giovedì 13 gennaio 2011

Moderiamo i termini


Cristianofobia è termine al quale Benedetto XVI pare assai affezionato, ma che è tanto improprio a definire ciò che arma la mano di chi ammazza i cristiani da far pensare che Sua Santità voglia confonderci.
Se -fobia vuol dire fifa, infatti, quella è dei cristiani. E a buon motivo, perché chi è fatto oggetto di minaccia è fisiologico l’abbia. Sono i musulmani a metter fifa ai cristiani, in questo caso, e dunque l’unica -fobia che può aver senso in un tale contesto sarebbe un’eventuale islamofobia dei cristiani.
Se poi -fobia sta a indicare qualcosa di patologico (“paura angosciosa per lo più immotivata” – Devoto-Oli), e usando cristianofobia si vuole fare intendere che ad armare la mano contro i cristiani sia solo follia, mossa dalla malata percezione che essi costituiscano una minaccia per il mondo islamico, beh, questo è un poco disonesto.

La Chiesa, infatti, ama definirsi casta meretrix, paragonandosi a Raab, la puttana di Gerico che offrì protezione e complicità alle spie di Giosuè per far cadere la città: anche quando indigeni, i cristiani hanno sempre un’altra patria da servire e neanche lo considerano un tradimento, proprio come Raab, che Paolo cita come esempio di vera fede.
Dal canto loro, i musulmani nutrono un attaccamento morboso a Gerico, pardon, volevo dire alla propria società, un attaccamento che fonde fede, sangue e terra in un solo feticcio: tutta immotivata la loro percezione dei cristiani come nemici in casa? Chi coniò la sprezzante espressione in partibus infidelium, che ha implicito il disprezzo per la fede musulmana, per indicare la sua presenza missionaria nelle terre dell’islam?


“Il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”



Se dobbiamo prestar fede a Eusebio di Cesarea, sotto l’impero di Diocleziano vissero e morirono cristiani che avevano un’idea di vita e un’idea di morte assai diverse da quelle che hanno i cristiani d’oggi: la fede li rendeva tanto forti da non dar troppo conto alla vita e anzi li spingeva ad affrontare la tortura e la morte “con contentezza, gioia e ilarità, innalzando canti di ringraziamento a Dio” (Historia ecclesiastica, VIII, 9, 5). Qui, sarà che la fede non è più quella giovane di due soli secoli, ma è quella decrepita di ormai già due millenni, si piange, si urla, si strepita. Non solo: si lanciano appelli, diplomazie si attivano, s’invocano arbitrati internazionali, si arriva addirittura a chiedere un Christian Rights Watch (Il Foglio, 12.1.2011). Dev’essere un indicatore dell’energia di un credo: “pur ormai all’ultimo respiro”, scrive Eusebio, i cristiani non si lamentavano; qui, invece, per la penna che non sappiamo neanche se di un Crippa, di un Meotti o di un Rodari, si sollecita la creazione di un’agenzia sovranazionale, con tanto di uffici, fax e segretarie.
Il nome, poi. Manco in latino. Christian Rights Watch: puzza di peplum girato a Cinecittà e doppiato in un americano dal forte accento texano.

È il sintomo di un irreversibile infiacchimento della fede cristiana, non ci sono dubbi, e tutto sta nel fatto che l’aldilà ha perso ogni attrazione: al pastore preme porre l’attenzione a un vademecum morale, a una ricetta di vita, a un manifesto culturale e politico, a una presenza che si traduca in rilevanza; e al gregge preme un’esistenza decente, serena, fatta di care vecchie abitudini, scandite al ritmo dei sacramenti, come i non credenti le scandiscono al ritmo degli aperitivi.
Dove li trovi più, i bei martiri di una volta? E quale papa potrebbe esortare i suoi ad affrontare il martirio con contentezza, gioia e ilarità? Qui, nella migliore delle ipotesi, ce n’è uno che dalle comode stanze del Palazzo Apostolico incoraggia a stringere i denti e a non mollare, perché la geopolitica vaticana prevede qualche sacrificio umano che la Santa Sede si sforza come può di limitare al minimo, il tanto che procuri un santo, di tanto in tanto, e un po’ di Ratisbona, un po’ di Assisi, un Pizzaballa qui, un Padovese lì, il signor nunzio in trattativa, prefiche a supporto.
In tal senso, un Christian Rights Watch non è idea malvagia. In fondo, di che parliamo? Di libertà religiosa e di democrazia, perché “la libertà religiosa, assieme alla democrazia, è il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”, queste sarebbero le intenzioni. Aprire uno scrigno con un forcipe: immagine eloquente, vero? Quasi quanto quella di un musulmano che ti apre il cranio con un candelabro, direi.

