dell’Unità d’Italia, sicché da subito conviene dire due o tre cose che a mio parere non possono e non devono restare sottintese, come vorrebbe chi ha interesse a che siano deliberatamente eluse, per essere meglio rimosse o, peggio, mistificate. Vorrei legarle tutte in una – e vedrete che non è solo per comodità espositiva – nel pensiero di uno di quei tizi che fu fra i primi ai quali scappò detto un “noi italiani”. Più d’uno, in verità, perché parlo di Niccolò Machiavelli e dei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519), dove l’Italia non è più solo mito, come in Dante o in Petrarca, ma storia e – più di tutto – questione politica. Qui, infatti, l’Italia è detta “provincia divisa”, e nella divisione è inteso un limite, posto a tutti e a ciascuno come impedimento a farsi nazione. È in questo limite che la nazione resta irrealizzata ed è oltre questo limite che invece supera – eccede – l’insieme di quanto è dato come etnico, geografico, linguistico, ecc. Possiamo dire che l’Italia si comincia a intravvedere quando infine – e finalmente – si postula il primato della politica sulla morale, e quello della volontà sul carattere. In Machiavelli la nazione non è destino, tantomeno è incarnazione di un narrato mitologico, forse non è nemmeno nostalgia dell’antica Roma come è parso a molti: l’italiano che non c’è – quello del quale Machiavelli lamenta la mancanza – non è l’erede dell’impero che fu smembrato dai barbari, ma è la prefigurazione del cittadino nel suo primordiale stadio di suddito. La polis è superata, la foederatio l’assorbe e la proietta in Stato.

So bene che per certi versi questa lettura di Machiavelli sembrerà “troppo moderna”, ben oltre la modernità che il suo pensiero ha contribuito a fondare. Tuttavia penso che su Machiavelli pesi un pregiudizio: si dice che nel suo pensiero non vi fosse posto per la morale, ma il fatto è che per “morale” si intende “morale cristiana”, mentre si trascura il fatto che una morale regge la sua costruzione, ed è quella precristiana (se si vuole, pagana). “La nostra religione [il cristianesimo] ha glorificato più uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha di poi posto il sommo bene nell’umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra [se si vuole, il paganesimo] lo poneva nella grandezza d’animo e nella fortezza del corpo e in tutte le cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra [quella cristiana, da intendersi come “religione che ci ha reso tali qual siamo”] richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vedere, adunque, pare che abbia renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati, i quali sicuramente lo possono maneggiare vedendo come l’universalità degli uomini per andare in paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle”. Qualche dubbio su chi siano gli “uomini scelerati”? Un aiutino? Il termine si trova anche nei Ricordi di Guicciardini, col quale Machiavelli ebbe molto a conversare, e qui compare quando si parla della “caterva di scelerati preti”. Il cristianesimo e i suoi propagandisti – gli “scelerati preti” – come veri nemici della nascita di un’Italia unita.

Il mai dimostrato assunto che la grandezza degli italiani sia in relazione alla particolare coincidenza di Stato e Chiesa sulle vestigia dell’antica Roma è interamente ribaltato: “Poiché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno ripugnanza [cioè non possono essere contestate]. La prima è che per gli esempi rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione […] Abbiamo adunque colla Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obbligo di essere diventati senza religione e cattivi”. La religione della Chiesa romana come corruttrice dell’antica morale e come impedimento ad ogni nascere di religione civile. “Ma di obbligo ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa […] Non essendo adunque stata la Chiesa potente da occupare la Italia né avendo permeso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo ma è stata sotto più principi e signori dai quali è nata tanta disunione e debolezza che la si è condotta a essere preda, non solamente dei barbari possenti ma di qualunque l’assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri”. E qui, volendo, si possono saltare a pie’ pari tre secoli e mezzo, dal 1519 arrivare al 1861 o al 1870, e trattare dell’“obbligo” che infine si risolse con quel “metro cubo di letame” (come affettuosamente lo chiamava Garibaldi) che dai tempi di Machiavelli, e da molto tempo prima, sedeva sul Soglio Pontificio a tenere la “provincia divisa”.

domenica 2 gennaio 2011

Sto aspettando



Oh, ha citato il Sermone 34 del suo Agostino, uno dei suoi sermoni più belli... E poi ha detto che “la bella musica è in grado di esprimere qualcosa del mistero dell’amore di Dio per noi e del nostro per Lui”... Oh, sfavillante sineddoche. Ci conferma che Ratzinger è davvero uno coi coglioni: uno teologico, l’altro liturgico... Poi ha ricordato ai ragazzini che il loro canto è un servizio e ha paragonato il loro coro a quello degli angioletti in cielo: oh, quanto è sensibile, ’sto Papa, e quanto è delicato...

