domenica 20 marzo 2011

Fra “le attrezzature e materiali necessari alle aule delle scuole”, fin dal 1928


Un po’ di storia Con la legge n. 4671 del 17 marzo 1861, non solo non si ha ancora “Unità d’Italia” – manca ancora Roma, che non sarà italiana prima del 1870 – ma neanche si ha costituzione ex novo di un entità politica statuale, perché – semplicemente – il Regno di Piemonte e Sardegna cambia nome e, in ragione dell’avvenuta annessione di gran parte dei territori della penisola, diventa Regno d’Italia. Le leggi del Regno di Piemonte e Sardegna diventano leggi del Regno d’Italia e fra queste v’è il regio decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 che all’art. 140 dispone l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, in forza dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, nel quale la religione cattolica apostolica e romana è dichiarata “sola religione di Stato”.
Con la presa di Roma, il 20 settembre 1870, le relazioni tra Stato e Chiesa diventano pessime. “La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario – ha detto Benedetto XVI qualche giorno fa – ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione Romana, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale Conciliazione, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale”. Questo non è del tutto vero, perché l’ostilità del clero verso un’Italia finalmente unita si espresse non di rado in forme prossime all’istigazione dei cattolici alla disobbedienza civile, ed ebbe in risposta reazioni anche vivaci da quegli ambienti della neonata società italiana che esprimevano la crescente esigenza di uno Stato laico e aconfessionale, e che avrebbero dovuto aspettare ancora un secolo per vedere abolito il principio di “religione di Stato”. Contro lo Statuto Albertino, contro il decreto regio del 1860, molti crocifissi furono rimossi dalle aule scolastiche.
“L’aspettativa di una formale Conciliazione” – come la chiama Benedetto XVI – fu soddisfatta dall’“uomo della Provvidenza”, il cavalier Benito Mussolini, e neanche un mese dopo la Marcia su Roma il Ministero della Pubblica Istruzione emette la circolare n. 68 del 22 novembre il 1922, che recita: “In questi ultimi anni, in molte scuole primarie del Regno l’immagine di Cristo ed il ritratto del Re sono stati tolti. Ciò costituisce una violazione manifesta e non tollerabile e soprattutto un danno alla religione dominante dello Stato così come all’unità della nazione. Intimiamo allora a tutte le amministrazioni comunali del Regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due simboli sacri della fede e del sentimento nazionale”. Seguirà il regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924, che all’art. 118 dispone: “Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del re”; e ancora un’altra circolare del Ministero della Pubblica Istruzione: “Il simbolo della nostra religione, sacro per la fede quanto per il sentimento nazionale, esorta e ispira la gioventù studiosa che nelle università e negli altri istituti superiori affina il suo spirito e la sua intelligenza in previsione delle alte cariche alle quali è destinata” (n. 2134 del 26 maggio 1926); e ancora un regio decreto, il n. 1297 del 26 aprile 1928, che mette il crocifisso fra “le attrezzature e materiali necessari alle aule delle scuole”. Coi Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, “l’Italia riconosce e ribadisce il principio stabilito dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, secondo il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione di Stato”.
Si dovrà attendere il nuovo Concordato del 18 febbraio 1984 per vedere abolito il concetto di “religione di Stato” e il 20 novembre 2000 per una sentenza della Corte Costituzionale (n. 508) perché i principi di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (Costituzione, art. 3) e di eguale libertà di tutte le religioni dinanzi alla legge (Costituzione, art. 8) stabilisca che “l’atteggiamento dello Stato deve essere segnato da equidistanza e imparzialità, indipendentemente dal numero di membri di una religione o di un’altra, né dall’ampiezza delle reazioni sociali alla violazione di diritti dell’una o dell’altra”.

