sabato 10 dicembre 2011
giovedì 8 dicembre 2011
E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi
A un’Italia che è soffocata dal debito pubblico, stremata dalla crisi economica, dissanguata dai tagli alla spesa sociale, massacrata dalle tasse, la Chiesa costa più di 6 miliardi di euro ogni anno, anzi, secondo l’analisi più accurata, dettagliata e aggiornata che abbiamo a disposizione (qui), ne costa 6.086.565.703. Roba che va ai poveri, si dice, ma basta scorrere le voci di entrata per capire che non è così: ai poveri va solo il 20% dell’8xmille (la Cei rendeva noto qualche mese fa che, dei 1.067.032.535 euro incassati nel 2010, 450.000.000 erano destinati alle esigenze di culto, 357.000.000 al sostentamento del clero, 30.000 venivano accantonati e solo 230.000.000 spesi in “interventi caritativi”), in pratica meno del 4% degli oltre 6 miliardi complessivi, due soldi spesi per riempire un pentolone di minestra dal quale la Chiesa versa due mestoli di carità, pretendendo che le valgano una buona reputazione. Checché Mario Tarquini starnazzi e ristarnazzi dalla prima pagina di Avvenire, questo è il “non profit” al quale lo Stato dovrebbe un occhio di riguardo. Può risparmiarsi tutto quel “qua-qua”, questo governo non toglierà un centesimo alla Chiesa. E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi, perché non è possibile provare che, se non avessero leccato il culo ai preti per una vita intera, Ornaghi e Riccardi non sarebbero ministri.
mercoledì 7 dicembre 2011
Eppure un crocifisso
Un’idea del perché non manchi mai un crocifisso nel covo di un boss, io ce l’ho, ma quale sia non ha importanza, rinuncio a esprimerla, anzi, vorrei far mia la spiegazione, anche la meno convincente, di un chierico autorevole, un Fisichella o un Ravasi, oppure, in loro vece, di un vibratile Rondoni, di un ardente Socci, di un sottilissimo Pera, uno di quelli, insomma, che a un crocifisso appeso su un muro sono sempre capaci di dare il giusto significato, quasi sempre con grande generosità di aggettivi e avverbi. Il fatto è che, in occasioni come queste, non vola mai una mosca. Eppure un crocifisso sempre un crocifisso è, o no?
Carissimo
Quando non è pagato in nero (solitamente nella misura del 30-50%, come emerge dai casi che arrivano all’attenzione della Guardia di Finanza), in Italia il costo del fitto di un immobile ad uso abitativo è in media più alto che nel resto d’Europa di un 15-25%. Sarà che, a parità di categoria, le case italiane sono tutte più belle di quelle europee o che in Italia il mercato delle case in affitto è drogato, ma 50 metri quadrati al centro di Roma, di Venezia o di Milano costano al mese almeno il doppio di quanto costano al centro di Berlino, di Amsterdam o Madrid, il 60-80% in più di quanto costano al centro di Parigi, il 15-30% in più di quanto costano nei migliori quartieri di Londra, e la proporzione si mantiene tale anche quando l’immobile non è ubicato in zone centrali, ma in centri con più bassa densità abitativa o in provincia. Fitti più alti che in Italia li troviamo solo fuori dalla Comunità europea (Tokio, Singapore, Montecarlo, ecc.).
La ragione sta nel fatto che l’edilizia pubblica non ha mai avuto in Italia uno sviluppo analogo a quelli di altri paesi europei, dove gli immobili di proprietà pubblica dati in affitto a privati sono il doppio (Olanda e Francia) o addirittura il triplo (Germania e Spagna) di quel 18,9% che in Italia abbiamo sul totale. Il 74% degli italiani vive in case di proprietà e ogni 100 nuclei familiari abbiamo 136 case. La corsa alla casa di proprietà è stata, insieme, causa ed effetto delle scarse energie impegnate nell’edilizia pubblica rispetto agli paesi europei, da sempre, fino al sostanziale disimpegno, dagli anni ’80 ad oggi. D’altro canto, col vertiginoso aumento del prezzo di un affitto, diventava conveniente l’acquisto di una casa con l’accensione di un mutuo: quante volte abbiamo sentito dire “con quello che pago di affitto accendo un mutuo e almeno mi ritrovo una casa di proprietà”? Calcolo ragionevole, se non fosse che la rata mensile di un mutuo è in media del 30-80% più alta del costo dell’affitto di un immobile di pari qualità, e impegna per alcuni decenni.
