domenica 4 settembre 2011

Postmodernism is dead



Arriva su la Repubblica di sabato 3 settembre, tradotto da Anna Bissanti, un lungo articolo di Edward Docx, pubblicato alcuni mesi fa su Prospect Magazine col titolo Postmodernism is dead, che qui diventa Addio, Postmoderno. Tutta nel titolo, la tesi non è affatto nuova – basti pensare a The death of Postmodernism and beyond di Alan Kirby (Philosophy Now, 2006) – ma qui si fa forte di un argomento che l’autore ci offre come inoppugnabile: il 24 settembre, al Victoria and Albert Museum di Londra, si inaugurerà una prima retrospettiva globale di quanto il Postmodernismo ha prodotto in campo artistico, e tanto farebbe da lapide all’“idea predominante della nostra epoca”. Non ci vuol molto a capire, infatti, che per Docx non sarebbe morto solo un movimento artistico, ma “un modo di pensare e di fare”, perché col Postmodernismo siamo dinanzi a “una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico”. Il consueto interpretare l’arte come prodotto di una società, dunque, qui è capovolto: “ogni forma d’arte è filosofia e ogni filosofia è politica”, ma il pensiero e l’azione sarebbero frutto della loro rappresentazione, non viceversa, sicché parrebbe che la fine di un mondo possa essere causata dal collasso della sua immagine, non il contrario, e che questa immagine non proceda dal mondo, ma lo preceda, anzi. Docx non chiarisce se questo assunto valga in assoluto o solo per il Postmodernismo e, in tal caso, perché. Verrebbe voglia di consigliargli di non sprecarsi in frivoli articoletti, ma di impegnarsi seriamente nella costruzione di una teoria, possibilmente solida, così poi vediamo se ci convince. Chissà, può darsi riesca a spiegarci l’avvento del nazismo col tramonto del Déco.
Il Postmodernismo, dunque, è morto. Era “scherzoso, intelligente, divertente, affascinante”, prediligeva “la mescolanza, l’opportunità, la ripetizione”, aveva un debole per “l’apparenza e l’ironia”, “mirava a rompere col passato”, era animato da “un forte desiderio di disfare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’individuo, l’intero territorio del dibattito occidentale”, insomma, era uno stronzetto mosso da pulsioni nichiliste che ci ha instillato una letale “mancanza di fiducia nei dogmi”, generando in noi una sensazione di confusioneche negli ultimi anni è diventata onnipresente, sicché erano in tanti a lamentare: “Nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Ma per fortuna, è finita: si avverte, infatti, “un crescente desiderio di una maggiore veridicità”, e “i valori tornano ad avere importanza”, e “stiamo entrando in una nuova era” che “potremmo provare a chiamare Età dell’Autenticità”. Non ci vuole molto per capire che l’anima del Postmodernismo era il Relativismo e che, pur riconoscendogli qualche merito, Docx gli rimprovera di averci fatti orfani della Verità, rendendoci così deboli e insicuri, vulnerabili alle bieche norme del mercato che hanno sostituito le leggi dei padri. Non si trattasse dell’articoletto di un professorino che insegna al Christ’s College di Cambridge, sembrerebbe il fervorino di un pretonzolo sulla crisi di un mondo che ha smarrito le sue radici cristiane. Ma la riflessione si mantiene a un livello basso, poco più articolato del malessere di una anziana signora con veletta davanti a una installazione di Hermann Nitsch.

sabato 3 settembre 2011

Allontanate i bambini



Bisogna avere tanta comprensione per il povero Sacconi. Gli era venuta la brillante idea di scorporare gli anni di università e quello della leva militare obbligatoria dal computo di anzianità per l’età pensionabile, il Consiglio dei Ministri l’aveva fatta sua, si era sentito un genio, avrà avuto la sensazione che la prostata gli resuscitasse . Poi, nel volgere di un giorno, la sua brillante idea si è rivelata una stronzata di notevole portata, anche un pochino incostituzionale, e il Consiglio dei Ministri l’ha subito ritirata, anche con un certo imbarazzo, cosa rara per quella carretta di svergognati. Povero Sacconi, si può capire gli sia venuto l’acido. Spettacolo inverecondo: prima di pigiare play, allontanate i bambini.


 


[grazie a Denis per la segnalazione]

venerdì 2 settembre 2011

“A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”