mercoledì 12 gennaio 2011

Puf


Avvenire dedica una pagina ai catari: erano manichei, avevano l’ossessione della purezza, vestivano abiti austeri, non mangiavano carne, erano chiamati anche albigesi, pauliciani e bogomili… Indovinate un po’ qual è l’unico dettaglio taciuto? Bravi, proprio quello: neanche un cenno, neanche di striscio, allo sterminio che subirono per mano dei cristiani.
C’è chi dice 60.000 (20.000 solo a Béziers, nel 1209), c’è chi dice 100.000, c’è chi calcola più di mezzo milione lungo l’arco di due secoli. E il giornale dei vescovi, che rompe il cazzo da settimane sulle persecuzioni sofferte dai cristiani in Asia e in Africa, nella pagina dedicata ai catari non riesce a trovare un solo rigo per dire che fine fecero: puf, svaniti nel corso della storia, senza apparente ragione.

[Autore dell’articolo è Franco Cardini, che però non merita alcuna attenzione: Divagazioni parahitleriane, qualche scriteriata pagina guevarista, un buon numero di dissennate dichiarazioni d’amore per il sottobosco culturale terzomondista e addirittura hippy. Insomma – ammise una volta (Scheletri nell’armadio, Akropolis 1995) ne ho combinate di tutti i colori”. Non gli manca il senso autocritico, tra qualche anno non mancherà di vergognarsi di quest’articolo: il nostro biasimo è superfluo.]

“Il peso particolare di una determinata religione”

“Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione … siano discriminati nella vita sociale”. L’ha detto Benedetto XVI nel discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, parlava dei paesi nei quali i cristiani sono discriminati. Al posto dei puntini si aggiunga “o a nessuna confessione” e un ateo potrebbe sottoscrivere. Certo, Sua Santità parlava dei paesi nei quali la discriminazione ai danni dei cristiani è particolarmente grave, ma poco oltre ha pure detto che “non si può creare una sorta di scala nella gravità dell’intolleranza”, come a dire che essere perseguitati in quanto cristiani non è troppo più grave che imporre a un non credente “il peso particolare di una determinata religione” nella nazione in cui vive.
Molto bene, dunque, se non fosse che, quando è il cristianesimo ad avere questo peso particolare, al posto dei puntini non si può aggiungere niente: da cittadini appartenenti ad un’altra confessione ci si può aspettare un po’ di tolleranza, da atei no. Alla libertà di credere deve essere dato un minimo che non è mai abbastanza quando si tratta dei cristiani, tutto sarebbe sempre troppo alla libertà di non credere. La libertà religiosa cara a Benedetto XVI è quella che concede il massimo alla religione che abbia un peso particolare, un minimo alle altre e niente a chi vorrebbe essere libero di non credere con gli stessi diritti di chi crede. Infatti, per affermare “il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo” si dovrebbe rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo”. Voilà, di fatto la libertà di credere diventa un obbligo.

Né in nome, né per conto


Massimo D’Alema (Ottoemezzo) e Anna Finocchiaro (Ballarò) hanno posizione analoga sul referendum alla Fiat: voterebbero no, dicono, ma dipende dal fatto che non sono operai, sennò molto probabilmente, quasi certamente, voterebbero sì. È posizione saggia? Dipende da cosa debba intendersi per saggezza. Se infatti quello di Sergio Marchionne è un ricatto, e così pare sia per entrambi, da ricattati sarebbe saggio cedervi, altrimenti no. Il ricatto, insomma, sarebbe cosa odiosa, alla quale non cedere, potendo, ma invece sì, dovendo. È evidente che il problema non è il ricatto, se quello di Marchionne lo è, ma quello che separa il potere dal dovere.
In tal senso la saggezza starebbe tutta nell’adeguare le proprie scelte in modo congruo alla forza della quale si dispone e allora il più saggio di tutti sarebbe Marchionne, tanto forte da poter imporre il limite oltre il quale sarebbe stolto non cedere: “Se vince il no, porto via la Fiat e rimanete senza lavoro: vi conviene?”. Non sarebbe saggio resistere al ricatto contro la propria convenienza e da operaio della Fiat conviene cedere al ricatto che da dirigente del Pd risulterebbe inaccettabile: “Voterei no, ma non sono un operaio della Fiat, e nei suoi panni voterei sì”.
È l’ammissione di non avere alcun diritto di rappresentarlo. Ma D’Alema e Finocchiaro non sono sindacalisti, sono politici: da quando è saltata la cinghia di trasmissione tra Pci e Triplice – praticamente da quanto la Cgil ha perso l’egemonia nella Triplice – i postcomunisti D’Alema e Finocchiaro non rappresentano lavoratori, ma cittadini. Semplicemente non dovrebbero essere interpellati sulla questione o, se interpellati, non dovrebbero rispondere.


martedì 11 gennaio 2011

Evoluzione del meme




[...]