Non è iniziato negli ultimi decenni, ma col fascismo. Già nell’Italia post-giolittiana si era avuto un decisivo indebolimento del credito fondiario in favore del credito immobiliare urbano, grazie alla massiccio inurbamento avutosi dopo la Prima guerra mondiale. Da gran calmieratore delle tensioni che sarebbero state inevitabili nello snodarsi di tale processo, il fascismo si fece attivo propugnatore dell’ideale di una casa di proprietà come bene vitale per la famiglia, oltre che di enorme vantaggio per la società come garanzia di stabilità dei modelli di relazione: le sanguinose lotte popolari per la casa diventarono presto un ricordo del passato creando un circolo virtuoso tra impresa edile, banca e privato, col passaggio dall’affitto alla vendita tramite mutuo. È il modello che sarà adottato in pieno nel secondo dopoguerra, con l’azione dei governi a guida democristiana che sosterranno il blocco di potere bancario-assicurativo e immobiliare-edilizio per costruire l’archetipo del cittadino ed elettore proprietario della casa in cui vive, come più solida garanzia di uno stabile assetto culturale e politico attorno ai valori della conservazione. La casa di proprietà diventava possibile, ma al costo di un adeguamento all’unico standard di vita che la rendeva tale e che imponeva pure un certo modo di concepire la famiglia e le relazioni tra generazioni, il lavoro e il profitto, il credito e il debito. In altri termini, la casa diventava un bene accessibile praticamente a tutti, ma a patto di starci dentro da fedeli esecutori di un mandato culturale e politico.
La casa di proprietà, che prima del fascismo era prerogativa dell’11% degli italiani, lo divenne nella misura del 26% del 1938, del 40% del 1960, del 50% del 1970, fino all’odierno 74%. Quando Silvio Berlusconi vantava la solidità del nostro sistema citando appunto questo famoso 74% di possessori di case, dimenticava di dire che oltre il 90% di essi ha più di 50 anni, che in oltre il 20% dei casi si tratta di abitazioni sulle quali è ancora acceso un mutuo, che più del 65% dei casi si tratta di abitazioni più vecchie di 40 anni. Un valore complessivo che per il solo settore residenziale ammonta al 400% del Pil, ma che per un quarto è in mano al solo 10% dei proprietari. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di abitazioni dal valore sovrastimato per un mercato che da tempo ha perso ogni regola, basti pensare al fatto la grandezza media di una casa è di 62 metri quadrati (52 in città, poco meno di 80 fuori dalle aree urbane a più alta densità), con un prezzo medio di oltre 180.000 euro. Difficile dire di cosa sia ricco, in media, chi abita una casa di proprietà rispetto a chi potrebbe abitarne una in affitto, se la corsa alla casa di proprietà non avesse fatto impazzire anche il mercato dei fitti. Di certo c’è solo che la rincorsa al modello della casa di proprietà ha portato una gran parte degli italiani alla dipendenza dal blocco di potere bancario, con quanto ne deriva sul piano del condizionamento della vita economica, sociale e politica. Né si può dire che tale modello sia mai stato in grado di metterci al riparo dalle emergenze in ambito abitativo, soprattutto da quando l’opzione del tasso variabile ha cominciato a illudere i più sprovveduti. “Con quello che pago di mutuo e di tasse sul possesso non mi converrebbe abitare in affitto?”: non lo sentiamo dire, perché la casa di proprietà è diventata un bene che va al di là del suo valore, ma soprattutto perché i fitti rimangono alti ed è difficile possano scendere. E tuttavia, facendo uno sforzo per liberarci dal luogo comune che traslocare è un po’ morire, sarebbe poi tanto più povera un’Italia nella quale i possessori di case fossero solo il 55% come in Germania o il 40% come nel Regno Unito? Lasciate stare, non provate a liberarvi del luogo comune: continuate a fare una vita di stenti per poter avere 50 metri quadrati tutti vostri. Ma non lamentatevi se chi fa una manovra finanziaria basata più sulla tassazione che sui tagli debba giocoforza reintrodurre l’Ici sulla prima casa: volevate una patrimoniale, era indispensabile, e questa è una patrimoniale. D’altra parte, lo sappiamo, detassare la prima casa era cosa possibile solo nel lucido delirio di un demagogo.