All’oggi “L’Italia è stata assolta dalla colpa di ledere i diritti umani per la presenza di un crocifisso su una parete, colpevole – per alcuni – di indottrinare con la sua presenza. Era necessaria l’assoluzione della Corte europea. Amen” (Avvenire, 20.3.2011). Prima di commentare l’“assoluzione” c’è da dire che non più di due anni fa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo era fra gli “alcuni”: “Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una società democratica come la concepisce la Convenzione [Europea dei Diritti dell’Uomo], e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale. La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione. Perciò la Corte stabilisce che in questo caso c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 e dell’articolo 9 della Convenzione”.
Ciò detto, vediamo in base a quali elementi, oggi, riunita in Grande Camera, la Corte si ricrede e assolve l’Italia: “Dalla giurisprudenza della Corte emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle funzioni che gli Stati si assumono in materia di educazione e d’insegnamento. Ciò comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche. Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo Stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1”.
In pratica: nel nostro “diritto interno” sono ancora vigenti le norme relative all’“allestimento degli ambienti scolastici” così come dettate dal regio decreto del 1924 e da quello del 1928. E dunque, sì, come afferma la Convenzione, “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”, ma – appunto – “nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento” che assume sulla base del suo “diritto interno”, che definisce il crocifisso elemento indispensabile dell’arredo scolastico.

Problemini Questa sentenza può essere considerata una vittoria per un cattolico? Di fatto, essa si limita a sancire il primato del “diritto interno” italiano sull’arredo scolastico. Viene ribadito, infatti, che “il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso”, ma si accoglie quanto era nel ricorso del Governo italiano, che sosteneva che “la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rispecchia ancora oggi un’importante tradizione da perpetuare; aggiungeva poi che, oltre ad avere un significato religioso, il crocifisso simboleggia i principi e i valori che fondano la democrazia e la civilizzazione occidentale, e ciò ne giustificherebbe la presenza nelle aule scolastiche”. Bene, “la Corte sottolinea che, se da una parte la decisione di perpetuare o meno una tradizione dipende dal margine di discrezionalità degli Stati convenuti, l’evocare tale tradizione non li esonera tuttavia dall’obbligo di rispettare i diritti e le libertà consacrati dalla Convenzione e dai suoi Protocolli” e, visto che “il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione hanno delle posizioni divergenti sul significato del crocifisso e che la Corte Costituzionale non si è pronunciata sulla questione, la Corte considera che non è suo compito prendere posizione in un dibattito tra giurisdizioni interne”.
“Amen”, commenta Avvenire, ma non s’avvede che manca un pronunciamento della Corte Costituzionale. Sarà quando sarà, ma potrà cambiare tutto. Da parte sua, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non ha smentito quanto è affermato nella sentenza del 3 novembre 2009, ma si limita a prendere atto che in Italia, per le questioni relative all’arredo di luoghi pubblici, residua un pezzo dello Statuto Albertino, cristallizzato nella legislazione fascista e poi fatta norma non scritta nella pratica democristiana del «quieta non movere» seppur in contraddizione col dettato costituzionale. L’Europa ha dichiarato che in Italia il crocifisso è da considerare suppellettile di ambiguo significato, “la Corte constata che, nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico”, ma Avvenire esulta. Non capisce. Più verosimilmente, non vuol capire.

Morra cinese



Con pena, schifo e rabbia si può giocare a morra cinese (come con carta, sasso e forbici: la pena vince sullo schifo, che vince sulla rabbia, che però vince sulla pena) e mi pare non ci resti altro passatempo in attesa che questo governo imploda.
Prendete il ministro dell’Ambiente: “Non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare, non facciamo cazzate. Bisogna uscirne, ma in modo soft. Ora non dobbiamo fare niente, si decide tutto tra un mese”. Carta, sasso o forbici? Io dico sasso, e perdo solo con chi dice carta.


venerdì 18 marzo 2011

Elamadonna!!!



“Tutto iniziò nel 1987 in Brasile, quando Maria iniziò a rivelare ad un giovane di nome Diego Régis una serie di messaggi inquietanti riguardanti il mondo, tra cui anche il Giappone. Ecco l’impressionante sequenza:
28 aprile 2005: Cari figli, la terra è piena di malvagità e i miei poveri figli camminano come ciechi spiritualmente. Gli uomini hanno sfidato il Creatore e per questo saranno puniti severamente. Il Signore pulirà la terra e i suoi fedeli vivranno felici. L’umanità sperimenterà grandi sofferenze. Il Giappone soffrirà per un grande sisma di dimensioni mai viste in tutta la sua storia.
2 agosto 2005: Il Giappone vivrà momenti di angoscia, ma il peggio dovrà ancora venire.
31 dicembre 2005: Il Giappone berrà il calice amaro della sofferenza.
4 marzo 2006: Il Giappone berrà il calice amaro del dolore.
5 febbraio 2010: Accadrà in Giappone e si ripeterà nel Paraíba. Ovunque si udranno grida di disperazione.
20 marzo 2010: Un grande sisma scuoterà il Giappone e i miei poveri figli piangeranno e si lamenteranno.
17 aprile 2010: Una grande distruzione si verificherà in Giappone. Pregate. Pregate. Pregate.
29 maggio 2010: Il Giappone soffrirà e il dolore sarà grande per i miei poveri figli.
28 ottobre 2010: La morte passerà per il Giappone lasciando una grande scia di distruzione.
Puntualmente, l’11 marzo 2011, le premonizioni si sono avverate”