Non fosse caduto in disgrazia, il suo curriculum vitae farebbe invidia a tanti: “A vent’anni stavo in barca con D’Alema, a trent’anni dormivo a casa di Berlusconi”. In un paese dove il successo è così spesso dato, e quasi sempre rappresentato, assai più che dal pubblico riconoscimento di meriti, dall’intimità privata che si riesce a poter vantare coi potenti, Giampaolo Tarantini non poteva a buon diritto dirsi un uomo di successo? Non fossero venuti a galla i suoi maneggi, che da subito, e per sua stessa ammissione, hanno mostrato i caratteri della spregiudicatezza che si è fatta ripetutamente prossima al reato, chi non avrebbe dato per scontato che tanta confidenza con due uomini così potenti, due autorevolissimi leader politici, due premier, fosse prova provata di qualche sua indubbia dote, ancorché ignota, comunque degna di un meritato successo? Tanto più solido, nel suo caso, per la caratura dei potenti coi quali, ancora fino a ieri, poteva vantare di aver intrattenuto rapporti personali, per il grado di intimità di queste frequentazioni, per la continuità nel tempo e per la trasversalità di ambienti.
Ora, ammettiamo per pura ipotesi che il nostro uomo di successo non sia in carcere, che le vicende delle quali è stato protagonista non siano mai arrivate sulle scrivanie dei magistrati che indagano sul suo conto, né nelle pagine di politica interna e di cronaca giudiziaria. Ammettiamo, dunque, di ignorare quanto sappiamo sul suo conto e di essere ospiti a casa sua, in poltrona, con un bicchiere in mano, a un metro da un tavolinetto sul quale, in splendide cornici di radica o d’argento, stiano due foto: Giampaolo Tarantini accanto a Massimo D’Alema, ritratto al timone della sua Ikarus; Giampaolo Tarantini sotto braccio a Silvio Berlusconi, sui prati della tenuta di Arcore. Chi oserebbe sospettare di essere a casa di un delinquente? Ve lo dico io: solo chi nutra il pregiudizio che, per sua intrinseca natura, il potere non possa fare a meno di concedere intimità a dei delinquenti.
Ve la sentite di farvi vittima di questo pregiudizio? O preferite rinunciare a un altro pregiudizio, che è quello di considerare di per se stesso un merito l’intimità coi potenti, che pure è esibita da tanti uomini di successo, non necessariamente delinquenti? Io vi consiglierei questa seconda opzione. E allora dovete cominciare a guardare con sospetto quel genere di foto, quel genere di cornici, quel genere di tavolinetti. Dovete cominciare a non invidiare la prossimità al potere e a sospettare della sua esibizione, che è colpevole sempre.

Non se ne andrà


Quando Silvio Berlusconi telefona a Valter Lavitola, lo scorso 13 luglio, sa bene che molto probabilmente quella conversazione sarà intercettata, perché l’uomo è coinvolto in almeno due inchieste ed è assai verosimile che le sue utenze telefoniche siano sotto controllo. Sa bene, dunque, che il contenuto di quella telefonata avrà buone possibilità di essere reso pubblico, anzi, non è escluso che decida di farlo proprio a tal fine, di modo che le sue affermazioni possano avere il sapore di uno sfogo sincero, fatto in piena libertà con persona dalla provata fede. È solo una mia ipotesi, ovviamente, ma mi pare abbia trovi fondamento da ciò che pare emergere come unica premura nel corso della conversazione telefonica: dichiararsi interamente estraneo ai traffici di Luigi Bisignani, dei quali Silvio Berlusconi tiene con insistenza a ribadire d’essere vittima, per il coinvolgimento, che pure concede possa essere inconsapevole, di Gianni Letta. Dietro ci sarebbe un complotto dei suoi “nemici”: Italo Bocchino, Massimo D’Alema, Ferruccio De Bortoli, Luca Cordero di Montezemolo.
Anche se la mia ipotesi fosse errata, sarebbe verosimile un simile scenario? Per meglio dire: è più probabile che Silvio Berlusconi ritenga davvero credibile questo complotto ai suoi danni o invece è possibile che voglia offrircelo come spiegazione dell’enorme intreccio che coinvolge tanti fra i suoi uomini più fidati (Denis Verdini e Marcello Dell’Utri, innanzitutto, oltre Gianni Letta)? La domanda ha senso solo fino a un certo punto, perché si tratta di un uomo malato per il quale non c’è troppa differenza tra ciò che crede davvero e ciò che vuole far credere: la realtà, per Silvio Berlusconi, è ormai soltanto ciò che può tornargli utile ad accreditarsi, innanzitutto dinanzi a se stesso, come innocente. Meglio: come al di sopra di ogni responsabilità.
In questa fantasiosa versione dell’enorme intrico di malaffare al quale diamo il nome di P4, che con quella telefonata ci è suggestivamente offerta come se certificata dalla nuda buona fede, risuona l’eco della frase che l’anno scorso Silvio Berlusconi citò dai falsi diari di Benito Mussolini, per calzarla: “Dicono che ho potere, ma non è vero. Forse ce l’hanno i gerarchi, ma non lo so”. Se questa ipotesi è valida, “tra qualche mese me ne vado da questo paese di merda di cui sono nauseato” è frase che pretenderebbe di certificare la sua buona fede, e in tal caso possiamo esser certi che non se ne andrà.

giovedì 1 settembre 2011

Non si dica

Il contribuente è “moralmente autorizzato” all’evasione fiscale se lo Stato lo tassa per più del 33% di quello che guadagna, questo almeno è quanto sosteneva l’ometto che prometteva “meno tasse per tutti”, e che ora, dopo non essere riuscito ad abbassarle, pensa all’eventualità del carcere per chi le evada. Non si dica che è una merda, è peggio. 