L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, infatti, è il più illuminante esempio di cosa sia stato il populismo berlusconiano, perché ne condensa i fini e i mezzi meglio di ogni altra sua espressione. Con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, Silvio Berlusconi è arrivato alla pancia di quel 74% di italiani che vivono in una casa di proprietà, per dir loro che quel bene diventava formalmente intangibile, inviolabile, sacro, sicuro di trovare pieno consenso, anche quando non dichiarato: un’operazione della quale ha scaricato gli oneri sui Comuni e quindi sugli stessi contribuenti che sulla carta venivano a godere della detassazione, ma incassando almeno sul piano umorale, che non è mai poco, un credito di riconoscenza trasversale e di notevole ampiezza, ben oltre ogni calcolo di convenienza reale. Quanto agli italiani veniva risparmiato con l’abolizione dell’Ici veniva tolto loro in altro modo, questo era evidente a tutti, ma l’esattore non era più lo Stato, che da sempre in Italia, e quasi mai a torto, è considerato un mostro odioso. Ciò che più conta, inoltre, veniva detassato almeno formalmente il simbolo vivo della fatica del lavoro e degli affetti della famiglia, cifra esistenziale ancor prima che economica. In ciò, con mirabile circolarità di coincidenze, il berlusconismo ha dato il tocco finale a quanto aveva avuto avvio col fascismo, ma con una parodia di liberismo, e soprattutto con un occhio di riguardo a uno dei luoghi comuni più cari agli italiani. Carissimo in tutti in sensi.
lunedì 5 dicembre 2011
Stasera, che sera
Stasera, che sera. Fiorello, Benigni e Baudo, e tutti insieme. Fremo nell’attesa, chissà cosa combineranno. Fiorello e Benigni strizzeranno una palla di Baudo cadauno o sarà Baudo che strizzerà le palle a entrambi?
domenica 4 dicembre 2011
Benedetto Croce puzza
Mi arriva una lunga lettera (11.093 battute) da un tale che mi dà il permesso di citarne i passi ch’io possa ritenere utile riportare nella risposta, alla quale pare non aver dubbio io sia tenuto, d’ufficio, e che mi dice di preferire sia pubblica, pregandomi però di non rivelare il suo nome, senza darmene esplicita ragione, ma dandola per scontata, e per giunta valida. Dinanzi a una richiesta del genere sarei tentato di cestinare la lettera senza nemmeno due righe di risposta in privato, sennò con un brusco diniego, tanto più che l’argomento sul quale mi si invita alla riflessione è noiosissimo, ma si tratta – questo mi piglio il diritto di rivelarlo perché non me ne è fatto chiaro divieto – di un militante radicale, e la lettera riapre, da un verso che non era mai stato sollevato, una questione che ritenevo chiusa. In breve – con ciò sintetizzando in poche righe più dei due terzi di ciò che *** mi scrive – i motivi che mi avrebbero portato all’abbandono della setta pannelliana sarebbero, tutti in uno, nel fatto ch’io non sarei un liberale comme il faut: in altri termini, non sarei un buon crociano. Se non fosse traballante nella premessa – che cioè crociano e liberale siano concetti perfettamente sovrapponibili – la tesi avrebbe un certo interesse, perché il liberalismo della setta pannelliana deve senza dubbio molto a Benedetto Croce. Più a Benedetto Croce che qualsiasi altro pensatore che a torto o a ragione sia considerato liberale. Più a Benedetto Croce, per esempio, che a Luigi Einaudi. Il fatto è ch’io non ritengo Benedetto Croce un liberale, ma un neo-idealista, e che con lui venga fatto lo stesso errore che vien fatto con Jean-Jacques Rousseau, quando vien detto illuminista invece che pre-romantico, o con Karl Marx, che passa per marxista e invece era marxiano.