Corale per coltelli



 




Il nipote di Mubarak


“I’m very suspicious about what is going on in the Arab world, especially in Egypt. Hosni Mubarak was not an ideal leader, and he was immersed in corruption, but he was also the last obstacle to the Islamist tsunami. Mubarak put Egypt in the Western orbit” *.


Intermezzo




Lesto come la mosca sullo stronzo


Ho già commentato le tante puttanate scritte da Benedetto XVI nel Messaggio al Presidente della Repubblica in occasione dei 150 anni dell’Unità politica italiana, e ho iniziato col dire che la prima era già nel titolo. Nel 1861, infatti, all’Italia mancava ancora Roma per dirsi unita: l’Unità d’Italia si avrà solo 9 anni dopo, quando i bersaglieri sfonderanno Porta Pia, beccandosi la scomunica che fin lì era toccata a chiunque si era azzardato a pensare Roma senza Papa-Re. Scomunica che non sarà mai revocata, neanche dai pontefici che, facendo di necessità virtù, col tempo smisero di considerarsi prigionieri dello Stato e pian pianino, dietro favore dopo favore, dietro privilegio dopo privilegio, cominciarono a capire che perdere il potere temporale era stato conveniente.
Sotto le mistificazioni che in questi ultimi anni hanno portato le gerarchie ecclesiastiche ad avanzare la pretesa di un merito nel processo unitario, a fianco di Cavour, Mazzini e Garibaldi, i fatti sono ancora lì, intatti, e ci vuole una straordinaria faccia di culo, come dicevo commentando il Messaggio di Sua Santità, per affermare che “l’identità nazionale degli italiani costituì la base più solida della conquistata unità politica” perché “fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche”, ma neanche tanto. L’opportunità di stanare il Papa-Re dal Palazzo Apostolico, nel quale s’era rintanato dichiarandosi prigioniero, non venne presa in debita considerazione (dargli un calcio in culo o mettergli una corda al collo ci avrebbero promosso a paese normale) e, com’è tristemente noto, prevalse l’infausta idea di lasciarlo lì, per evitare la guerra civile che avrebbe scatenato, ma sottovalutando gli oneri che ne sarebbero derivati.
Fra questi fu messo quello della rimozione del 20 settembre 1870 dalla memoria degli italiani, perché riconoscerla come data della vera Unità d’Italia sarebbe stato scortese verso il Papa. Si sottovalutava la straordinaria faccia di culo che lo Spirito Santo gli conferisce al momento dell’elezione, perché nel 140° anniversario di Porta Pia, sei mesi fa, abbiamo visto il suo Segretario di Stato in prima fila, a garantirci una “ritrovata concordia tra comunità civile ed ecclesiale”. Qualcuno, per un attimo, ha pensato che stesse per chiedere allo Stato una pensione per gli eredi degli zuavi papalini, e invece si è limitato a concedere che Roma è “indiscussa capitale d’Italia”, apparentemente a gratis.