Sto aspettando che uno stronzo qualsiasi dei nostri vaticanisti – dei nostri lo sono quasi tutti, non aspetto invano – si strugga nel consueto esercizio di sdolcinato servilismo laudatorio, stavolta a commento del messaggio che Benedetto XVI ha rivolto alle voci bianche della Federazione Internazionale dei Pueri Cantores, giovedì scorso. Neanche il più lontano cenno al fatto che per secoli il Papato tenne bianche quelle voci con la castrazione, quanto scommettiamo?


Si potrebbe dire


Pare che il Riformista perda in un sol colpo la direzione di Polito e la proprietà di Angelucci. Non fosse già morto da un pezzo per colpa di entrambi, si potrebbe dire: che culo!


E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci


Il Motu proprio per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario del 30 dicembre è stato accolto per lo più con grande favore: si è parlato di “serietà e impegno” (La Stampa), di “trasparenza” (Corriere della Sera), di “Mani pulite in Vaticano” (il Giornale), e c’è chi ha scritto che ora “il Vaticano non è più un paradiso fiscale” (Il Sole-24 Ore), che “il Papa ha chiuso i cancelli del paradiso fiscale” (Libero) e che da oggi in poi “basta misteri” (Il Secolo XIX), il Papa impone norme antiriciclaggio” (Il Tempo). È davvero così? Basta leggere il documento per capire che in pratica non cambia niente e che è davvero esagerato parlare di “una rivoluzione” (Ansa). Tutto sta nel cogliere la differenza troppo spesso trascurata tra Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. In pratica, col Motu proprio, la Santa Sede si riserva il controllo delle operazioni finanziarie e monetarie dello Stato della Città del Vaticano, e si impegna a far propri i principi e gli strumenti giuridici dei quali la comunità internazionale si è già dotata da tempo. Sì, molto bene, ma in ultima analisi quale autorità sorveglierà sui sorveglianti? Quis custodiet ipsos custodes? Il Papa. E non potrebbe essere diversamente, perché è il Papa che assume nella sua persona il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. La legge CXXVII dello Stato della Città del Vaticano che il Papa firma il 30 dicembre, e alla quale fa richiamo nel Motu proprio, è una sua emanazione, come l’Autorità di Informazione Finanziaria contestualmente costituita lo è sul piano esecutivo, come gli organi deputati a esercitare una eventuale azione penale lo sono su quello giudiziario: il Papa si dà delle regole, si fornisce dello strumento per rispettarle e si riserva di darsi sanzione nel caso vengano violate. E gli uomini di buona volontà dovrebbero crederci, anche se è una evidente presa per il culo.

Dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede

Discutendo sui cattolici perseguitati in Cina, abbiamo messo in evidenza il fatto che “non sono fatti oggetto di persecuzione in quanto credenti, né in quanto cristiani, né in quanto seguaci della dottrina cattolica”, ma “perché riconoscono come loro vescovi solo quelli nominati da Roma, disconoscendo quelli nominati da Pechino” e abbiamo sollevato obiezione a Benedetto XVI che ha definito tutto ciò una “limitazione della libertà di religione e [addirittura] di coscienza”. Ci è d’obbligo, ora, parlare dei cristiani davvero perseguitati a causa della loro fede. Non già di cattolici ai quali lo Stato scippa la libertà di avere vescovi d.o.c., imponendo loro il solo ma insopportabile giogo dell’obbedienza a una gerarchia diversa da quella vaticana, non apostolica ma di partito: parliamo di cristiani (anche non cattolici) perseguitati e uccisi per il solo fatto di essere cristiani, per lo più da musulmani.
È il caso dell’orribile strage di copti ortodossi in Egitto, ieri, e delle deprecabili violenze ai danni dei metodisti dell’Associazione cristiana in Nigeria e dei cristiani della Chiesa Caldea in Iraq, a Natale. [En passant, è da segnalare il fatto che non si tratta di cattolici apostolici romani, ma che il Papa ne lamenta la persecuzione come fosse ai danni di membri della comunità sulla quale vanta “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale” (Codice di Diritto Canonico, can. 331), includendovi dunque anche i cristiani che non riconoscono tale autorità nell’ambito della “Chiesa universale” come promanazione di Cristo. Si tratta di una forzatura ecumenica che si traduce in una ulteriore ma assai più sottile violenza ai danni dei cristiani non cattolici – o ai cattolici di rito non romano – perseguitati dai musulmani: annessi come martiri di una fede che per tanti aspetti (ecclesiologici, ma anche cristologici) non è da essi pienamente condivisa.]