So bene, caro ***, che l’affermazione ti suonerà stridula, ma il fatto che Benedetto Croce sia definito liberale in ogni garzantina e in ogni bignamino sarà prova del fatto che fondò il Partito Liberale Italiano, e su questo non ci piove, non già che il suo pensiero possa dirsi liberale. Non propriamente, almeno. Per dirla in due parole, direi che Benedetto Croce è più hegeliano che kantiano. Ma direi anche di più: molte posizioni politiche del nostro furono compatibili con quelle di altri liberali italiani, ma rimangono espressione di quei limiti che il liberalismo italiano ha mostrato verso la storia e che ne hanno decretato il fallimento. Potrei essere ancora più rozzo: Benedetto Croce è uno dei responsabili del fallimento del liberalismo in Italia, insieme ai tanti liberali che come lui hanno tradito la lezione del liberalismo di scuola anglosassone, mettendo la persona al posto dell’individuo e sporcando di metafisica il concetto di libertà. Ancora più rozzamente, quasi bestialmente: io non ritengo possibile dare la qualifica di liberale a chi non abbia l’immanentismo per Stella Polare.
Sì, caro ***, Benedetto Croce è un idealista e la mia critica al suo pensiero risente pesantemente di quella che gli venne da Antonio Gramsci, lo riconosco. Ora, sì, l’idealismo dichiara l’uomo creatore della propria storia, ma rinchiude le sue potenzialità nell’ambito del pensiero, sicché a fare la storia non è lui, ma qualcosa che sopra di lui: Io trascendente, Idea, Ragione, Natura, tutta roba con la maiuscola. La libertà dell’idealista è teoretica e costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, che insieme all’intuizione sarebbe espressione di uno Spirito. Un’altra maiuscola, un’altra scoreggia metafisica.
Benedetto Croce è il filosofo di una borghesia che ormai non ha più niente da dire e che soprattutto non sa trovare nessuna risposta credibile al proletariato. Io ritengo che non sia un caso che il nostro diventi schietto antifascista solo dopo il 1924 e che prima, come tanti, abbia pensato che il fascismo fosse buono almeno a mettere un argine al pericolo rosso. Come i preti, che però lo pensarono almeno fino al 1938. Poi ci sarebbe il fatto che nel 1946 il nostro votò per la monarchia… ma sono già pentito di essermi spinto fin qui e chiudo dicendo che Benedetto Croce puzza.
venerdì 2 dicembre 2011
Eminenza, io tifo per lei
Una volta scrive che l’ha presa “da uno dei racconti del suo libro La caduta” (Avvenire, 29.8.2002) e un’altra che l’ha “tratta dal romanzo La caduta” (Parola & parole, 2.12.2011). Passi che La caduta non sia né una raccolta di racconti, né un romanzo, ma Sua Eminenza ha poi letto il récit di Albert Camus? E come l’ha letto? La citazione che piglia a occasione per le sue due riflessioni sul martirio, che poi sono l’una la scopiazzatura dell’altra, è riportata in entrambi i casi come segue: “Martiri, amici miei, dovete scegliere fra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto a essere capiti: questo mai”. Il fatto è Albert Camus scrive:
“Mariti”, non “martiri”: lei cita a cazzo di cane, Eminenza. Dovesse diventare papa, c’è da divertirsi. Io tifo per lei.
[...]
Chiedo scusa, Eminenza, ho dato affidamento a una versione infedele (Bompiani, 2000), stavolta ha ragione lei: “ Les martyrs, cher ami, doivent choisir d’être oubliés, raillés ou utilisés. Quant à être compris, jamais”.
[...]