Divagavo, come al solito. Volevo dire che, dopo aver commentato le puttanate di Benedetto XVI, ci tocca dare un’occhiata pure a quelle del cardinale Angelo Bagnasco, che ieri ha tenuto un’omelia ad hoc, nel corso della quale ha detto che “la Patria, nello stesso linguaggio comune, esprime una paternità, così come la Madrepatria esprime una maternità: il popolo che nasce da ideali alti e comuni, che vive secondo valori nobili di giustizia e solidarietà, che sviluppa uno stile di relazioni virtuose, respira un anima spirituale capace di toccare le menti e i cuori, è un popolo vivo, prende volto, assapora e si riconosce uno, diventa Nazione e Patria, offre sostanza allo Stato”. Superfluo aggiungere che l’Italia può vantare tutto ciò solo grazie al cristianesimo, anzi, grazie al cattolicesimo, sicché viene quasi il sospetto che non ci sia possibilità di Patria, forse neanche Nazione, senza la vidima della relativa conferenza episcopale.
Bastasse, volesse il cielo che bastasse, ma non basta. Perché a commento delle puttanate di Sua Eminenza, lesto come la mosca sullo stronzo, arriva l’editoriale di Francesco D’Agostino: “Non c’è dubbio che il Risorgimento abbia avuto diverse anime e non tutte coerenti tra loro. Una delle idee guida dei patrioti risorgimentali (e sicuramente la più caduca) consisteva nell’appassionato desiderio di dare vita, costruendo uno Stato unitario, a una nuova Italia capace di entrare nel concerto europeo come una grande potenza, non inferiore, né idealmente né materialmente, a nessun’altra. Un desiderio nobile, ma pericoloso, perché tale da stravolgere quello che c’è di veramente buono nel patriottismo, deformandolo nel nazionalismo” (Avvenire, 18.3.2011). E qui è fatto evidente che, a impiccare Pio IX o a esiliarlo in Oceania, il nostro patriottismo sarebbe senza dubbio degenerato in nazionalismo, forse truce, quasi certamente guerrafondaio. Parola di Bagnasco, che fino a pochi anni fa era a capo dei cappellani militari, però commentata da D’Agostino.


“Der Jüngling ruft ihn an, verspricht ihm die hohe Summe”


Il 10 marzo mi sono intrattenuto sulla vicenda che ha preso le mosse da una lettera di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, pubblicata due giorni prima sul Corriere del Mezzogiorno. La signora accusava Roberto Saviano di aver attribuito al padre del filosofo, con intento strumentale (“mistificazione della storia e della memoria”), una frase che questi avrebbe rivolto al figlio quando entrambi erano sotto le macerie del terremoto di Casamicciola, nel 1883: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Per reperire la fonte dalla quale lo scrittore aveva attinto (Ugo Pirro - Oggi, 13.4.1950) bastava consultare Google, e qualche giorno dopo se ne aveva conferma dallo stesso, ospite di Enrico Mentana al Tg7.
Polemica chiusa? Macché. Le critiche a Saviano non accennano a sopirsi. Possiamo riassumerle in ciò che scrive Giancristiano Desiderio, oggi, sempre sul Corriere del Mezzogiorno: “Saviano dimentica di dire alcune cose fondamentali: che la storia delle centomila lire non esce dalla bocca di Croce e neanche dalla bocca di Pirro. Dimentica di dire che l’intervista di Pirro fa riferimento a un cronista anonimo del 1883”.
Non troppo anonimo, in verità, perché Saviano lo identifica in Carlo Del Balzo, che infatti attribuisce quella frase al padre di Croce nel suo Cronaca del tremuoto di Casamicciola (1883). A Desiderio non basta: “Chi disse a Carlo Del Balzo, uomo politico e romanziere, che il povero Pasquale Croce disse al figlio l’idea delle centomila lire? Non lo sappiamo perché Del Balzo non lo dice. Ma è certo che non lo dice Croce dal momento che Del Balzo non afferma neanche che fu il primogenito del signor Croce a riportagli le parole del padre. Ciò nonostante, Saviano crede a Del Balzo e non a Croce. E forse nei prossimi giorni rivelerà un’altra fonte. Magari può citare Casamicciola di Dantone, sempre del 1883, ma non vi troverà nulla di buono per suffragare il suo racconto”.
Bene, qui Desiderio è in errore perché il brano citato da Pirro è tratto proprio dal volume di Ernesto Dantone, dove a pag. 143 si legge la frase: “Offri centomila lire a chi ti salva”. Questo potrebbe significare poco, se non fosse che il brano che contiene quella frase, prima di passare in Pirro (1950) e in Saviano (2010, 2011), è riportato in un giornale ad ampia diffusione come il Corriere del Mattino, il 31 luglio 1883, che indica la fonte nello stesso Croce, intervistato quando è ancora ricoverato in un ospedale napoletano. Anche qui, come nel 1950, nessuna smentita da parte dell’interessato.
Nessuna smentita nemmeno a quanto scriverà, un mese dopo, Woldemar Kaden: “Er soll dem Ersten besten hunderttausend, zweihunderttausend Francs bieten, wenn er sie rettet, nur nicht sterben, den Erstickungstod sterben. Es vergehen wieder Stunden, der Tag muss bald grauen, da kommt Jemand im hastigen Lauf heran. Der Jüngling ruft ihn an, verspricht ihm die hohe Summe” (Die Insel Ischia in Natur-, Sitten- und Geschichts-Bildern aus Vergangenheit und Gegenwart).


