Il 2 agosto del 1980 avevo compiuto da poco 23 anni. Di lì a un mese mi sarei iscritto all’ultimo anno di Medicina e Chirurgia e, intenzionato a laurearmi entro il luglio successivo, preparavo già la tesi, in attesa di dare gli ultimi quattro esami. Avevo lasciato la mia stanza di fuorisede a Napoli ed ero tornato a casa, a Ischia, dai miei. Mi svegliavo presto, studiavo fino a mezzogiorno e poi mi concedevo una pausa, salivo sulla mia scassatissima Vespa e andavo in spiaggia. Quel 2 agosto lo ricordo bene.
Ero appena arrivato allo stabilimento balneare de La Cava dell’Isola, a Forio, che al bar vidi un capannello di bagnanti piuttosto agitati. Era da poco arrivata la notizia della strage di Bologna e Berti (non ne ricordo il nome), un romagnolo sulla settantina, habitué di quella spiaggia, patetica macchietta di fascista, aveva rivendicato il “botto”, anche con una certa fierezza: si discuteva concitatamente e di lì a poco Berti si sarebbe preso qualche meritato ceffone.
Era da escludere, ovviamente, che avesse a che fare anche lontanamente con la strage e la rivendicazione dei Nar (poi smentita) sarebbe arrivata solo nel tardo pomeriggio: perché non aveva esitato dichiararla “bomba fascista”? Semplice: a quei tempi un attentato dinamitardo era fascista, per definizione. Com’era, per definizione, anarchico alla fine dell’Ottocento, e islamista oggi. Berti era l’altra faccia del luogo comune: di qua, l’orrore, lo sdegno, la rabbia e il dolore per una carneficina che non poteva non essere opera dei fascisti e, di là, Berti, altrettanto sicuro, col petto in fuori, “onore ai camerati che hanno fatto piangere Bologna, la rossa”.
Avremmo dovuto aspettare un quarto di secolo perché il luogo comune rivelasse qualche incongruenza, lasciando spazio a un’ipotesi, che è ancora troppo presto per poter considerare men che un depistaggio tardivo, ma che con sempre più forza va a erodere la verità di una sentenza che fa acqua da più di un buco. Il 19 dicembre del 2003, sul Corriere della Sera, il senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della commissione stragi, affermava: “Rimane non verosimile, non credibile, la ricostruzione del fine politico della strage di Bologna che è sempre stato accostato, quasi fosse un remake, a quello della bomba di Piazza Fontana. Ovvero: la destra radicale, in un ambiguo rapporto con gli apparati di sicurezza, semina il terrore affinché questo generi smarrimento e una richiesta d’ordine che poi porti a uno spostamento a destra dell’asse politico del Paese piuttosto che a un vero e proprio golpe. Questo movente non ha alcun senso nel 1980”.
Ha senso, invece, ma solo oggi, l’ipotesi che l’esplosivo fosse solo in transito sul territorio italiano, e che il corriere fosse palestinese: il carico sarebbe stato fatto esplodere da agenti della Cia o del Mossad, al fine di sabotare il patto da lungo tempo stretto tra i palestinesi e l’Italia dopo la strage di Fiumicino (libertà d’azione su tutta la penisola in cambio di nessun attentato). Numerosi elementi sono venuti a rendere attendibile questa ipotesi, che però è difficile da far digerire a filopalestinesi e filoisraeliani, cioè praticamente a tutti.
Morto Berti, che non può continuare a rivendicarla come strage fascista, il luogo comune regge sull’ormai consolidata idea che quella bomba fu messa dai Nar. D’altronde, le figure di Mambro e Fioravanti hanno tutti i requisiti per soddisfare un tal genere di trama. In assenza di un’altra verità, tornano comodi ad ogni 2 agosto.