Se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva


Con una notevole faccia tosta, essendo stato il plenipotenziario per Bettino Craxi nelle trattative tra Stato e Chiesa per la revisione del Concordato del 1984, Gennaro Acquaviva spreca l’occasione di star zitto e interviene nel dibattito che in questi ultimi giorni si è riaperto sull’8xmille, sua creatura, e ammette che, sì, “quella percentuale è troppo alta” e “andrebbe ridotta al 7xmille” (Corriere della Sera, 30.8.2011).
Solo la quota relativa ai contribuenti che nella loro dichiarazione dei redditi fanno specifico indirizzo dell’8xmille alla Chiesa cattolica è nota: è solo il 40%, e già fanno poco più di un miliardo di euro. A questa cifra bisogna aggiungere la quota parte del restante 60% dei contribuenti che omette ogni indicazione, e che per circa il 90% prende comunque la via del Vaticano. Parliamo di una cifra mostruosa, e poco più della metà è rubata con un trucco schifoso: Gennaro Acquaviva pensa che forse è il caso di alleggerirla di qualche centinaio di milioni. Non di più, per carità di Dio, perché “la Chiesa cattolica tiene letteralmente in piedi e unito il nostro Paese” e, “se si fermano i preti e le parrocchie, si ferma l’Italia”. E questo forse dà unidea di cosa debba intendersi con “socialista” quando si parla del Psi di Bettino Craxi.
Sì, vabbe’, concesso, e quando questa sforbiciatina? Boh, chissà, stando a quanto è stato stabilito nel 1984 grazie all’illuminata opera di Gennaro Acquaviva, “la prima mossa è in mano alla Cei”. Tutt’è che adesso la Cei recepisca il suo autorevole parere, vediamo se lo recepisce, può darsi che lo recepisca. Potremmo concordare in questo modo: se la Cei non recepisce il consiglio di Gennaro Acquaviva, sarà lui a recepire il nostro, che è quello di andare a fare in culo. 

mercoledì 31 agosto 2011

Te Deum


Fino alla scorsa settimana, muoveva critiche all’alleanza corsa in soccorso dei ribelli e premeva perché si aprissero trattative con Gheddafi, come nemmeno più Frattini. Era contro ai bombardamenti, come nemmeno più Calderoli: “Da quando sono iniziati abbiamo dovuto ridurre il numero delle funzioni religiose”, e poi: “Non è vero che le bombe siano destinate solo a Gheddafi e chi lo sostiene”, e ancora: “Invece di buttare bombe bisognerebbe aiutare la Libia ad avere un futuro”.
Come? Monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico a Tripoli, non doveva avere una risposta convincente, rompeva solo il cazzo, e lamentava: “Il mio appello è stato rigettato quasi con disprezzo”. Poi, oltre al disprezzo, qualcuno deve avergli fatto capire che era meglio se stava zitto, e deve averglielo fatto capire in modo assai convincente, perché con la scusa di aver bisogno di cure urgenti fuggiva in Italia e dall’Italia seguiva trepido le sorti del suo gregge.
Dall’Italia, mentre i bombardamenti stanavano Gheddafi dal suo bunker e lo costringevano alla fuga, le cose libiche mutavano di colpo prospettiva e Sua Eccellenza oggi sembra più sereno: “Sto finendo le cure e spero di rientrare presto a Tripoli, tra la mia gente”. Pronto ad officiare un bel Te Deum

[...]




martedì 30 agosto 2011

Tappeti persiani in puro acrilico


Il berlusconismo non è morto, basta guardare cosa è diventata la manovra finanziaria dopo il vertice di Arcore: i saldi dovrebbero rimanere invariati, i tempi dovrebbero essere rispettati, ma non si capisce come, si capisce solo che l’accordo accontenta gli interessi particolari di chiunque fosse in grado di farlo saltare facendo saltare il governo e mandando a picco la barca, e così si può dire che l’accordo c’è, ed è sul far finta che si troveranno 40-50 miliardi di euro senza aumentare l’Iva, senza toccare i redditi superiori a 90.000 o 200.000 euro, senza patrimoniale, senza tassare i beni di lusso, senza toccare i capitali scudati, senza far soffrire gli enti locali, senza toccare i privilegi di alcuna corporazione, mantenendo le agevolazioni fiscali di cui gode il Vaticano, senza aumentare le tasse sulle operazioni finanziarie, lasciando in pace i baby pensionati, strizzando un occhio a chi elude o evade, ma col solenne impegno a cambiare la Costituzione per abolire le Province.
L’Europa e i mercati avranno un annuncio, stamane, e suonerà trionfale al punto che per due o tre giorni potranno anche cascarci. Poi arriveranno le minacce da Bruxelles e gli speculatori capiranno che al morto è stato dato un velo di cipria. E allora ci sarà bisogno di un nuovo vertice di Arcore.
In questo il berlusconismo è ancora florido, e si tratta della sua vera anima, ben oltre il millantato dinamismo, l’esibito efficientismo, l’insistito esercizio di ottimismo, la pratica del ricatto e della lusinga, il vittimismo aggressivo, le leggi ad personam e le laute mance ai servi fedeli: durare per durare, vendendo tappeti persiani in puro acrilico.