giovedì 17 marzo 2011

Il principio


Fermamente convinto, e da sempre, che sia ingiusto condizionare l’esito di un referendum al raggiungimento del quorum, Marco Beltrandi ritiene che l’ingiustizia debba essere rimossa, non aggirata. Per principio, dunque è contrario ad ogni accorpamento di un voto politico o amministrativo con un voto referendario, espediente che può servire a raggiungere il quorum, certo, ma rinunciando a metterlo in discussione, facendo così propria la logica di chi lo ritiene necessario per scoraggiare la pratica referendaria.
Un parlamentare non ha vincoli di mandato, perché dovrebbe esprimere un voto contro i suoi principi? E infatti Marco Beltrandi non l’ha fatto, e ha detto no all’election day che era proposto dal partito nelle cui liste è stato eletto, e il suo no è stato decisivo per far saltare l’accorpamento tra le elezioni amministrative e i referendum su acqua, nucleare, ecc.

Di cosa lo si può accusare? Oltre che legittimo, il suo comportamento è chiaro, onesto e responsabile. Perciò non si capisce che senso abbia quanto afferma a margine della vicenda: dice che non sapeva che il suo voto fosse decisivo, sennò non avrebbe votato contro, ma si sarebbe astenuto. Rinunciando a riaffermare il principio?

  

Ritratto di signora





Qui Radio Londra, 16.3.2011



“Guardate queste foto… È Berlusconi con delle ragazze in braccio… Si diverte nella sua casa al mare… Bene, queste foto non sono rubate... Sono state scattate da fotografi autorizzati e poi date ai grandi giornali popolari… Berlusconi è fatto così…” (Qui Radio Londra, 16.3.2011 – 3:33-4:02). Orbene, questo è palesemente falso, perché si tratta degli scatti di Antonello Zappadu che furono pubblicati da Oggi nell’aprile del 2007, facendo incazzare Berlusconi come una bestia: “Fotografie procurate in dispregio di ogni diritto della privacy… Stavolta sono deciso ad andare fino in fondo all’azione legale…”. E infatti il fotografo fu denunciato, e due anni dopo venne assolto. È catena di eventi che la didascalia di Ferrara non rende fedelmente.


È qui la festa?


Cavour era un grandissimo scopatore”, ma “circolava voce che Mazzini fosse impotente (Bruno Vespa - Panorama, 5.11.2010).


mercoledì 16 marzo 2011

[...]



“Sono favorevole alla costruzione di una sola centrale nucleare, di prima generazione e copertura in Eternit. Queste le coordinate del sito: 41 54 N, 12 27 E”




[*] Ma è attribuzione controversa, con precedenza cronologica per Librescamente.



Con una straordinaria faccia di culo


Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia cadrà il 20 settembre 2020, perché l’Italia si potrà dire unita solo dopo la breccia di Porta Pia. Il 17 marzo 1861 ci fu la proclamazione del Regno d’Italia, che a stretto rigor di logica si è potuta festeggiare solo fino al 1946, quando un referendum popolare sostituì il Regno con la Repubblica. Domani si festeggia il 150° anniversario di un grande passo verso l’Unità d’Italia, certo, che però sarà realizzata solo con l’annessione di Roma. L’Italia potrà dirsi unita solo quando Roma sarà strappata al Papa, e forse potrebbe dirsi ancora più unita di quello che è, perché non lo è del tutto, se gli fosse stata strappata interamente.
Ben vengano i festeggiamenti, dunque, ma avendo ben chiaro che dal 1861 al 1870 all’Italia mancava ancora un pezzo per dirsi veramente unita, e forse quello più importante, per il suo valore simbolico e per il fatto che restava ancora in mano al più strenuo oppositore dell’Unità d’Italia.
L’errore più grosso compiuto dai nostri padri fondatori fu quello di non sfrattare Pio IX dal Palazzo Apostolico, di lasciare che Roma fosse una doppia capitale, di consentire ai cattolici una doppia cittadinanza e una deroga permanente al dovere di essere leali verso lo Stato, per una superiore lealtà, tutta obbedienza, al capo di una confessione religiosa che a pieno titolo, col Concordato del 1929, sarebbe diventato un capo di Stato estero. Se le cose andarono più o meno bene fino a quando il Papa vietò loro di partecipare alla vita politica, tutto precipitò quando capì che poteva usarli per parassitare i gangli vitali della società e questo fu l’inizio della fine, cioè la fine di una compiuta laicità dello Stato.
In breve, la rete diocesana finì per sovrapporsi alle articolazioni dello Stato, duplicandone le funzioni e, quando possibile, vicariandole, addirittura sostituendole, mentre tenuti a scendere in politica con già come comuni cittadini, ma come cattolici, i più fidati uomini del Papa se ne facevano strumento, forti del consenso di masse superstiziose e ignoranti.
Sarebbe venuto il momento di poter perfino stravolgere la verità storica, ed ecco che ci siamo.

