mercoledì 13 aprile 2011

Non ci sono dubbi


“Prego il Padreterno che gli mandi un bell’ictus e rimanga lì secco” (Exit - La7, 6.4.2011), anzi: “Berlusconi? Datemi una pistola e un euro, e ci penso io” (La Zanzara - Radio 24, 12.4.2011). Ma questo è un prete? Si rimane sgomenti alle dichiarazioni di don Giorgio De Capitani, ma lo sgomento dura un niente: anche se si accontenta di un solo euro, ha chiesto soldi. Sì, non ci sono dubbi: è un prete.


martedì 12 aprile 2011

Empfängnisregelung


C’è differenza tra “anticoncezionale” e “contraccettivo”? Sostanzialmente no, perché in entrambi i casi parliamo di qualcosa che impedisce la fecondazione. In senso stretto, anche la continenza sessuale è un metodo “anticoncezionale” o “contraccettivo”, ed è proprio la “continenza periodica” che la Chiesa ammette come solo mezzo moralmente valido per la regolazione delle nascite (Catechismo, 2370), essendo “lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio [perifrasi per “atto sessuale”] nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere minimamente i principi morali che abbiamo ora ricordato. La chiesa è coerente con se stessa, sia quando ritiene lecito il ricorso ai periodi infecondi [grazie alla loro identificazione con metodi come quello del controllo della temperatura basale, nel muco cervicale uterino, ecc.], sia quando condanna come sempre illecito l’uso dei mezzi direttamente contrari alla fecondazione (meccanici, farmacologici, ecc.), anche se ispirato da ragioni che possano apparire oneste e gravi. Infatti, i due casi differiscono completamente tra di loro: nel primo caso i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali” (Humanae vitae, 16).

Ciò detto, era necessario ritirare le copie della versione italiana di Youcat perché la traduzione dall’originale tedesco di “Empfängnisregelung” (letteralmente: “regolazione del concepimento”, con esplicito riferimento all’impiego dei metodi “naturali”) era reso col termine “metodi anticoncezionali”? Il metodo Billings, che è approvato dalla Chiesa, non è forse un metodo anticoncezionale? Non importa: le copie della versione italiana vengono ritirate, nonostante il testo dica chiaramente che la Chiesa “rifiuta tutti i metodi contraccettivi artificiali”. Se ne esistono di “artificiali”, ne esistono di “naturali”, che sono appunto quelli ammessi dalla Chiesa. Il fatto è che “anticoncezionale” e “contraccettivo” sono termini che evocano “artificio” anche quando sono riferiti a pratiche “naturali”. Da parte di chi ha disposto il ritiro della versione italiana di Youcat vi è una implicita presa d’atto che i metodi contraccettivi “naturali” non sono efficacemente “anticoncezionali” come quelli “artificiali”, come peraltro era già noto.