Memento


Ora che possiamo ragionevolmente porre Muammar Gheddafi nella galleria dei dittatori del passato, occorre rammentare il convegno islamico-cristiano che promosse nel 1976 e la dichiarazione congiunta che firmò col rappresentante della Santa Sede, il cardinale Sergio Pignedoli, nella quale Gerusalemme era dichiarata “città araba” e gli israeliani erano definiti “occupanti”.

lunedì 29 agosto 2011

Allo stato attuale

Come era facilmente prevedibile, i privilegi del clero cattolico risultano intoccabili. Parte dell’opinione pubblica ha tentato di metterli in discussione, e non già per abolirli, ma solo per adeguarli alle difficili condizioni economiche del paese, senza trovare un solo esponente del ceto partitocratico disposto a farsene carico.
Dalle pagine di Avvenire, per voce di Angelino Alfano, il Pdl rinnova la stretta intesa con le gerarchie ecclesiastiche che Silvio Berlusconi aveva sigillato, all’indomani della sua vittoria elettorale del 2008, con una frase degna di passare alla storia: “Il Governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa”. Il sostegno che la Segreteria di Stato Vaticano e la Cei avevano dato al centrodestra nel corso della campagna elettorale era stato pieno, la maggioranza parlamentare della quale godeva il Presidente del Consiglio era solidissima, gli scandali riguardanti la sua vita privata erano ancora da venire, il “caso Boffo” non aveva ancora rotto l’incanto, la crisi economica internazionale sembrava volgere al termine e comunque la posizione dell’Italia sembrava relativamente solida, di là dai guasti strutturali di sempre. Di lì a poco, in una impressionante catena di eventi a lui sfavorevoli, Silvio Berlusconi si sarebbe trovato in serie difficoltà su molti fronti, il clero cattolico avrebbe cominciato a smarcarsi, ma il dovere del Governo di compiacere il Papa e la sua Chiesa non sarebbe mai venuto meno sulle questioni rilevanti: i privilegi del clero cattolico in pressoché ogni settore della vita pubblica venivano mantenuti, consolidati e, per quanto possibile, accresciuti.
Ben al di là della conferma di un impegno a salvaguardare gli interessi vaticani sul territorio italiano, Angelino Alfano fa sue (“toto corde”) le ragioni che il giornale dei vescovi ha opposto a quanti si sono limitati a chiedere se la Chiesa fosse disposta a fare la sua parte a fronte di una manovra finanziaria che dovrà far cassa per oltre 40 miliardi, con l’intento dichiarato di tagliare le aree di privilegio: “per attaccare la Chiesa si usano cifre fantasiose e si inventano privilegi che non esistono”, “le sue presunte ricchezze sono ricchezze dei poveri”, “si è usato l’arnese rugginoso di un concetto di uguaglianza fasullo”, a farlo erano stati i soliti “nichilisti professionisti, con la loro cultura della morte e dell’edonismo vuoto”.
Non diversamente è stato per il maggiore partito di opposizione. Alcuni ex democristiani hanno subito liquidato come provocatorie le richieste di una equiparazione fiscale tra gli immobili di proprietà ecclesiastica destinati ad attività di natura “non esclusivamente commerciale” (e qui, una volta per tutte, c’è da chiarire che, dove il clero cattolico intraprende, nulla ha dichiarato fine esclusivamente commerciale), e poi è ufficialmente intervenuto il segretario, Pierluigi Bersani, a dimostrare tutta la sua goffa malafede invitando “chi discute di Ici e Chiesa” a “farsi un giro nelle Caritas” (come se fossero in discussione le sedi della Caritas).
La Lega ha evitato addirittura di esprimersi, in tutte le sue componenti, e così l’Idv di Antonio Di Pietro e i comunisti di Nichi Vendola. Qualche sussurro incomprensibile del Terzo Polo, ma intuibile come di fastidio a faccenda oziosa. Unici a parlare, i Radicali italiani di Mario Staderini e i Socialisti di Riccardo Nencini, in tutto sei gatti, che, trovandosi, hanno pensato bene di sollevare l’attenzione anche sull’8xmille, altro problema senza soluzione.
In generale, possiamo concludere che il nostro ceto politico non riesce a considerare privilegi quelli che dal Concordato del 1929 ad oggi sono maturati in posizione di prerogativa della Chiesa nei confronti dello Stato. D’altro canto, la Chiesa li rivendica come diritti che ormai sono inestricabili da quelli relativi alla libertà di culto. Su questo punto trova sostegno in un ceto politico che, fatta eccezione per forze prossime all’irrilevanza, è complessivamente organico al sistema entro il quale Stato e Chiesa hanno ampie aree di comune interesse a trasformare la cittadinanza in sudditanza. Allo stato attuale, questo sistema è inattaccabile. Chi ha sollevato la questione dei privilegi della Chiesa non poteva aspettarsi che averne conferma, e poi nientaltro. 

sabato 27 agosto 2011

Teorema


ad A.C.,
sperando gli passi presto

Seguo da quasi due anni, deliziato dalla sua scrittura, la rubrica tenuta da Guia Soncini su D, l’inserto che la Repubblica manda in edicola ogni sabato. Può darsi che stia scontando la colpa del pregiudizio che mi impediva di valutarne appieno i meriti ai tempi in cui scriveva su Il Foglio, ma a me pare che si tratti di una scrittura di gran classe, strettamente imparentata a quella di Edmondo Berselli e a quella di Alberto Arbasino, ma quello di prima dell’Alzheimer. Insomma, la Soncini mi piace e trovo che l’idea di “scrivere di canzonette” per trattare una materia incandescente come quella dei rapporti tra i sessi sia felicemente realizzata nei suoi pezzi senza mai scadere nella maniera, rischio sempre incombente quando si parla di tutto ciò che sta d’attorno e dentro l’innamoramento e l’amore.
Rischio altrettanto grosso è nel trattare una materia mostruosamente complicata come quella dei testi delle “canzonette”, che sono tanto più riusciti quanto più sono ambigui, e che dunque sembrano fatti apposta per prendersi gioco delle passioni che in essi provano a specchiarsi, ma anche delle intelligenze che provano a individuarle come costanti. Anche qui la Soncini non delude, avvalendosi di una naturale ironia che non risparmia neppure l’adolescente che le si attarda dentro.