Trasferta


Amarcord (Corriere della Sera, 8 luglio 2004)


Caro Mieli, mi permetterei di dissentire sul fatto che «quello italiano sia un caso di successo del bipolarismo». Di qua, con una maggioranza parlamentare forte quanto non mai, la coabitazione di liberali con cristiano-sociali, di liberisti con assistenzialisti, di libertari con qualche nostalgico fanfanian-almirantiano, di centralisti con secessionisti in standby, di garantisti con qualche giustizialista a senso unico – e si potrebbe continuare. Di là, un arco di forze che, se vuol essere maggioranza alternativa, deve assommare comunisti e cattolici, europeisti ed euroscettici, atlantisti ed antiatlantisti, proibizionisti ed antiproibizionisti – per nominare solo alcune delle contraddizioni, germi di instabilità per un eventuale governo del centrosinistra, non meno di quanto stiano dimostrando le contraddizioni dell’altro schieramento, che solo la personalità di Berlusconi riesce a nascondere, se non annullare. Il bipolarismo non ha omogeneizzato – e neppure ricondotto a fronti, pur eterogenei, ma compatti – i sempre micellizzati indirizzi culturali, progetti politici, programmi, né di qua né di là. Il risultato è e rimane l’ingovernabilità, se non nell’amministrazione degli affari correnti; e, se i governi non cadono più con la frequenza di prima, è palese l’impossibilità di vere riforme – di qualsiasi segno – per il costante attivismo di perduranti e trasversali forze di inerzia.

Luigi Castaldi, Napoli

La versione di Adinolfi aveva un buchetto, adesso piscia come un colabrodo


Mi è d’obbligo aggiornare il post qui sotto, nel quale sostenevo che l’aggressione subita da Mario Adinolfi non fosse da contestualizzare in “un clima simile [a quello de]gli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata”, come suggerito dall’aggredito: sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Adinolfi, ipotizzavo che si fosse trattato “una volgare lite per motivi di viabilità”. Bene, avevo visto giusto. Pare che “Adinolfi [fosse] a piedi e [stesse] attraversando la strada, mentre il ragazzo [stesse] a bordo di un motorino” (ansa.it, 10.1.2011). Versione non perfettamente coincidente con quella riferita da Adinolfi: “Gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola di circonvallazione Gianicolense all’altezza del civico 390”.
Come è evidente dalla veduta aerea di Google Earth, nel tratto di strada attraversato da Adinolfi mancano le strisce pedonali: le più vicine sono a circa 80 metri in direzione sud-est e a circa 60 metri in direzione nord-ovest.


Questo elemento suggerisce una dinamica degli eventi un po’ diversa da quella della versione di Adinolfi, che per sua stessa ammissione ha attraversato la carreggiata di una strada a veloce scorrimento, non troppo illuminata, di notte, lontano dalle strisce pedonali e probabilmente senza avere addosso alcunché di catarifrangente. Può dirsi fortunato a non essere stato messo sotto da un camion con rimorchio. Fortunato anche il ragazzino in motorino ad averlo schivato, perché si sa che il codice stradale dà sempre ragione al pedone anche quando è incauto. Devono essere volati i mortacci, da una parte e/o dall’altra, poi è volato il casco.
Ma non è tutto. Adinolfi ha dichiarato di essersi recato a un pronto soccorso dove gli sarebbero state refertati “ecchimosi, edema, ferite lacero-contuse”, eppure, almeno a quanto riportato dal cronista di ansa.it, “i giorni di prognosi non risulterebbero ancora documentati”. Deve trattarsi senza dubbio di errore, perché in questi casi la prognosi è sempre contestuale alla diagnosi. Qui occorre attendere ulteriori chiarimenti.
Possiamo essere certi, invece, che il lacero-contuso abbia un po’ distorto i fatti nel racontarceli: “Gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola... Anche otto contro uno, per fortuna, ho una mole convincente: sono grosso e so difendermi...”. Bene, non è stata l’aggressione di un branco, e a menarlo è stato solo il ragazzino: unico indagato.
Dimenticavo. Quel “Sallusti è stato accontentato” che introduceva il racconto di Adinolfi pare qualificarsi per ciò che supponevo: strumentale e pretestuosa insinuazione. Alla luce dei fatti, particolarmente meschina.



lunedì 10 gennaio 2011

“In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”