Sogno e bisogno




Ero in apprensione per la Cina


Qualche anno fa, quando i rapporti tra Cina e Santa Sede sembrarono prendere una buona piega dopo decenni di gelo diplomatico, fui mosso da grande apprensione per le sorti della Cina – a volte mi piace avere premure smisurate – e scrissi una lunga lettera aperta all’ambasciatore cinese in Italia: “Attenti! Come concedete un’unghia, vi spolpano il braccio!”. Naturalmente forzai un po’ la mano, toccando i punti che immaginavo fossero più sensibili in un cinese metacomunista e neoconfuciano: “Guardatevi il culo! Se cedete alla pretesa che il diritto ecclesiastico abbia esercizio attivo nella comunità cattolica cinese, slaminate in due la cittadinanza, date vita ad un bolla che finirà per farvi embolo. Sembrano vecchiacci mollicci, ma – occhio! – sono pericolosissimi!”. Ci misi un po’ di leggenda nera, un po’ di teologia a far spalancare gli occhi dall’orrore, e poi tutto il peggio del Catechismo e del Codice di Diritto Canonico.
Ovviamente la lettera non sortì effetto, e Roma e Pechino continuarono a scambiarsi cortesie. Rimaneva sempre aperta la questione delle nomine episcopali, che teneva divisi i cattolici nella chiesa cosiddetta patriottica e in quella cosiddetta sotterranea, ma anche quella sembrava avviarsi a soluzione, quando il 31 marzo, con nomina pontificia, Paul Liang Jiansen veniva ordinato vescovo di Jiangmen, e subito riconosciuto dal governo.
Era evidente che vi fosse stato accordo preventivo e che la Santa Sede avesse accettato, almeno in via transitoria, la soluzione di una consultazione riservata tra le parti sulla rosa degli episcopabili. Compromesso che di fatto era una mortificazione del diritto canonico (“Il giudizio definitivo sull’idoneità del candidato [all’episcopato] spetta alla Sede Apostolica” – Can. 378, §2), ma che bastava non dichiarare per salvare la faccia. Pur sempre un primo passo.
“Come sono stupidi, questi orientali!”, così rimuginavo con sommo dispetto. Ma non facevo i conti con la superiore saggezza dei cinesi, che evidentemente avevano scelto il gioco di sponda.
Il segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, monsignor Savio Hon Tai-Fai, lamentava dalle pagine di Avvenire, venerdì 1 aprile, che “non sono promossi i migliori”, perché “si sono preferite nomine di compromesso”, sicché “ho sentito lamentele di fedeli e sacerdoti per scelte episcopali di compromesso”. Sì, però “la Santa Sede ha avuto giustamente la preoccupazione di evitare ordinazioni illegittime”, ed ecco vescovi non graditi ai cattolici della chiesa cosiddetta sotterranea, ma buoni a dar l’impressione che sia il Papa a sceglierli, come si deve. E questo genera malumori, ponendo in altri termini la stessa domanda di sempre: meglio il martirio o meglio il concordato? Qui è l’umanità a spaccarsi, prim’ancora che i cattolici, prim’ancora che i cattolici cinesi, prim’ancora che i cattolici della cosiddetta chiesa sotterranea.
Mica fesso, il governo cinese. Alla pretesa che il diritto ecclesiastico abbia esercizio attivo nella comunità cattolica cinese, la risposta è: formalmente sì, sostanzialmente no. Pur di far bolla, la Santa Sede accetta. E la bolla finisce per far embolo nelle sue arterie. Furbissimi, questi orientali.

lunedì 11 aprile 2011

“Molto deve ancora essere fatto…”




Sulla base del personale intuito


Ci vorrà una mente sopraffina per confezionare una versione dei fatti che integri le odierne affermazioni di Silvio Berlusconi riguardo al «caso Ruby» con quelle precedenti: aveva dichiarato che il suo interessamento alle sorti di Karima el Mahroug fosse motivato dal ritenerla nipote di Hosni Mubarak, e oggi aggiunge che le sue premure pecuniarie avevano il fine di non costringerla alla prostituzione. Ma la nipote di Mubarak si prostituiva? Mai fatto, a sentir lei e, a ritenerla sincera, verrebbe meno ogni ragione per processare il Presidente del Consiglio, almeno per il reato di prostituzione minorile. A ritenerla sincera, però, sorge un problema: sulla base di quali elementi poggiava il timore che ella potesse prostituirsi? Qui la mente sopraffina non avrà che da appellarsi al fatto che Silvio Berlusconi riteneva serio quel rischio sulla base del personale intuito nel riconoscere la potenziale puttana fra quante venutesi a trovare a corto di denaro. Dote innata che si riconferma nello scegliere a colpo sicuro la mente sopraffina fra quanti restano per un attimo imbarazzati ad ogni sua nuova bugia.


De Mattei for President!


Dopo averci spiegato che l’uomo non è prodotto dell’evoluzione ma della creazione di Dio, che a far cadere l’Impero Romano sono stati i gay, che terremoto e tsunami in Giappone sono da intendere come castigo di Dio e, ora, che il Paradiso terrestre è davvero esistito, al professor Roberto De Mattei, che intanto rimane alla vicepresidenza del Centro Nazionale Ricerche, non resta che venirci a dire che masturbarsi procura cecità. E poi, tenuto conto della merda di paese che siamo, lo facciamo presidente.