Chiedo scusa, Eminenza, ho dato affidamento a una versione infedele (Bompiani, 2000), stavolta ha ragione lei: “ Les martyrs, cher ami, doivent choisir d’être oubliés, raillés ou utilisés. Quant à être compris, jamais”.
giovedì 1 dicembre 2011
“Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”
Qualche giorno fa, tra due detti di Gesù che possono sembrare in apparente contraddizione per come sono riportati in Marco (9, 40) e in Matteo (12, 30)/Luca (11, 23), il cardinal Ravasi ci consigliava di optare per la versione marciana, perché “quello di Marco è il Vangelo più antico e la fonte degli altri due Sinottici, Matteo e Luca”, e spiegava che “la nuova redazione matteana e lucana di quella frase [sia da intendere] come espressione di una Chiesa delle origini «gelosa del principio di ortodossia»”. A me sembra di aver dimostrato (qui) che i due detti non sono affatto in contraddizione e tuttavia, se lo fossero sulla base di quanto afferma Sua Eminenza, sarebbe cosa assai grave: ci costringerebbe a leggere tutto ciò che è riportato in Matteo e in Luca, e che è in contraddizione con quanto è riportato in Marco, come stravolgimento dell’originale messaggio evangelico avvenuto in epoca assai precoce, ma comunque finalizzato alla costruzione di una dottrina non fedele al senso della fonte primigenia.
Di fronte all’episodio del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista, per esempio, dovremmo ritenere genuina la versione di Marco, che nel Codex Bezae, fonte più antica del testo, mette in bocca a Dio la frase: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”; e ritenere infedeli le versioni di Matteo (“Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) e di Luca (“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). Sarebbe una tragedia per la dottrina della Trinità, perché si dovrebbe dar ragione agli adozionisti, che negano la natura divina di Gesù, ritenendo che Dio si sia limitato ad “adottarlo”, e proprio in occasione del battesimo sulle rive del Giordano: “oggi ti ho generato” sarebbe la prova che Gesù non è stato generato prima di tutti i tempi, ma sarebbe anche la rovina di due o tre dogmi.
Di fronte all’episodio del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista, per esempio, dovremmo ritenere genuina la versione di Marco, che nel Codex Bezae, fonte più antica del testo, mette in bocca a Dio la frase: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”; e ritenere infedeli le versioni di Matteo (“Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) e di Luca (“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). Sarebbe una tragedia per la dottrina della Trinità, perché si dovrebbe dar ragione agli adozionisti, che negano la natura divina di Gesù, ritenendo che Dio si sia limitato ad “adottarlo”, e proprio in occasione del battesimo sulle rive del Giordano: “oggi ti ho generato” sarebbe la prova che Gesù non è stato generato prima di tutti i tempi, ma sarebbe anche la rovina di due o tre dogmi.
[...]
Poco fa, da Santoro, a Brunetta è scappato: “Mi batterò come un sol uomo…”. È espressione che sta a intendere solidità di intento e di azione di una pluralità di soggetti (noi, voi, essi). Qui, con un soggetto al singolare (io), la frase non può che stare a intendere: “Mi batterò come se fossi un uomo tutto intero…”. Poi si lamenta che lo sfottono per la sua statura, Brunetta.
mercoledì 30 novembre 2011
Questo è tutto
Quasi tutti critici, anche aspramente critici, i commenti al post qui sotto. Due, i rimproveri: la morte di Lucio Magri imporrebbe un rispettoso silenzio; men che meno consentirebbe occasione di riflessione sulle idee che egli ha sostenuto quando era in vita. Non è la prima volta che mi becco l’accusa di essere irritante nel parlare di un morto come se fosse ancora in vita, infrangendo la regola del «nil nisi bonum de mortuiis», e non di rado è accaduto che l’accusa sia arrivata al biasimo, anche assai severo, come in questo caso. Mi spetta dar qualche spiegazione, è evidente.
In primo luogo, io non ritengo che un morto sia al di sopra di ogni critica, soprattutto quando si tratta di chi in vita abbia legato il proprio nome a questioni di interesse pubblico. Lucio Magri ha legato il suo a molte di queste questioni, non ultime quelle riguardanti il “personale”, che insieme a tanti esponenti della sinistra italiana riteneva fosse sempre “politico”. Impossibile ritenere la sua morte un fatto esclusivamente privato, dunque, e d’altra parte anche chi gli è stato vicino per decenni ha dichiarato che il suo gesto estremo deve essere considerato come la sua ultima azione militante.