“Qui da noi può succedere di tutto, ma le rivoluzioni si fanno solo per scherzo. Come diceva Mario Missiroli, una roba seria non si può fare «perché ci conosciamo tutti»” (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 10.1.2011). Nel corso della sua rassegna stampa (Radio Radicale, 10.1.2011), in un veloce inciso a commento, Massimo Bordin ha espresso un dubbio circa l’attribuzione della citazione: non lo diceva Leo Longanesi? Questione interessante, no?
E dunque cominciamo col dire che Google dà ragione a Bordin con prevalenza di voci, ma fra quelle che danno ragione a Ferrara ve n’è una assai autorevole: la Piccola antologia del pensiero breve (Liguori, 2008) di Franco Fontanini, un maestro del florilegio che, dalla gloriosa vetta dei suoi 85 anni, può menar vanto di essere stato amico di Longanesi: se ha attribuito l’aforisma a Missiroli (pag. 119), possono esserci più dubbi?
Per avere conferma ho telefonato a Fontanini, che però non ha potuto fornirmela. Anzi, appena ho posto la questione, ha cominciato a sollevare qualche dubbio sull’attribuzione a Missiroli: “In Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti” gli sembrava aforisma tipicamente longanesiano, più nella penna di un Flaiano, eventualmente, che in quella di un Missiroli. E allora com’era stato possibile che così avesse risolto nel riportare quella frase nella sua antologia? Gli appunti dai quali aveva tratto il materiale per il suo libro – mi ha spiegato – attribuivano la frase a Missiroli ma senza recare indicazione della fonte testuale originaria, a differenza della loro gran parte. Nessuna solida conferma e la faccenda rimaneva aperta.
A questo punto, però, mi è venuta una mezza idea e con la dovuta delicatezza gli ho chiesto se per caso gli appunti potessero aver attinto, almeno nei casi in cui non fosse riportato il riferimento testuale, a fonti spurie e non verificate come spesso accade per le citazioni riportate dalla stampa, dove di solito si cita l’autore, ma quasi mai il titolo dell’opera dalla quale è tratta la citazione. Non l’ha escluso, anzi, con disarmante sincerità ha detto fosse assai probabile. “D’altra parte – ha aggiunto – certi aforismi non hanno un padre certo, né un padre solo”. Non ho saputo dargli torto: non di rado prendono vita dal nulla e si mettono in cerca di un autore, così mi pare di aver detto.

Questione che rimane aperta, dunque? Sostanzialmente, sì. Ricapitolando, propendono per l’attribuzione a Longanesi: molte voci su Google (la più datata è relativa ad un numero di Mondoperaio del 1989); Bordin (che però non ha sollevato la questione quando Ferrara ha citato la stessa frase in un editoriale del 10.4.2006, attribuendola ancora a Missiroli); Pietrangelo Buttafuoco (che è fra gli ultimi ad aver citato l’aforisma, nella prefazione a un libro di Carlo Puca: consultato via sms, non ha mostrato indugio a ribadire la paternità di Longanesi); e, a sorpresa, il professor Fontanini. In tutti i casi non è specificata la fonte testuale.
L’attribuiscono a Missiroli, invece: 28 voci di Google (metà delle quali sono relative alle volte in cui la frase è stata attribuita a Missiroli dallo stesso Ferrara, due volte sul Corriere della Sera, nel 1993 e nel 1994, e altre quattro volte su Il Foglio, compresa quella odierna); Antonello Piroso (La7, 29.1.2007); Francesco Scrima, segretario nazionale della Cisl-scuola (Left, 5.9.2008); e due o tre anonimi. Anche qui, nessuno sa precisare donde sia tratta.
Per quanto mi riguarda, ho letto moltissimo di Missiroli, quasi tutto di Longanesi e tutto di Flaiano, anche se sono letture che risalgono a molti anni fa, ma non rammento di aver mai trovato traccia dell’aforisma in questione. C’è nessuno fra i lettori di questo blog che sappia fornire una fonte testuale certa?