domenica 10 aprile 2011

Joe Hill promosso a Padre della Chiesa


Bob Dylan? “Sì, lo coinvolgiamo nientemeno che in una recensione riguardante uno dei massimi Padri della Chiesa, quel sant’Agostino a cui Dylan nell’album «John Wesley Harding» dedicò nel 1968 una canzone” (Agostino amato da Bob DylanIl Sole-24Ore, 10.4.2011). Ora, si può chiudere un occhio sul fatto che quell’album sia in realtà del 1967, ma è tutto il resto che non va, com’è del resto per molte delle sciocchezze che il cardinal Gianfranco Ravasi scrive e, più in generale, per l’intero inserto culturale del giornale della Confindustria da quando a dirigerlo non c’è più Riccardo Chiaberge.
“Ma ritorniamo alla canzone che inizia così: «I dreamed I saw saint Augustine» e che ha il suo apice nella ripresa successiva: «I dreamed I saw saint Augustine alive with fiery breath!». Dunque, Bob aveva sognato di vedere sant’Agostino «in carne e ossa che correva nei nostri quartieri in estrema povertà... e cercava anime che già erano state vendute, gridando forte: ‘Alzatevi, alzatevi! Venite fuori e ascoltate...’». E alla fine, ecco Dylan confessare ancora: «Ho sognato di vedere sant’Agostino, vivo di un respiro di fuoco» per aggiungere in conclusione un apocrifo martirio del santo, in realtà solo un incubo onirico: «Ho sognato di essere tra coloro che lo misero a morte! Oh, mi sono svegliato adirato, solo e terrorizzato..., ho abbassato la testa e ho pianto»”.

Tutto sbagliato, Eminenza, quel «saint Augustine» non è l’Ipponate. «I dreamed I saw saint Augustine» altro non è che una citazione di «I dreamed I saw Joe Hill» (testo di Alfred Hayes e musica di Earl Robinson, 1936), una ballata in onore del sindacalista e folksinger di origine svedese naturalizzato americano che fu condannato a morte, quasi certamente innocente dell’omicidio del quale era accusato, e giustiziato nel 1915. La citazione riprende il testo e (almeno per le prime dodici battute) anche la musica di quella ballata, in linea con l’intero album di Bob Dylan, che era senza dubbio un tentativo di fondere country e Bibbia (Piero Scaruffi ha scritto che “l’apparato retorico del suo passato, parabole e visioni, profezie e sermoni, veniva messo al servizio della nuova causa”). Per quanto confusa e vaga, l’ispirazione era senza dubbio religiosa, ma il «saint Augustine» che nella canzone di Bob Dylan risulta martirizzato non è Agostino d’Ippona, ma Joe Hill trasfigurato.


:-D


Fossi ancora iscritto a Radicali italiani, starei a mangiarmi il fegato. E invece seguo a debita distanza questo Comitato nazionale chiamato a declinare alla milanese il dogma romano, e rido.
A Roma – più esattamente in via di Torre Argentina – è articolo di fede che si possa (e si debba) fare differenza tra chiesa e gerarchia ecclesiastica, tra cattolici e Santa Sede, tra spiritualismo e religiosità. Ci credono davvero, pensano che l’emancipazione antropologica di questo paese rovinato dal cattolicesimo passi per l’emersione dello “scisma sommerso”, e non si avvedono che il più schifoso clericalismo è tutto in nuce già nella apparente purezza del messaggio evangelico, in quell’obbligo di amare il prossimo invece del farsi bastare il rispettarlo. Precipitando dall’iperuranio romano, qui a Milano l’idea è di poter far differenza tra don Luigi Giussani e Roberto Formigoni, tra una Comunione e liberazione nata come puro afflato sociale e poi – solo poi – diventata lobby avidissima.
Se a Roma il dogma sbatte il muso da decenni (almeno dal 1985), i cattolici milanesi, schifati dallo strapotere formigoniano, potrebbero (e dovrebbero) votare questi monaci scalzi, più giussianiani di Formigoni. Come se non fosse tutto già in Giussani il mandato ad annunciare Cristo come evento, meeting e coffee break. Non hanno letto Giussani, questo è tutto.