Molte volte avrei voluto intrattenermi su un pezzo della Soncini, sempre per lodarne lo stile, qualche volta per dirmi del tutto in disaccordo con certe sue azzardate intuizioni circa le miserie e le debolezze dei maschi. Non si possono negare, né giustificare, ma forse non meriterebbero di essere liquidate con la sbrigativa diagnostica della Soncini, per la quale – pare di capire – ogni maschio men che perfetto come il bello, buono e saggio Jovanotti o è un sadico o è un narcisista.
Non ho mai commentato una pagina della Soncini – e qui assumo la posa di quel fesso di Raz Degan nella réclame del Jägermeister – non so perché. Ma oggi che scrive di Marco Ferradini, facendosi crudelmente beffa dei “disturbati” e delle “disturbate” che rientrano nel suo Teorema, due righe vorrei scriverle. E vorrei dire che, sì, è vero, quella canzone è odiosa e idiota, e serve soltanto a consolare i maschi che, incapaci di stabilire un serio e maturo rapporto affettivo con una femmina, si rifugiano nell’illusione di non sapere amare se non troppo, e quasi certamente invece non sanno amare affatto se non la loro emaciata proiezione dell’eterno femminino. E però si tratta di poveracci che scontano la loro impotenza affettiva per aver avuto in sorte un ben preciso tipo di madre. E alla femmina torniamo. A quella femmina che alleva il maschio in una dimensione che è tanto più anaffettiva quanto più implica possesso, esercizio del ricatto, sadomasochismo emotivo. E da dove esce questo tipo di femmina che, se non sarà la fidanzata di Marco Ferradini, sarà la mamma?


 

“Ciò che conta è altro”



Il controllo al quale è sottoposto un blogger non ha paragoni con la libertà di scrivere cazzate della quale residualmente gode un professionista della carta stampata. È la natura democratica del web che è intervenuta a fare la differenza, per ciò che oggi è pubblicato in rete ma anche sulla carta stampata, perché in rete il rapporto tra chi scrive una cazzata e chi la contesta è diventato diretto, talvolta immediato, spesso franco fino alla brutalità, e direttamente coinvolge chiunque l’abbia già letta, o proprio in seguito alla contestazione giunga a leggerla. Questo spiega perché una cazzata scritta sulla carta stampata tendesse ad essere dimenticata, quando ancora il web non esisteva, anche quando fosse stata validamente contestata sulla stessa carta stampata, e anche quando avesse dato vita a una querelle, anche notevole. In parte era perché gli archivi  non erano così accessibili come Internet ha reso possibile, ma credo che la ragione sia soprattutto unaltra: tra quanti scrivevano e quanti leggevano esisteva un filtro che la blogosfera ha in gran parte rimosso, costringendo gli uni e gli altri a riqualificare i loro ruoli. È così venuta meno la rigidità che era imposta loro in passato, ibridizzando lettura e scrittura in dibattito, sottraendo a chi scrive, non importa dove, lautorità che spesso gli era attribuita dal mero fatto di essere pubblicato, e conferendo a chi legge, non importa se un testo pubblicato esclusivamente in rete o su un giornale, il diritto di contestarne il contenuto e perfino la forma. Si tratta di una rivoluzione della quale già avvertiamo gli effetti e penso non sia esagerato porla accanto a quella che si ebbe passando dal testo manoscritto a quello stampato.

Devo confessare che quanto ho scritto finora voleva introdurre un mio commento a un titolo che oggi ho letto su il Giornale, a pag. 2: “Penati «graziato»: per un cavillo del gip sfugge alle manette”. Avrei voluto far finta di aver letto questo titolo su un blog, per abusare della brutalità che merita un blogger intellettualmente  disonesto, e infatti avrei voluto rivelare che si trattava di un articolo scritto da un professionista della carta stampata solo a conclusione del post. Avrei contestato l’uso del termine graziato, anche se messo tra virgolette, ma soprattutto avrei contestato l’uso del termine cavillo per una prescrizione, che  «grazia» gli avversari politici e manda «assolto» chi ti paga lo stipendio. L’intenzione era quella di un post non più lungo di dieci righe: tre di premessa, quattro o cinque di biasimo, due o tre di mesta riflessione su quanto letame sarebbe piovuto addosso a un blogger che avesse osato titolare un post a quel modo. E però mi sono fatto prendere la mano, e la premessa mi si è allungata quasi quanto una prefazione a chissà cosa e, mentre scrivevo, perdevo di vista il Giornale: la mente correva al trauma che hanno dovuto subire, in questi ultimi anni, quanti fino a ieri godevano di quell’autorità che spesso era loro attribuita dal fatto stesso di essere pubblicati.