Con una straordinaria faccia di culo, in un messaggio indirizzato al Presidente della Repubblica, Benedetto XVI si concede il lusso di riscrivere la storia, certo che nessuno leverà voce per dargli del bugiardo: “Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento – scrive – costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale”.
Conta niente il fatto che fin dal Medioevo fu proprio il Papato ad essere il più acerrimo nemico dell’unità nazionale? Oggi, no. Oggi, Pio IX va a braccetto con Garibaldi e Benedetto XVI si sente autorizzato a dire che “anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé”. Sarà stato per saggiare la forza di questa identità che i pontefici non hanno mai esitato a chiedere aiuto a potenze straniere, sempre cattolicissime, per soffocare ogni tentativo di unificazione e lasciare frammentata la penisola?
“Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse – aggiunge Sua Santità – il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al cattolicesimo, talora anche alla religione in generale”. Patente reticenza, perché in realtà queste ragioni non sono affatto complesse: nella Chiesa il Risorgimento combatteva l’ostacolo più grosso all’Unità d’Italia. Con una straordinaria faccia di culo, invece, Benedetto XVI glissa e dice: “Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse [troppa grazia, Santità, troppa grazia!] non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”. Dimentica di aggiungere che questi cattolici furono quasi tutti scomunicati e le loro opere messe all’Indice.
E aggiunge: “La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico”, ma dimentica di dire che per questo furono trattati come miscredenti. “Questo processo – dice – ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di Questione Romana, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale Conciliazione, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto”.
E allora che senso si può dare al non expedit di Pio IX? “Anche negli anni della dilacerazione – dice Benedetto XVI – i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese”. Certo, ma beccandosi le maledizioni di un Papa al quale faceva comodo dichiararsi prigioniero agli arresti domiciliari.
Tali e tante bugie che il messaggio gli andrebbe rispedito indietro come irricevibile. In un punto è perfino offensivo: “La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa”, e anche qui la complessità sta per l’ostinazione a non volersi rassegnare alla perdita del potere temporale, ma figuriamoci se si può toccare il nervo scoperto. Lenire, lenire: “La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema”, aggiunge, ma stavolta neanche un cenno all’Uomo della Provvidenza che la favorì.

Conclusioni: “Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla Questione Romana, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata”.
Qui, con una straordinaria faccia di culo, è apposta una benedizione.


Il registro


Il cattodandy ama essere stuzzicato da argomenti sottili, da una logica ardita che sappia fare slalom tra ironia e paradosso, e va pazzo per quell’argomentare a lingua di Menelicche che, insieme al resto, trova su Il Foglio. Un’altra cosa è il tizio che, aspettando il commissario Moltalbano, lascia scorrere Minzolini e Ferrara, digerendo i suoi bravi quattro salti in padella. Qui non è opportuno prodursi in invettive contro le ragazzine che portano i jeans a vita bassa, come per curiosissima coincidenza accadde giusto un anno fa, il 15 marzo 2010, su Il Foglio. Qui è meglio invitare alla tolleranza e prendere le difese della povera Ruby, che è stata contestata al suo show di Maglie e, passatemi l’iperbole farfallina, è stata lapidata. Ci vuol poco a convincere lo spettatore che portasse un jeans a vita alta.