Peggio di noi non possono essere


In Gramsci, in Prezzolini, in Salvemini e in Sturzo si ritrova la stessa distinzione degli italiani in conformisti e anarchici, e in tutti e quattro si arriva a concludere, pur con diversa argomentazione, che in ogni conformista c’è sempre un anarchico, e viceversa. Tutti della stessa pasta: sia il conformista, che non è tale per un innato rispetto della regola, intesa come autorità o tradizione, ma per istinto all’adattamento senza convinzione, per lo più per evitare rogne e in nome del “chi me lo fa fare?”, eventualmente (e manco tanto eventualmente) per lucrare agi; sia l’anarchico, che non è tale perché refrattario alla regola, intesa come sopra, ma perché disilluso dal poterne cavare vantaggio. Non v’è accordo sulle cause, ma in tutti e quattro – Gramsci, Prezzolini, Salvemini e Sturzo – il cosiddetto “carattere nazionale” ha due facce ma una sola anima, che è antisociale quanto più è socievole, familista quanto più universalista, ecc.
Sono partito da Sturzo, del quale sto leggendo in questi giorni l’ultimo volume di Politica di questi anni. A pag. 259 sento l’eco di Prezzolini, faccio uno sforzo di memoria e rivado al suo L’Italia finisce, ecco quel che resta. Qui, a tratti, il “carattere nazionale” trova un giudizio analogo a quello che è ben più che tra le righe delle Cronache torinesi, e in tutto coincidente alle riflessioni salveminiane alla vigilia della Grande Guerra. In meno di mezz’ora, l’Italia e gli italiani mi arrivano a condanna definitiva: indegni di sopravvivere in quanto tali.
Non si capisce quale follia possa mandarci in giro fieri di una identità che sarebbe tutta nostra, reliquia di qualche Rinascimento o Risorgimento. Io accoglierei a braccia aperte somali e tunisini: peggio di noi non possono essere, è praticamente impossibile.


sabato 9 aprile 2011

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Panopticon



Nell’uso della metafora è inevitabile un minimo di violenza all’oggetto dal quale si piglia a prestito l’immagine, ma certe volte si esagera, e la violenza gli sfigura i connotati. È il caso del Panopticon, il modulo architettonico concepito da Jeremy Bentham a soluzione di alcuni problemi del regime di sorveglianza in convitti, collegi, ospedali, carceri, ecc. Basta leggere il testo, che è del 1787 (pubbl. 1791), per trovarci la filosofia e il metodo: tutto è “as much advantage as to convicts” (Panopticon, XVII).
Bene, occorre dire che l’oggetto è già discretamente mortificato dall’uso metaforico che fa Michel Foucault (Surveiller et punir, 1975): il Panopticon diventa solo carcere, e solo una delle sue funzioni, la sorveglianza, va a esaurirne il fine.
Subisce altra violenza da Shoshana Zuboff (In the Age of the Smart Machine, 1988), che prende l’immagine così lavorata da Michel Foucault per usarla come metafora del controllo informatico della produzione nella società post-industriale.
Così deformato, il Panopticon arriva sulle pagine di Government Technology (11.9.2007) per fare da metafora alla censura dell’informazione che il regime cinese attua sulla rete di internet.
Di qui passa nelle mani di William Gibson: “Jeremy Bentham’s Panopticon prison design is a perennial metaphor in discussions of digital surveillance and data mining, but it doesn’t really suit an entity like Google” (The New York Times, 31.8.2010). Qui, la violenza che l’uso della metafora fa all’oggetto sembrerebbe attenuarsi, perché si spiega che “in Google, we are at once the surveilled and the individual retinal cells of the surveillant” (più Anopticon che Panopticon, dunque, o entrambe le cose insieme). Sembra finalmente che a Bentham sia concessa un po’ di tregua, ma...

Ma ecco che arriva Daniele Capezzone col suo Contro Assange, oltre Assange (in abbinamento facoltativo a il Giornale di qualche giorno fa, pagg. 80, € 2,80, non un’idea, dicasi una): “È stato lo scrittore di fantascienza William Gibson a descrivere le cose nei termini più efficaci e insieme inquietanti: siamo arrivati ad una sorta di potenziamento all’inverosimile del Panopticon pensato da Jeremy Bentham, il carcere ideale dotato di forma e caratteristiche tali da consentire ad un unico guardiano di vedere tutti i prigionieri, senza che questi ultimi possano sapere se siano sorvegliati o no. Qui, invece, ognuno di noi è guardiano e prigioniero nello stesso tempo, concentrando in sé tutto il potere della prima figura e tutta la nudità della seconda” (pagg. 31-32).
E dunque, al pari di Gibson, Capezzone sembrerebbe voler dare a Bentham quel che è di Bentham, restituendo l’immagine all’oggetto e rinunciando a deformarla in modo improprio. Sembrerebbe anche un gesto carino da parte di chi si ostina a definirsi liberale, e quindi dovrebbe aver letto Bentham, almeno per simulare con un minimo di decenza. Ma è solo una finta e in copertina – voilà – il Panopticon. Che con Wikileaks, con Wikipedia, con Google e con Internet – si era convenuto a pagg. 31-32 – non c’entra niente. Ma sta lì, in copertina, sotto il titolo.