Alcuni l’hanno presa bene, anzi, hanno in pieno raccolto la sfida che è sempre implicita nel voler essere autorevole, e che costa pazienza, onestà e umiltà. Per altri è stata una tragedia alla quale hanno reagito istericamente, per lo più da aristocratici che avessero sorpreso dei villani a stappare bottiglie nellangolo più prezioso della loro cantina. Il trauma è stato tanto più doloroso per chi più aveva dellautorevolezza di una firma su un pezzo di carta stampata un’idea già in gran parte obsoleta prima dell’avvento di Internet, e così abbiamo visto che le reazioni più scomposte venivano non già da quanti facevano le notizie, che anzi erano generalmente sollecitati a far meglio il loro mestiere, costretti a non poter più contar troppo sulla credulità dei lettori, ma da quanti  facevanol’opinione. Tra questi ultimi, per motivi psicologici facilmente intuibili, i più risentiti sono stati gli ultimi arrivati a conquistare il pulpito cartaceo. La loro è stata la tragedia di chi aveva sempre reputato indiscutibile un’opinione che arriva ad essere stampata: incontestabile se non dai propri pari, cioè da chi potesse avere diversa opinione, ma la esprimesse da un altro pulpito cartaceo. Per costoro deve essere stato davvero duro fare i conti con la blogosfera.

Queste considerazioni mi erano suggerite dalla natura delle affermazioni che hanno caratterizzato laspetto più interessante delle missive che un tizio mi ha inviato a margine di una polemica che abbiamo consumato pubblicamente a partire dalla pubblicazione di alcune sue opinioni sull’embrione e su Kant. Su quanto fossero sgangherate, anche se a fatica, non ha potuto che convenire e tuttavia mi ha mosso un grave rimprovero e un severo monito. In breve, sfrondando il superfluo, dimostrare da queste pagine che aveva scritto cazzate non toglieva nulla alla sua autorevolezza. Averlo dimostrato, mi scriveva, le procura plausi sul web, dove nulla conta nulla, ma non sfiora i piani dove vengono prese le decisioni [sic!]: sì, conveniva, probabilmente aveva citato Kant a cazzo di cane, e aveva dimostrato di non sapere affatto cosa sia la meiosi, ma “questo non sposta di una virgola la mia vita, non solo perché essa è fondata su tanti oggettivi privilegi e si svolge, di fatto, fra tante bellissime cose, ma perché ciò che conta è altro.  Non gli ho chiesto cosa, mi è sembrato di poterlo intuire, e di non aver bisogno di conferma.  

giovedì 25 agosto 2011

Vorreste che la Chiesa paghi l’Ici per Casa Betania?

Vorreste che la Chiesa paghi l’Ici per Casa Betania? Ma siete pazzi? Casa Betania è uno degli immobili che la Diocesi di Grosseto destina all’attività ricettiva con modalità che potremmo definire “non esclusivamente commerciale”. Ha entrate, questo sì, ma per la pia opera di accoglienza di persone bisognose. Per meglio dire, ha una convenzione col Comune.
Come l’abbia ottenuta, non è il caso di star troppo a strologare, perché in fondo, da sempre, la Chiesa è samaritana, e dunque è naturale che si abbia un occhio di riguardo per lei. Peraltro, il costo della convenzione deve essere stato pure conveniente per il Comune, perché un ente che gode di agevolazioni fiscali è sempre assai competitivo rispetto ai concorrenti.
Tutto in ordine, dunque, per Casa Betania, per il Comune di Grosseto e per le sei famiglie di immigrati che vi erano ospitate fino a due mesi fa. Poi, si sa come sia subdolo il Maligno, capita che le difficoltà economiche del Comune rendano biblici i ritardi nel pagamento della convenzione. Samaritana, sì, ma fino a un certo punto, allora la Diocesi sfratta le sei famiglie. D’altra parte, Casa Betania era nata come “casa per ferie” e a quell’uso può tornare. Ferie pie, naturalmente, in ossequio al fine non esclusivamente commerciale di far cassa.
Tutto bene, potremmo dire. D’altra parte, tutti i giorni la Chiesa sfratta gli insolventi da immobili di sua proprietà, anzi, ci riesce pure meglio di quanto riesca ai proprietari di immobili profani: non manca mai chi ne abbia più bisogno degli sfrattati, e in più possa anche pagare. Sarebbe stato naturale, dunque, che lo sfratto delle sei famiglie rimanesse cosa poco degna d’interesse. Se non fosse che, sfrattata e costretta a dormire in auto per qualche settimana, una gravida abbia avuto un distacco di placenta e il feto di otto mesi sia morto. Cose che succedono, e poi vai a dimostrarlo, il nesso, tra sfratto e feto morto. Tuttavia si sa come sia subdolo il Maligno e come siano stronzi i laicisti, sicché scoppia il caso.