martedì 15 marzo 2011

La tragedia di un uomo ridicolo



Fare due ore di anticamera per essere ricevuti da Sua Eminenza che ti ha mandato a chiamare per farti una lavata di testa, passi. Sei un politico italiano, l’Italia è quella merda di paese che rappresenti al meglio, tutto è nell’ordine delle cose: corri, aspetta, prenditi il cazziatone di Sua Eminenza e torna alle tue abituali occupazioni. Ma essere trattato a pesci in faccia da uno dei suoi lacchè, che dopo averti fatto tanto attendere ti annuncia che c’è stato un contrattempo, non puoi essere ricevuto, ma sei avvisato, riga dritto, sennò sarai appeso per le palle al campanone, be’, dovresti andare a casa, farti sputare in faccia dai tuoi figli e appenderti da solo ad una trave. Per il collo, non per le palle: a cercarle non è detto che le trovi.
Povero Sandrino, ultimamente non gliene va bene una. Qui, per esempio, s’era permesso solo di avanzare “una riflessione onesta e costruttiva”, niente di che, peraltro non voleva dare il cattivo esempio, tanto meno aveva intenzione di sgarrare. Eccolo qui, è pronto a spiegare, aspetta solo che la porta s’apra… E la porta s’apre, dallo studio di Sua Eminenza esce un tizio, un po’ meno che portavoce e un po’ più che sagrestano. Non dubitiamo affatto – dice – che ci fosse cattiva intenzione, ci mancherebbe altro, ma le auguriamo che non capiti mai più, per il suo bene. Bisogna rialzare l’argine, vada. E il povero Sandrino va.


O vogliamo parlare di “rientro” demografico?


Tra 40 anni – forse anche meno – si spenderà più energia per estrarre greggio di quanta se ne potrà ricavare, e in pratica si potrà dire: “È finito il petrolio”. Potrebbero volercene altri 120 – secondo alcuni, ce ne vorranno dai 150 ai 200 – ma lo stesso discorso varrà pure per il combustibile nucleare.
Fonti energetiche alternative non mancano, ma anche chi pensa che il solo futuro possibile sia nel loro impiego ammette che non basterebbero a colmare il fabbisogno mondiale, non con questo indice di crescita della popolazione (tra meno di 50 anni saremo più di 10 miliardi), non con gli odierni standard di consumo pro-capite: non è un caso, infatti, che quasi tutti i paladini di sole, vento & biomasse abbiano un’idea di mondo diversa da quello che è, e ne vorrebbero uno meno affollato e dai più parchi bisogni.
Ma siamo in grado di pianificare un “rientro” demografico? Macché, neanche lo vogliamo. Riteniamo che il solo pensarlo sia un crimine contro Dio, perché il mondo è pieno di gente che ci crede, o contro la natura, che neanche sappiamo bene cosa sia, ma è certo che sia pure terremoti, maremoti, carestie, epidemie, ecc.
Non se ne parla: dobbiamo calcolare che saremo più di 10 miliardi tra meno di 50 anni, quando il petrolio sarà finito da almeno 10. Per allora sarà difficile convincere gli umani a più parchi bisogni, ma in qualche modo si dovrà farlo, non fosse altro che per l’aumento del costo dell’energia a fronte di un aumento della domanda. Potrebbe essere necessario l’uso della violenza fisica o almeno di quella psicologica, giocoforza.

Non è la soluzione definitiva, ma cos’altro ci consente di allontanare il più possibile uno scenario del genere? L’energia nucleare. Non è la soluzione definitiva e non è neanche una soluzione facile. Meno che mai adesso, con le notizie che arrivano da Fukushima. Ma non c’è altra via. O vogliamo parlare di “rientro” demografico?
È che, avendo bisogni tutt’altro che parchi, essendo abituati a poterli soddisfare a un costo relativamente basso, ci pare di aver diritto a inesauribile energia in assoluta sicurezza. In questo senso, il no al nucleare è isterico prima che ideologico.
Ci saremo costretti, non c’è altro da fare. Tanto vale concentrarsi sul farlo bene, ma coscienti che niente si ha per niente.



lunedì 14 marzo 2011

Nello spazio che fu di Max & Tux


scorci di cinismo rivelatore...
intrecci di motti spiritosi...
 cumulo di avvenimenti sbrigati in fretta...
personaggi spinti da destra a sinistra in due minuti...
pantomime satiriche istruttive...
caricature del dolore e della nostalgia…”