Per questo, se potesse, Bentham prenderebbe a schiaffoni Capezzone? Non per questo, non per questo.

Più nulla è inverosimile ormai

 

Una delle domande delle cento pistole che stasera Daria Bignardi ha posto a Carlo Conti era la seguente: “Gerry Scotti: Presidente della Repubblica, si o no?”. Ero lì tutto schifato da una domanda così scema – pensavo: poi sfottiamo Barbara D’Urso e Anna La Rosa per la fatuità che stendono ai piedi dei loro ospiti, ma a questa qui qualcuno scrive le domande, o se le scrive da sola? – e la risposta mi ha fatto trasalire: “Sì, così mi fa Presidente del Consiglio”.

C’era dell’ironia, senza dubbio, ma non siamo il paese dove una sciampista può diventare ministro? E non è proprio questo il bello della democrazia? Gerry Scotti al Quirinale e Carlo Conti a Palazzo Chigi, che c’è di inverosimile? Più nulla è inverosimile ormai, siamo in overdose del bello della democrazia, e nessuno può escludere che il sorriso di Daria Bignardi alla risposta di Carlo Conti possa finire in un documentario storico di fine secolo, questo secolo.

 

 

venerdì 8 aprile 2011

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Luogo e data di emissione



Il Foglio pubblica gli assegni che dimostrerebbero il versamento della caparra per l’acquisto di Villa Due Palme in località Cala Francese, a Lampedusa. La giurisprudenza non è univoca sul punto, ma pare prevalente l’indirizzo a non ritenere validi gli assegni privi di luogo e data di emissione, che qui mancano.


[un grazie a Simone Zaccagnini]

giovedì 7 aprile 2011

L’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese

 

L’Osservatore Romano di domani ci spiega in cosa consista L’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese, che è l’altisonante titolo dell’articolo. Tutto come sempre, niente di nuovo. La Santa Sede, che anche stavolta di suo non caccia un euro, destina i proventi di una colletta, che verrà effettuata durante la messa in Cena Domini che Benedetto XVI celebrerà il Giovedì Santo”, alle “vittime del terremoto e del maremoto nella regione dell’Honshu orientale”, cioè al titolare di quella diocesi, il quale userà la somma “per aiutare persone in difficoltà, per riparare le chiese, per ricostruire le case”. In pratica, come sempre, l’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese consisterà nel raccogliere denaro fra i fedeli laici all’altro capo del mondo per far fronte alle urgenze della lontana diocesi giapponese, intesa come succursale della Santa Sede in Estremo Oriente, e infatti il vescovo di Sendai ringrazia a nome dei “cattolici del Giappone”, ai quali andrà quanto non servirà a costruire chiese nuove e case destinate al clero senzatetto.

L’aiuto non è al Giappone, ma alla chiesa cattolica giapponese. Non viene dalla Santa Sede, se non come frutto della colletta che ha organizzato. Non arriverà in Giappone prima del 21 aprile, e dunque non risponderà alle prime necessità, che sono quelle più drammatiche, ma alle seconde e alle terze. Volontari cattolici spaleranno fango, come probabilmente faranno pure i volontari non cattolici, ma lo faranno da cattolici, coordinati dal vescovo, e dunque il merito andrà alla diocesi. L’articolo è illuminante, ma il titolo non va bene. Sarebbe stato più corretto dire Anche in Giappone, la Chiesa è sempre uguale a se stessa.