Sia chiaro che tutto ciò che ho fin qui riportato è tratto tutto da stampa laicista, cioè tendenzialmente anticristiana e anticattolica, e allora è necessario mettere il giusto contrappeso sull’altro piatto della bilancia. Niente di meglio della lettera aperta che monsignor Franco Agostinelli, vescovo di Grosseto, ha inviato a un giornale locale a illustrare le ragioni della proprietà. È la voce del padrone, insomma, ed è giusto darle ascolto.
“Davanti ad una vita che si spegne – scrive Sua Eccellenza – nulla può lasciar tranquilla la nostra coscienza, né i 50.000 pasti distribuiti ogni anno grazie alla dedizione dei volontari della Caritas, né la distribuzione di vestiario e pacchi di generi alimentari, né i contributi di un Fondo di Solidarietà per le famiglie che, intervenuto a fronte di una prima serie di istanze, ora va completando una seconda fase di contributi a famiglie in difficoltà, né gli appartamenti tenuti a disposizione dell’emergenza abitativa, né il progetto per i lavori, in attesa del permesso comunale, prossimi alla fase operativa per la realizzazione di appartamenti da destinare all’emergenza in via Emilia. Neppure la volontà dell’acquisto di un terreno in zona villa Pizzetti destinato alla costruzione di un centro di accoglienza, né l’ospitalità offerta ai migranti; niente di tutto questo può in nessun caso assolverci per aver assistito, senza trovare soluzione adeguata, alla situazione della famiglia egiziana sfrattata da una nostra struttura e che oggi ci chiede conto di quel figlio che non nascerà”.
“Nulla può lasciare tranquilla la nostra coscienza”, scrive, ma si sa che, da un certo grado in su, i preti usano il plurale maiestatis: Sua Eccellenza sta parlando della sua coscienza, e cerca di tranquillizzarla, pubblicamente, con l’elenco delle tante altre buone azioni che finora non hanno fatto il morto, sicché il morto risulta effetto collaterale di una carità indefessa.
Sua Eccellenza è dispiaciuto, insomma, però diagonalmente chiede: “Ehi, ma che cazzo volete? Con tutta la beneficenza che faccio, starete mica a fare tante storie per un morticino, per giunta egiziano?”. Infatti, come avete visto, la nazionalità del feto morto è ben messa in vista: io avevo dimenticato di dire che la famiglia sfrattata fosse egiziana, lo ritenevo superfluo, meno male che Sua Eccellenza è precisissimo.

“Prima di ogni altro cittadino, ogni singolo operatore della Caritas, della Diocesi, delle parrocchie, impegnato in un lavoro giornaliero, dove l’assenza di risorse e la sempre maggiore richiesta di aiuto rende ogni giorno più forte la sensazione di impotenza, si sente oggi lacerato da quel Vangelo che non ci ha reso esenti dal peccato e dall’errore. Ogni spiegazione razionale diventa quasi ridicola”.
Questa sembrerebbe un’ammissione di colpevolezza, fatta apposta per accreditare le accuse che appunto sono piovute addosso a Sua Eccellenza, perfino da qualche parroco di Grosseto, anche se solo sussurrate. E dunque ogni spiegazione razionale di quanto è accaduto sarebbe ridicola, ma Sua Eccellenza non ci rinuncia: “Possiamo dire che non si trattava di sfratto; possiamo ricordare che alla suddetta famiglia erano state offerte, nel passato recente, soluzioni abitative, puntualmente rifiutate; spiegare che come Diocesi non abbiamo il controllo diretto della gestione della struttura; sostenere che quello che potevamo fare, non poteva essere adeguato a dare una soluzione accettabile al problema; tutto può apparire come un tentativo di attribuire le responsabilità agli altri, in uno stile che purtroppo nell’epoca in cui siamo chiamati ad operare ci è fin troppo familiare. Ma che non vuole e non può essere il nostro modo di servire le necessità della nostra città e della nostra gente. E non solo per questa ultima tragedia , ma per tutte quelle tragedie che non siamo capaci di evitare e ogni volta ci lasciano a fare i conti con il nostro senso di impotenza a sovvenire alle umane necessità”.
“Umane necessità” della famiglia di profughi egiziani, certo, ma anche della Chiesa a far cassa, ed ecco cristianamente uniti nella stessa sofferente famiglia umana chi ha sfrattato e chi è stato sfrattato.

Questo ha di bello il cristianesimo, soprattutto nella versione romana: accomuna gli innocenti e i pezzi di merda. Perché in fondo siam tutti peccatori, feti compresi, e tutti in fondo degni della misericordia di Dio. Soprattutto Sua Eccellenza, che peraltro dichiara la “consapevolezza delle proprie responsabilità”, ma fa presente  che tutti i giorni ha da “fare i conti con i propri limiti e con il dolore di non poter intuire tutte le emergenze”.
E qui ecco il colpo di genio: “Credo che sia doveroso che il Comune e la Chiesa pensino a queste persone. Non possiamo sopportare che di fronte ad emergenze si ricorra sempre alla Chiesa e magari così tacitare la propria coscienza di borghesi benpensanti (al di là dello schieramento politico!), pronti subito a scaricare ogni responsabilità su di essa ed esporla al pubblico ludibrio, quando siamo di fronte a questi fallimenti. Non posso inoltre accettare lezioni da parte di chi non gli è mai fregato di niente né del Vangelo, né della Chiesa e che oggi pone la retorica domanda (per lui, non per me): dov’è finita la carità?”. Il Comune è chiamato in correità dinanzi a Dio e l’opinione pubblica si faccia i cazzi propri, perché non ha diritto di sollevare alcun problema, tanto meno quello, tutto retorico, della fedeltà al Vangelo da parte della Chiesa.
“Lunedì ci sarà il primo consiglio comunale del nuovo mandato – conclude monsignor Agostinelli – e mi aspetto l’assunzione di un impegno concreto su questa emergenza, il reperimento di nuove risorse e una rinnovata volontà di lavorare insieme…”. Insomma, trovate il denaro per pagare Casa Betania.