Manifesto futurista del teatro di varietà


Dovendo tirare le somme di tutto ciò che ho letto in giro sul ritorno di Ferrara in tv, mi pare di poter dire che l’attesa c’è, ed è dello stesso tipo che c’era in Piazza Maggiore, a Bologna, dove il nostro avrebbe dovuto tenere un comizio per la sua Lista «Aborto? No, grazie!», il 2 aprile del 2008. Anche stavolta, insomma, la piazza sembra pronta al lancio di insulti e pomodori, e il nostro sembra pronto ad eccitarla, già eccitato al solo pensiero di poterla provocare, come la piazza si aspetta.
Si dice che Marinetti fosse solito ingaggiare dei claqueur perché disturbassero le sue recite facendolo bersaglio di uova marce e scarponi, ma Ferrara è più furbo e sa come procurarsi a gratis l’atmosfera. Provocazione artistica o politica? In arte e in politica è lo stesso, il provocatore sa catturare il tipo di attenzione che vuole, e agisce come un terrorista, e conosce bene il modo di ottenere le reazioni volute. E non c’è alcun dubbio: leggendo le interviste concesse da Ferrara e i commenti alla vigilia della sua première nello spazio che fu di Max & Tux, il pubblico è caldo come occorre allo spettacolo. Probabilmente sarà proprio come nel varietà futurista: scorci di cinismo rivelatori, intrecci di motti spiritosi, ecc.



Come una botta di culo dentro l’altra


Mai più un colpo di stato come quello effettuato dalle “toghe rosse” tra il ’92 e il ’93, questo è il fine dichiarato della epocale riforma della giustizia che preme tanto a questo governo. E sia ripristinato il primato della politica, com’era nella Prima Repubblica, spazzata via da una magistratura politicizzata che si sostituì alla volontà popolare, coartandola. Povero Craxi, povera Dc, parrebbe che Berlusconi voglia vendicarli.
Poi, ospite di Lucia Annunziata, ieri, su Raitre, Angelino Alfano si lascia andare: “La nuova classe dirigente di questo paese non ci sarebbe – dice – se non ci fosse stata [la stagione di Mani pulite]. Quindi io non ho recriminazioni per quell’epoca storica. Anche a titolo personale” (In ½ h, 13.3.2011 – 00:10.50-00:10:57). Sgusciato dal baccello: “Se la procura di Milano non avesse spazzato via la vecchia classe dirigente – quella che a Palazzo Piacentini ci metteva un Gullo, un Gonella, un Reale, un Rognoni, un Vassalli, un Conso – col cazzo che sarei Guardasigilli!”. Sottinteso, ma neanche tanto: “Il berlusconismo deve tutto a Mani Pulite”.
E ti rendi conto che ha ragione: Berlusconi starebbe ancora a scodinzolare dietro a Craxi. Bacerebbe la mano a lui, non a Gheddafi.  E allora, sì, tutto mi torna: i leghisti e i missini erano giustizialisti, la Fininvest cavalcò Mani pulite e Berlusconi offrì a Di Pietro un ministero, proprio quello della Giustizia, ancora nel febbraio 1994... Senza il colpo di stato delle “toghe rosse” sarebbe ancora un cliente, grazie a quel colpo di stato è diventato padrone.

Aspetta, dove l’ho letto? “L’uscita da campo di Berlusconi sarebbe come il fallimento di una grossa azienda i cui dipendenti non godrebbero di nessuna cassa integrazione. Non parlo della Fininvest, ovviamente. Lei ha mai contato quante centinaia e centinaia di persone Berlusconi ha tratto dal nulla e che nel nulla ritornerebbero nella ferale eventualità che il loro principale uscisse di scena? Che farebbero, sono i primi nomi che mi vengono in mente, i ministri Gelmini, Alfano, Bondi, Carfagna? E le centinaia di onorevoli e senatori, eletti come tanti cavalli di Caligola, che tornerebbero a non essere nessuno? E la cerchia di quelli che si sono salvati dalle patrie galere perché Berlusconi li ha fatti eleggere?” (Andrea Camilleri/Saverio Lodato, Di testa nostra, Chiarelettere 2010).
Ecco. Il tenero Angelino sta dentro a una matrioska, come una botta di culo dentro l’altra.

[...]




“Berlusconi mi ha detto: «Lei non è un uomo Rai»”

Giuliano Ferrara – la Repubblica, 1.2.1989