 

Non siate facilisti, non siate ipocriti


Sì, duecento e passa migranti sono affogati nel Canale di Sicilia, e questo muove a compassione, ma “soffrire con gli altri e per gli altri è molto complicato – avverte Giuliano Ferrara – se non si voglia essere facilisti e ipocriti”. Erano eritrei e somali, mica embrioni.

mercoledì 6 aprile 2011

En passant

Ho dato incarico ai miei legali di presentare formale denuncia-querela per il reato di diffamazione aggravata ai miei danni, e con l’intenzione di costituirmi parte civile, in attinenza a quanto leggo, oggi, su pontifex.roma.it, in un post nel quale vengo pubblicamente indicato, e fin dal titolo, con l’ingiurioso epiteto di “seminatore di odio contro i cristiani”.

Stasera era troppo



Buona sera. Domani è il gran giorno, il giorno fatale: comincia a Milano il processo Ruby. Centinaia di giornalisti da tutto il mondo arrivano lì per vedere se si può sputtanare ancora un po’ questo nostro martoriato paese. L’accusa è temeraria, goffa, ridicola: prostituzione.

La prima menzogna arriva dopo appena 30" (sigla di testa compresa). Sembra solo una banale imprecisione, perché l’accusa è di prostituzione minorile e di concussione, per Berlusconi, e di sfruttamento della prostituzione, per Mora, Fede e Minetti. La prostituzione – in sé – non è reato in Italia. Gli imputati non sono le prostitute passate per Villa San Martino, ma tre tizi che l’accusa sostiene le sfruttassero e un tizio che avrebbe pagato le prestazioni sessuali di una minorenne, abusando poi della sua carica istituzionale per sottrarla alla giustizia quando questa è stata fermata per furto, presumibilmente per assicurarsene il silenzio sull’illecito commercio sessuale. Domani, dunque, non si processa una puttana, né dieci, né cento, come Giuliano Ferrara cerca di insinuare, ma solo Berlusconi e i tre addetti a procurargli puttane. L’imputazione non è a carico delle donne pagate da Berlusconi, che infatti saranno chiamate in causa solo come testimoni; tanto meno è carico di Ruby, testimone e parte lesa. E allora come si può imbrogliare le carte? Facile.

[L’accusa] è a carico del Presidente del Consiglio e di un certo numero di suoi amici e amiche.

“Un certo numero”, ma quale? Se è 3 (Mora, Fede e Minetti), siamo d’accordo. Il fatto è, però, che “un certo numero” può significare dieci, trenta, trentatre e anche tutto il troiaio, sicché si sarebbe autorizzati a credere – se uno fosse tanto idiota da credere a Ferrara – che l’accusa sia di prostituzione, che il tribunale si stia ergendo ad autorità morale, e che il processo non serva a chiarire se Berlusconi abbia o no commesso i reati agli articoli 317 e 600-bis del Codice Penale, ma a stigmatizzare i costumi privati di libere cittadine. Se uno è tanto idiota, può allora convenire che

Però il vero contenuto del processo è un altro: è il diritto, che viene contestato, di alcune ragazze, di alcune giovani donne, di essere invitate a cena da un uomo ricco e potente, di sedurlo, di farsene sedurre mondanamente e di giocare con lui, privatamente, dentro le mura della sua casa. Questo diritto è in forte contestazione – è diventato un reato penale – e il pretesto è difendere la dignità della donna.

La minore età di Ruby? L’abuso di potere? Volatilizzati, puf! Il processo che si terrà domani dovrebbe servire a sanzionare delle allegre cene private, l’idiota è pregato di crederci. Se poi ci crede, è pronto al parallelismo.

Vediamo come la dignità della donna viene difesa nel mondo islamico. Ho trovato in un blog (camilloblog.it) di un mio caro amico giornalista un piccolissimo documentario che vi sottopongo: lì si spiega come fanno gli islamici, quelli del burqa, quelli del velo, quelli della sharia, la legge secondo cui la moglie può piccare il… il marito può picchiare la moglie – insomma, quelli che mantengono le donne nelle condizioni che sappiamo – come concepiscono loro storie simili. Pregherei la regia di mandare in onda questo meraviglioso docu-drama.