L’importante è che si parli di Adinolfi


Dalla pagina di Mario Adinolfi su Facebook:

Sabato sera Blob ha rimandato in onda la scena, tratta da Agorà su Raitre, in cui il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, si augura platealmente che io venga picchiato. Tre ore dopo è stato accontentato.
Alessandro Sallusti non si è augurato che Mario Adinolfi fosse picchiato. Si è limitato a dire: “Il bamboccione Adinolfi dice: «Ma che c’è [di grave] a picchiare un finanziere?». Io vorrei che qualcuno picchiasse lui come hanno picchiato il finanziere e poi ci viene a raccontare se è bello oppure no”. Si tratta di un espediente retorico: mettiti nei panni di chi ha subito l’aggressione prima di minimizzare la gravità del fatto. Di plateale c’è solo la reazione di Adinolfi, che ben prima di far chiudere la frase a Sallusti va in escandescenze – difficile capire se in buona o cattiva fede – come se fosse stato fatto oggetto di una minaccia. Il tentativo di stabilire un nesso causale tra la puntata di Agorà, che è del 21 dicembre, e l’aggressione subita da Adinolfi, che è dell’8 gennaio, è strumentale e pretestuoso. Ancor più lo è il collegamento tra l’aggressione subita e la replica data da Blob tre ore prima, soprattutto se con una frase come “[Sallusti] è stato [prontamente] accontentato”, che mira a rafforzare l’indimostrato nesso causale con la suggestione di una significativa articolazione temporale degli eventi.
Alle 23.30 mi trovavo ad attraversare la strada all’intersezione tra via dei Colli Portuensi, circonvallazione Gianicolense e via Gasparri (sic).
Almeno in apparenza, l’ammicco su “Gasparri” è inerte, perfino un po’ scemo, d’altronde un po’ più avanti sarà detto: “Non credo sia stata un’aggressione «politica»”. Però, seppure in modo ironico, il “sic” insinua una fatale coincidenza in forma di presagio: “nomen omen”, il centrodestra è dentro.
Quattro motorini, particolarmente euforici perché il sabato sera bisogna esserlo, decidevano di giocare alla caccia al pedone. Li ho mandati sonoramente a quel paese, sembrava la solita idiozia che si vive sulle strade romane, invece gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola di circonvallazione Gianicolense all’altezza del civico 390. Li ho guardati in faccia. Tutti ragazzini, forse non c’era neanche un maggiorenne. Tutti in cerca di sballo…
È quanto basterebbe ad archiviare la disavventura come un banale alterco degenerato in zuffa, se non fosse che…
… qualcuno ha riconosciuto “er ciccione della tv”.
… qualcuno ha riconosciuto “er ciccione della tv”. E tanto basta ad aprire un supplemento di indagine per verificare se vi siano attinenze di specie con “gli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata”. Quasi a malincuore, Adinolfi dovrà escluderle, ma finirà per riconoscere “un clima simile” e la disavventura gli servirà a lanciare un monito: “Se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi”. Se liquidiamo l’accaduto come un banale alterco tra un pedone e dei ragazzini in motorino, siamo degli irresponsabili.
E proprio al grido di “ciccione” il più bassino, quello che evidentemente deve dimostrare qualcosa agli altri e vuole una medaglia di malinteso “coraggio” da appuntarsi sul petto, parte con un destro sul mio labbro e con un colpo di casco che s’abbatte sulla mia arcata sopraciliare sinistra. Tutto molto doloroso.
L’aggravante è patente perché l’aggredito è “ciccione”. Fosse stato smilzo, nemmeno l’avrebbero sfiorato. Se l’humus non è politico, è culturale. Almeno così dovremmo intendere.
Anche otto contro uno, per fortuna, ho una mole convincente: sono grosso e so difendermi. Uno degli otto richiama all’ordine il “Boccia”, quello che mi ha colpito, inconfondibile nella sua testa rasata e dà l’ordine di ritirata. Il Boccia dice al suo “complice” in sella al motorino di coprire con il casco la targa. Troppo tardi, l’ho mentalmente appuntata.
Quanto possa essere “inconfondibile” una testa rasata è assai opinabile, ma ormai è tardi: leggere il fatto come volgare lite per motivi di viabilità ci espone al rischio di sottovalutarne la cifra.
Tre persone hanno assistito all’aggressione. Un signore cinquantenne si avvicina per sincerarsi delle mie condizioni e per dire qualche parola di circostanza contro quei ragazzini balordi. Penso che poteva pure intervenire mentre mi colpivano, invece di fare solo lo spettatore, ma deve essere la mia rabbia del momento. È umano avere paura. La nottata continua tra caserme dei carabinieri e pronto soccorso. Mi vengono riscontrate ecchimosi, edema, ferite lacero-contuse. Niente di terribile. Ma il turbamento è profondo.
Finalmente fa capolino la paura. Assente nel grosso Adinolfi, che si limita al turbamento, è attribuita al signore cinquantenne che non è intervenuto. Potrebbe trattarsi di una proiezione, ma qui occorre andar cauti, sennò anche ad Adinolfi, come a Sallusti, potrebbe venir voglia di minacciarci: mettiti nei panni di chi ha subito l’aggressione prima di minimizzare la gravità del fatto. Come potremmo lamentarci, dopo?
Non credo sia stata un’aggressione “politica”. Chi mi ha colpito probabilmente neanche sa chi sia Sallusti, né io considero in alcun modo il direttore del Giornale mandante “morale” di questa aggressione.
E allora perché scrivere che “è stato accontentato”?
Certo che per la prima volta oggi sono andato a rivedermi il video che su YouTube riprende lo spezzone mandato in onda da Blob. E ho trovato, tra gli altri, questi commenti. [Seguono improperi, insulti, ecc.] Toni pazzeschi, di una violenza incredibile.
Sono asprezze che accompagnano Adinolfi da anni, non senza avergli dato modo di farsene vanto, come un sensibile indicatore di notorietà, se non di popolarità. Sarebbe ingiusto dirle meritate, ma spesso, e da più parti, si è sospettato fossero sapientemente provocate, e con gusto. Questo sarebbe pazzesco, il resto non avrebbe nulla di incredibile.
Tutto questo credo ci costringa una riflessione sul punto a cui è arrivata la conflittualità nel paese, la tensione tra noi, rompendo gli argini della civile convivenza. Non siamo agli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata. Ma siamo in un clima simile e se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi. È un impegno che prendo io per primo, con i segni in faccia di un’aggressione incomprensibile. O, forse, comprensibilissima.
Qui siamo al tirare i fili. Non siamo negli Stati Uniti, ma chissà. Un’aggressione incomprensibile, ma forse no. Sallusti non c’entra niente, ma è stato accontentato. Insomma, ad Adinolfi è capitato quello che poteva capitare a chiunque ma, essendo capitato a lui, deve avere un senso che gli possa tornare utile a far nostro il suo turbamento. Non è un comportamento limpido, ma che importa? L’importante è che si parli di Adinolfi. Nel mio piccolo mi auguro di averlo accontentato.


