Tra le tante figuracce rimediate da monsignor Rino Fisichella in questi ultimi anni, quale l’avrà maggiormente amareggiato? Il non riuscire a mettere insieme due verbi e due aggettivi che avessero senso compiuto, quando ad Anno Zero si discuteva degli abusi sessuali ai danni di minori da parte del clero cattolico irlandese? La valanga di sghignazzi piovutagli addosso per la sua arrampicata sugli specchi nel tentativo di giustificare il fatto che a un divorziato risposato come Silvio Berlusconi fosse stata somministrata l’eucaristia o il disprezzo che lo sommerse, quando assolse il ben contestualizzato “porcodio” del barzellettiere di Palazzo Chigi? Niente di tutto questo: conoscendolo il tanto che basta, fu quando si beccò il tremendo cazziatone della Congregazione per la Dottrina della Fede per aver pubblicamente ripreso, su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009, monsignor José Cardoso Sobrinho.
Ricorderete il caso della bambina brasiliana di undici anni che, lungamente stuprata e infine ingravidata dal patrigno (gravidanza gemellare), si era pigliata la scomunica insieme alla madre e ai medici che l’avevano fatta abortire. Bene, ricorderete pure, allora, che Fisichella aveva assunto posizione dottrinariamente scorretta, affermando che “non c’era bisogno di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto [la scomunica latae sententiae] che si attua in maniera automatica” e che, “a causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita della bambina era in serio pericolo per la gravidanza in atto”, lasciando intendere, vai capire quanto intenzionalmente, e con quale implicita inferenza, che l’aborto fosse stato un male minore.
Apriti cielo, la Conferenza episcopale brasiliana pretese che Fisichella fosse smerdato coram populo, e l’ottenne: “La Congregazione per la Dottrina della Fede ribadisce che la dottrina della Chiesa sull’aborto provocato non è cambiata né può cambiare…”, insomma, Sobrinho si era comportato a dovere, e Fisichella a cazzo di cane. Il primo aveva difeso la dottrina, e al diavolo la bambina, il secondo aveva mostrato cedimento alle logiche mondane.
Quando è il mondo che ti fa bersaglio di fumanti palle di letame, puoi sempre atteggiarti a martire, ma quando a dirti che sei deboluccio sui fondamentali, chiamato a pronunciarsi con urgenza, è il Sant’Uffizio, che puoi fare? Tutt’al più puoi arrossire e balbettare che sei stato frainteso, ma ormai il guaio è fatto, ti serva da lezione.
Sua Eccellenza, però, è una testa di cazzo: quando un giornalista gli telefona per chiedergli un parere su un caso che le cronache portano alla ribalta, parla e, senza pensare troppo, cede al piano buonsenso, cercando approvazione. Anche stavolta, sul caso delle gemelle siamesi nate qualche settimana fa al «Sant’Orsola» di Bologna, sull’enorme complessità dei problemi che il caso pone sul piano medico e su quello bioetico, Sua Eccellenza si è lasciato andare: “Se vi fosse una reale possibilità di morte, salvare una delle due sarebbe un atto d’amore e quindi lecito” (Corriere della Sera, 3.8.2011).
In sé, l’affermazione sembrerebbe ragionevole, ma vi risulta che lo sia pure la dottrina morale cattolica? Chi può mai stabilire con certezza “una reale possibilità di morte”? E come può essere considerato “atto d’amore” un intervento scientemente finalizzato all’omicidio di un neonato per salvarne un altro? Quante volte dovranno rammentare ancora a Sua Eccellenza che, quando di mezzo c’è un ammazzamento, la logica del male minore non va mai bene? Può darsi che stavolta gliela facciano passare, facendo finta di non aver sentito, ma - ancora una volta - non ci siamo, non ci siamo proprio: quell’affermazione sta bene in bocca ai genitori e ai medici, se non cattolici, ma non in bocca a un vescovo, tanto meno a un vescovo al quale è stato affidato il compito di rievangelizzare l’occidente.