[Sorvoliamo sul lapsus. Dovremmo tirare in ballo la signora Selma e non sarebbe bello.] Veena Malik, soubrette pakistana, ha partecipato all’edizione indiana del Grande Fratello, e perciò è fatta oggetto di una fatwa in diretta televisiva. La vicenda ha qualche relazione col processo che si apre domani? Nessuna, ovviamente. Se però siamo riusciti a spostare sulle puttane l’attenzione che abbiamo distolto dal puttaniere e dai magnaccia, che ci vuole a trasformare le prestazioni sessuali a pagamento in simpatiche cenette? Se ci si riesce, abbiamo fatto credere che domani, a Milano, si processano delle ragazze che non hanno commesso alcun reato – cosa che è comunque vera perché non lo è neanche il prostituirsi – e che a muovere la magistratura sia un’urgenza morale, affine a quella dei tribunali coranici. Ehi, tu, idiota, ascolta.

Ecco. Da una parte c’è un giornalista tipo Gad Lerner, il famoso giornalista de La7 che fa una trasmissione dietro l’altra per dire che Berlusconi è un nemico della dignità delle donne; dall’altro c’è un mufti o imam islamico, che dice «hai disonorato il Pakistan» a questa ragazza che ha il solo torto di essere andata al Grande Fratello. È andata in India per emanciparsi da una vita che non le piaceva. Si è messa un po’ in libertà – non proprio con il burqa, come si vede – ed è andata a fare il Grande Fratello, e partecipa al mondo colorito e colorato dello spettacolo. Il mufti, che assomiglia molto ad alcuni giudici che io conosco, gli dice «tu sei il disonore della patria», e crea lo scandalo moralistico per questa donna che cerca di esercitare come desidera la propria libertà, se non la propria dignità.

Non sei mosso a indignazione, idiota, nel sapere che domani, a Milano, sarà fatto il tentativo di applicare la sharia all’allegra compagnia di Arcore? Non ti fa pena sapere che al povero Apicella potrebbero essere riservate trenta nerbate? Chiediti, idiota, perché può accadere una roba del genere. Non ci riesci? Aspetta che a guidarti c’è sempre Ferrara.

Ora, vedete, io capisco che ci sia scandalo, perché la ricchezza fa sempre scandalo, il potere fa sempre scandalo, gli usi e i costumi privati di un potente sono sempre oggetto – insieme – da un lato di ammirazione e dall’altro di invidia, e poi di spirito critico o ipercritico. La ricchezza è una cosa che tutti dannano e molti desiderano, è un modo di compensare i talenti che tutti auspicano possa [?] arrivare per sé. Sappiamo di due clamorosi critici del Presidente del Consiglio – il comico David Riondino e l’attrice comica Sabina Guzzanti – che hanno affidato i loro risparmi a un finanziere che prometteva loro il 20% di interessi, non so se mi spiego. Insomma, la ricchezza è traditrice per i moralisti: la dannano e supplicano il cielo che arrivi anche per loro.

Ci arrivi, cocco? Bravo, proprio così: è tutta colpa dell’invidia, che è sentimento – insieme – atroce e ridicolo. E certi magistrati – ahinoi! – amministrano la giustizia in nome dell’invidia sociale. Infatti, ascolta come chiude questa esemplare puntata di Qui Radio Londra e poi decidi come schierarti.

Nessuno vuole qui fare l’apologia di Ruby, né l’apologia di Berlusconi e delle sue cene private. Il punto è un altro. Il punto è che quella ragazza che avete visto nel filmato è come la signora Karima el Maghroub, in arte Ruby. È una giovane donna che ha scelto un uso spregiudicato, criticabile quanto volete, ma libero, della sua vita, anche per emanciparsi da costrizioni e regole che rifiutava. E ha incontrato sulla sua strada un giocoliere galante – il Presidente del Consiglio – che ha organizzato delle cene per lei e per molte sue amiche. Il che è diventato – temerariamente – un reato penale meritevole di processo, di sputtanamento del paese ed eventualmente – perché no – di galera.

Vuoi vestire i panni del mufti? Dev’essere l’invidia, che altro? E ancora, come in apertura, torna lo “sputtanamento del paese”. Un paese pieno di giocolieri galanti. Chiamati a solidarizzare con l’imputato, non foss’altro che per amor patrio. Vogliamo che Milano diventi Islamabad? Sì? O tempora, o mores.

Così vanno le cose. A domani.

Domani non posso. Stasera era troppo.

martedì 5 aprile 2011