domenica 9 gennaio 2011

Un gran savoir-faire


Bisogna segnalare alcune incongruenze tra il discorso che Nicolas Sarkozy tenne a Roma, il 20 dicembre 2007, in presenza delle alte gerarchie ecclesiastiche che gli stavano per conferire il titolo di Canonico onorario della Basilica di San Giovanni in Laterano, e quello che ha tenuto al Palais de l’Elysée, qualche giorno fa, in presenza dei rappresentanti delle maggiori confessioni religiose in Francia (cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, ebrei e buddisti): deux conceptions très différent de la laïcité, parbleu!
Il candido sarà portato a credere che Monsieur le Président abbia cambiato idea e il cinico penserà che abbia un ghostwriter per ogni occasione, ma poco importa : se prima “la laïcité n’a pas le pouvoir de couper la France de ses racines chrétiennes”, adesso la République deve ai non cristiani e ai non credenti “le respect d’une neutralité absolue”; se prima era affermata “la tendance naturelle de tous les hommes à rechercher une transcendance”, adesso “le droit de ne pas croire” è naturale quanto “le droit de croire”; se prima “la morale laïque risque toujours de s’épuiser quand elle n’est pas adossée à une espérance qui comble l’aspiration à l’infini”, adesso “la République ne peut pas accepter qu’une religion investisse l’espace public sans son autorisation [et] ne laissera jamais aucune religion, quelle qu’elle soit, lui imposer sa loi”...
Se Sarkozy non ha cambiato idea, bisogna riconoscergli un gran savoir-faire.


Quel gran genio del mio amico




Pregiudizio



Se schifate Nichi Vendola per ragioni di natura squisitamente politica e volete argomentarle, dovrete sudare sette camicie per sorvegliare l’inconscia omofobia che pare sia la regola in ogni eterosessuale, perché basterà un solo cenno, anche apparentemente neutro, alla sua omosessualità e ogni argomento perderà forza: sarà liquidato come pregiudizio. Io dovrei sudarne quattordici per commentare un colonnino di Maria Romana De Gasperi senza che vengano in superficie i sedimenti del sarcasmo che mio nonno riservava a suo padre, quando da bimbetto, leccando un cono, lo ascoltavo chiacchierare al bar coi suoi amici (l’Alcide era già morto da una decina d’anni, ma mio nonno lo schifava come fosse ancora vivo).
Neanche ci provo. Risparmio quattordici camicie, riproduco il colonnino e mi limito a chiedere: ma se la Chiesa non avesse quei due grammi di senso di colpa verso il padre, la figlia meriterebbe di vedersi pubblicate cagate come queste?