[un grazie a Lector per la segnalazione]

 

mercoledì 24 agosto 2011

Non si trova, cazzo, non si trova!


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Samuele e Bersani

Samuele Siani ha scritto una lettera a Pierluigi Bersani nella quale gli esprime il suo sconcerto e la sua rabbia per la posizione ufficialmente assunta dal partito in merito ai privilegi di cui gode il Vaticano in Italia, che in pratica sarebbero intoccabili, almeno a detta dello stesso segretario nel corso della conferenza stampa nella quale è stata esposta la controfinanziaria del Pd. Bella lettera, senza dubbio, della quale sarà il caso di riportare la chiusa: Se questa è la linea del partito, ha perso non solo un tesserato – che è inezia, comprendo – ma una vera opportunità di fare giustizia in un sistema marcio di privilegi, caste, parassiti, che sta sempre più dissanguando il nostro già esangue Paese”.
Non resta che attendere una risposta, se ci sarà.  In ogni caso, a naso, direi sia più probabile un Pd con un iscritto in meno, a breve, che un Bersani disposto a farsi inculare a sangue dalla Cei, a lungo.


Soldi e potere nel nome del “fatto cristiano”

Se Dio c’è, se si è incarnato in Cristo, se la Chiesa è il Cristo vivente, se i preti ne sono i ministri e il laicato cattolico è il popolo di Dio, tutti i traffici della Compagnia delle Opere sono in regime di apostolato e la sua rete, già da tempo multinazionale, qualcosa in più di una lobby e poco meno di una mafia, non è altro che una falange della mano di Dio nel campo della politica e degli affari.
Voglio dire che non c’è alcuna rottura tra la predicazione di don Luigi Giussani e l’impero economico dai mille tentacoli al quale i suoi ragazzi hanno dato vita: la piovra potrà avere un brutto aspetto, ma è proprio quella pensata dal pretino di Desio ne All’origine della pretesa cristiana. Lì non si entrava nel dettaglio, ma c’era già tutto, anche l’incoraggiamento a non temere più di tanto la magistratura inquirente. Con un giro di affari di oltre 80 miliardi di euro, a Dio gli fai un baffo.
Affermare, dunque, che don Giussani si rivolterebbe nella tomba a sapere dei traffici di Comunione e liberazione è l’ennesima cazzata di Marco Pannella, che continua ad esser vittima, come lo è sempre stato, dell’idea che la sete di denaro e la fame di potere siano solo degenerazioni dell’attivismo sociale cristiano, che a occhi aperti non smette di sognare di poter conquistare alla sua eresia. Non è così, non lo è mai stato, e figurarsi un don Giussani candido e un Formigoni o un Vittadini lerci è un errore teologico prima che politico.
Assai più acuto lo sguardo di Marco Politi nel suo articolo su Il Fatto Quotidiano di martedì 23 agosto (Soldi e potere nel nome del “fatto cristiano”): a questo robusto esoscheletro finanziario e mediatico, a questa macchina che è metà holding e metà setta, “don Giussani dall’aldilà non può che guardare con orgoglio”.


martedì 23 agosto 2011

Spigolature


La manipolazione di una foto è oggi ormai alla portata di tutti, e con risultati anche eccellenti. Tuttavia, per quanto buona sia la manipolazione, della foto originale rimarranno sempre elementi che la faranno riconoscere come base di partenza. Bene, per quanto riguarda la foto che ritrarrebbe Gheddafi morto, tolti gli occhi e la bocca che sono stati pesantemente ritoccati, non c’è ruga del volto e del collo, né piega dell’acconciatura o stacco del colletto, che non corrisponda in piena sovrapposizione ad una posa scattata al dittatore in una delle sue visite a Roma. Che la foto di Gheddafi morto fosse un falso era molto probabile, ma trovarne una che lo raffigura vivo con tante e tali corrispondenze lo rende pressoché certo.

Quasi a bruciapelo

Ogni definizione di verità è una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si va dalla tautologia dichiarata tale col definirla “l’essere vero” (De Mauro) o “ciò che è vero” (Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente funzione di sinonimo, per più con realtà, e allora la verità diventa la “aderenza alla realtà” (Palazzi) o la “rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva” (Devoto-Oli) o, ancora, la “conformità a una realtà obiettiva” (Treccani), dove questa realtà rimanda inevitabilmente al vero, in quanto “qualità e condizione di ciò che è veramente” (Palazzi).
Quando dal tentare di definire la verità si passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose non vanno meglio, perché “non c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di vista della verità continuano ad essere discussi” (Wikipedia), e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che risulta inservibile in un altro. Si prenda, per esempio, il significato di verità per un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’essere e in pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo. Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel, per il quale non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di verità darà un logico come Frege, secondo il quale il vero è categoria illusoria.
Non va meglio neppure trasferendo interamente il vero al reale, per tenercelo, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il vero al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, tutto illusorio.
A tal riguardo c’è chi ha fatto una proposta ragionevole: Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo sempre la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta dovrebbe essere la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ciascuno”. Un fanatico gli ha sparato in pieno petto, quasi a bruciapelo.