Superfluo dire che l’uso della forza è una costante di tutti i conflitti interconfessionali ed è da condannare sempre: non potremmo soffermarci, come qui facciamo spesso, su quella che Karlheinz Deschner ha giustamente definito Kriminalgeschichte des Christentums senza essere sensibili in egual misura ai crimini commessi in nome dell’islam. Superfluo dirlo, ma diciamolo lo stesso, a scanso di ogni equivoco: bruciare un uomo – un cataro del XIII secolo, un templare del XIV secolo, un ebreo del XV secolo, un nolano del XVI secolo, una strega nel XVII secolo, ecc. – è cosa brutta e non si fa.
Le ragioni principali sono due. La prima, di natura religiosa, vieta all’uomo di compiere violenza sul suo simile, in quanto creatura di Dio; c’è tuttavia da segnalare che sul concetto di simile c’è (o c’è stata) sempre controversia in ogni confessione religiosa, con la tendenza a restringerlo all’ambito dei simili per fede. La seconda, di natura umanistica, allega alla vita umana un valore sacro (non necessariamente trascendente: il sacro può non essere riflesso del divino, ma del primato umano sul mondo) e che perciò può essere negato al simile che sia identificato come nemico dell’umanità; anche qui non è raro constatare controversia, però sul concetto di umanità.
Ci sarebbe una terza ragione, capace di sanare ogni controversia: per quanto possa essere diverso da me, per quanto diversa dalla mia possa essere la sua idea di umanità, nessun uomo può essere bruciato: né in nome di Dio, né in nome dell’umanità. Trattandosi di assoluti, Dio e umanità tendono infatti a eliminare i relativi e quasi sempre finiscono col non farsi scrupoli nel ricondurre il molteplice all’unità. Questa terza ragione rigetta il fondamento totalitario che è nelle altre due e trae argomento dal diritto intenso come convenzione tra diversi che si danno uguale regola, in libera e responsabile autodeterminazione. In virtù di tale ragione nessun Dio e nessuna idea di umanità possono porre una ipoteca sulla convenzione, che così non può essere data come universale né eterna, e perciò non può sacrificare l’individuo a un assoluto.

Anche qui dobbiamo sollevare obiezione a Benedetto XVI, che su questi ultimi episodi di violenze a danno di cristiani si è così espresso: “Assistiamo oggi a due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza” (Angelus, 1.1.2011).
L’obiezione è data dal fatto che solo nella sfera privata gli assoluti possono avere piena dignità: in quella pubblica hanno tendenza a generare conflitti che sono sempre violenti, anche quando non cruenti. A farne le spese sono sempre i più deboli e così è stato per un lungo tratto della storia del mondo cosiddetto cristiano. Non si è ancora spenta l’eco dei papi che condannarono chiunque rifiutasse la piena obbedienza alla loro autorità morale e sociale: sul piano storico è assai prematuro chiedere all’islam ciò che al cristianesimo è riuscito solo tardivamente e con grande difficoltà. Parrebbe, insomma, che a lamentare i morti di queste ultime settimane abbiano più titolo i cosiddetti laicisti che il Papa.
Si tratta di vittime cristiane, ma non solo: sembra che anche stavolta sia stato difficile mettere in pratica il dettato evangelico di porgere l’altra guancia e di pregare per i propri persecutori e che sia in Egitto che in Nigeria a violenza sia stata opposta violenza, anche se di minore entità per la considererevole sproporzione di forze in campo.