Troppo presto per Fogazzaro



Si può parlare di Fogazzaro senza fare alcun cenno al suo tentativo di conciliare la teoria di Darwin alla dottrina cattolica, ma si può citare il libro che raccoglie le sue conferenze sul Divino Disegno nell’evoluzione delle specie (Ascensioni umane, 1899) senza fare alcun cenno al fatto che fu messo all’Indice? Giuseppe O. Longo lo ritiene corretto: “Consapevole dei gravi problemi che la nuova teoria, cui aderì senza riserve, poneva al magistero della Chiesa, si dedicò al tentativo di conciliarla con il cattolicesimo, esponendo le proprie idee con un linguaggio semplice ma nient’affatto semplicistico… Per il nostro, la continuità tra uomo e natura è garantita dalla costanza delle leggi che Dio ha posto in essere all’origine del creato… La sua intenzione era di combattere l’ignoranza degli evoluzionisti che decretavano la morte del cristianesimo…” (Avvenire, 8.1.2011). Tutto vero, ma perché tacere che la Chiesa non gradì affatto e stroncò con decisione? L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica gli mossero da subito pesanti attacchi e nel 1906 un decreto del Sant’Uffizio condannò il libro, pretendendo ed ottenendo dall’autore che non fosse ristampato o tradotto in altre lingue: Longo le ritiene notizie superflue. Scrive che “Fogazzaro considera la creazione dell’anima umana, dotata di libero arbitrio e di senso morale, un fatto evolutivo, dovuto all’aggiunta d’una quantità infinitesima alla spiritualità preesistente”, e la riconosce come “mirabile intuizione di quanto oggi la scienza ha scoperto, cioè che la quantità può trasformarsi in qualità”, ma evidentemente non ritiene necessario informare il suo lettore che fu proprio questo ad essergli rimproverato come erroneo perché in contraddizione con la dottrina.
In sintesi, Fogazzaro cercava di rendere digeribile Darwin ai cattolici con l’espediente che con candido cinismo, a cento anni esatti dalla condanna di Fogazzaro, sarebbe stato ripescato dal cardinale Christoph Schoenborn al Ratzinger Schülekreis di Castelgandolfo del 2006: si può considerare l’uomo che discende dalla scimmia come scimmia che ascende all’uomo. Né Fogazzaro, né Schoenborn, né chiunque altro ritenga che sia possibile conciliare creazione ed evoluzione potrà mai spiegarci come sia possibile, nell’ascendere da bestia pelosa a creatura fatta a immagine di Dio, che l’anima subentri in corso d’opera: il primo uomo dovrebbe essere nato tale, e dunque con un’anima, da due genitori non ancora pienamente umani, e dunque senza. Per ciò che la dottrina afferma circa l’animazione sorgono problemi enormi, solubili con argomenti troppo complicati per essere ruminati dal gregge senza mal di pancia. Troppo presto per riabilitare tutto Fogazzaro, ci vorranno altri cento anni.



sabato 8 gennaio 2011

“La domanda non è retorica”


“Perché tanta intolleranza?”. Il cardinale Angelo Bagnasco mette le mani avanti e dice che “la domanda non è retorica”, ma “nasce dal sangue di tanti cristiani, dalle loro sofferenze”. Escluso il fatto che siano ripagati con la stessa intolleranza che, a torto o a ragione, si rimprovera loro (Sua Eminenza esclude che possa esserlo a ragione e lamenta l’ingiustizia del ritenerlo a torto, in entrambi i casi aprendo il brevario e chiudendo quello di storia), perché? “Forse i cristiani sono discriminati e perseguitati perché parlano di dignità e di uguaglianza di ogni persona, uomo o donna che sia? Di libertà di coscienza? Perché predicano l’amore anche verso coloro che si pongono come nemici? Perché parlano di perdono,  rifiutano la violenza e operano come costruttori di pace? Perché predicano la giustizia e lo Stato di diritto? Forse è per questo che qualcuno li giudica pericolosi e inaccettabili, oggetto di intolleranza, meritevoli di persecuzione e di morte?”. E meno male che non voleva porre domande retoriche, sennò chissà come avrebbe posto il problema.


Fallacy


“Il riferimento all’autorità è esposto all’accusa di sofisma quando, nel corso di una discussione su un oggetto tanto comprensibile agli interlocutori che ogni argomento pertinente sarebbe loro perfettamente accessibile, in luogo appunto degli argomenti pertinenti che potrebbero essere addotti da una parte, o in opposizione ad argomenti non pertinenti addotti dall’altra, si ricorre all’autorità”, che qui direi possa essere intesa in modo estensivo, così nei “casi in cui l’appello all’autorità costituisce sofisma” (che è il titolo del paragrafo dal quale ho tratto il precedente virgolettato) possiamo mettere tutto quanto nella Tradizione è cogente come tautologico e autoreferenziale, che per Jeremy Bentham (The Book of Fallacies) dà massima espressione di violenza quando l’autorità “ha un interesse opposto a quello della collettività”. È dunque impossibile la piena fedeltà alla Tradizione senza ricorso al sofisma: per renderla del tutto inemendabile è indispensabile l’appello non pertinente all’autorità, almeno saltuariamente.
Così, “colui che, su una questione relativa all’opportunità, per il tempo avvenire, di una legge o prassi consacrata si appella come argomento decisivo all’autorità, presuppone l’una o l’altra di due cose: che il principio dell’utilità non debba valere per il periodo in questione come criterio atto a giudicare nel merito della cosa; oppure che la prassi di tempi diversi e più antichi debbano essere considerate in ogni caso come prova conclusiva della natura e tendenza della prassi attuale, una prova conclusiva che renderebbe superfluo e fuori luogo ogni ricorso alla ragione o all’esperienza presente”. Sicché non è difficile comprendere perché l’utilità – Bentham la definisce “massima felicità per il maggior numero di individui” – debba trovarsi così spesso sottomessa alla cogenza della morale tradizionale, in forza del sofisma che vuole la morale antecedente e superiore all’uomo, una e inemendabile per definizione. [Poco oltre lo chiamerà “sofisma delle leggi irrevocabili”.]
“In ogni settore delle scienze fisiche applicate – scrive – nessuno è tanto sfrontato o tanto pazzo da affermare o anche soltanto insinuare che la cosa più auspicabile, la condotta più ragionevole e preferibile, sia di sostituire alla decisione fondata sull’evidenza diretta e specifica la decisione fondata sull’autorità [perché] la follia di una tale scelta è dimostrabile […] Nel settore delle scienze morali, ivi inclusa la religione, la follia di voler raggiungere un’opinione corretta con un’analoga ricetta sarebbe altrettanto universalmente riconosciuta, se tanto ostinatamente non si opponessero la ricchezza, l’agio, la dignità che sono connessi a quell’opinione e da essa confortati”.
In altri termini, non è data morale tradizionale senza una élite che faccia uso efficace del “sofisma delle leggi irrevocabili” per far coincidere il fine col mezzo nel “rafforzare abusi o istituzioni che sono di detrimento alla maggioranza degli individui”. Non è data cogenza del tautologico e dell’autoreferenziale fuori dall’interesse ultimo di una oligarchia che sappia far coincidere nell’abuso il fine e il mezzo di un’istituzione.


venerdì 7 gennaio 2011

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La doppia ingiustizia


A prima vista sembra indignazione che si levi da argomenti forti, prima di tutto, però, chiariamo: la lettrice scrive al direttore di Avvenire nella “sper[anza] che [egli] possa fare qualcosa” e il direttore le risponde che “qualcosa l’h[a] fatta già da tempo” – non guarda più il Grande Fratello (chissà da quale edizione in poi) – ma si rende ben conto che boicottare non basta, “non è sempre sufficiente”. Per evitare che all’indignazione subentri la frustrazione, e alla frustrazione un moto di rivalsa, gli autori del programma dovrebbero rivedere la decisione che hanno preso ed espellere il blasfemo, sarebbe il minimo.
Cambiare canale non basta. Non basta nemmeno l’implicito invito a boicottare il reality. Né basta l’implicita pressione sui responsabili del programma e/o sul direttore della rete e/o sulla proprietà dell’emittente: Marco Tarquinio (o chi per lui) troverebbe pace solo ottenendo ciò che chiede e cioè la punizione del blasfemo.
Bisogna tener conto del fatto che gli autori del programma hanno commutato l’espulsione in una pena più mite e il blasfemo è stato “nominato” d’ufficio, sicché il direttore di Avvenire potrebbe chiedere ai suoi lettori di dar voce all’indignazione col televoto, ma non lo fa, neanche vi accenna. Non viene neppure sfiorata l’ipotesi di appellarsi all’art. 406 del Codice Penale per offesa al sentimento religioso (pena fino a un anno di reclusione) o al can. 1369 del Codice di Diritto Canonico per pubblica bestemmia (pena fino alla scomunica), evidentemente neanche queste sanzioni basterebbero.
Chiarito questo, ci sarebbe da affrontare l’argomento delle decine di milioni di cristiani che vengono perseguitati a causa della loro fede perché ingiustamente considerati blasfemi, mentre a un blasfemo vero, qui da noi, in Italia, culla del cristianesimo e cuore della cattolicità, non è torto neanche un capello. Par di capire che l’ingiustizia sia doppia e che la dirigenza di Mediaset potrebbe almeno dimezzarla.