Come me, come tanti, Lucio Magri riteneva che un individuo abbia diritto di mettere fine ai propri giorni quando la vita gli paia insostenibile, e che abbia diritto di essere aiutato a morire in modo degno quando non possa provvedervi personalmente. Considero pienamente legittima la sua decisione e nel mio post qui sotto non l’ho assolutamente messa in discussione. Mi sono limitato a scrivere che, trovandosi nell’impossibilità di darvi realizzazione in Italia, dove le leggi non lo consentono, ha deciso di andare a morire in Svizzera: la ritengo una scelta legittima, come nel caso di chi sia costretto ad andare in Spagna per sottoporsi ad una fecondazione assistita eterologa. Ho solo fatto presente che «Lucio Magri ci ha scassato la minchia per oltre mezzo secolo sui diritti negati ai poveracci, ai quali desiderava addirittura assicurare un paradiso in terra, ma poi, quando si è trovato dinanzi all’ostacolo di uno di quei diritti negati, ha pensato bene di scavalcarlo grazie ai mezzi che aveva a disposizione, lasciandolo inscavalcabile a chi non ne abbia»; e gli ho contrapposto la scelta di Piergiorgio Welby, che si è speso perché il diritto di morire in modo degno fosse assicurato non solo a lui, ma a tutti.
Le obiezioni sono piovute come sassi. Innanzitutto, mi è stato fatto presente che Lucio Magri soffrisse di una forma di depressione tanto grave da impedirgli ogni volontà e che non fosse congruo il raffronto col caso di Piergiorgio Welby. Non ho modo di smentire questa affermazione, ma mi risulta che egli abbia provveduto di persona alla preparazione del suicidio assistito, recandosi almeno due volte in Svizzera e disponendo in modo minuzioso i dettagli. Se era depresso, non si trattava di una depressione tanto paralizzante da impedirgli di lasciare almeno una lettera aperta agli italiani: la denuncia di un sistema legislativo che nega all’individuo una scelta che egli riteneva evidentemente legittima, consentendola solo a chi abbia i mezzi per attuarla all’estero, sarebbe stato il minimo per chi ha speso la vita in difesa dei deboli. Lucio Magri non l’ha fatto. E io l’ho fatto notare. Questo è tutto.
martedì 29 novembre 2011
Lucio Magri e Piergiorgio Welby
La differenza tra un liberale come Piergiorgio Welby e un comunista come Lucio Magri è evidente. In entrambi vi era la ferma convinzione di avere il diritto di essere aiutati a mettere fine ai propri giorni, e in modo dignitoso, e a entrambi non mancavano i mezzi per andare in Svizzera, dove tale diritto non è negato, come invece lo è in Italia. La differenza sta nel fatto che Piergiorgio Welby ha scelto di fare del suo caso una questione pubblica, spendendosi fino alla fine per il riconoscimento di quel diritto, per sé e per tutti, mentre Lucio Magri vi ha rinunciato.
Lucio Magri ci ha scassato la minchia per oltre mezzo secolo sui diritti negati ai poveracci, ai quali desiderava addirittura assicurare un paradiso in terra, ma poi, quando si è trovato dinanzi all’ostacolo di uno di quei diritti negati, ha pensato bene di scavalcarlo grazie ai mezzi che aveva a disposizione, lasciandolo inscavalcabile a chi non ne abbia. Non così, Piergiorgio Welby, per il quale era inimmaginabile godere di un diritto negato ai suoi simili: riteneva che quanto voleva per sé dovesse essere nella disponibilità di chiunque.
Ci sia da esempio ogni qual volta che il luogo comune ci suggerirà che un liberale è un tizio tendenzialmente egoista e un comunista è sempre mosso da un nobile altruismo verso il prossimo.
lunedì 28 novembre 2011
E potrebbe anche piovere
Si andrà in recessione, dicono. Ma con questa curva di inflazione non è più probabile che si vada in stagflazione?
(Perché no, secondo Tooby.)
(Perché no, secondo Tooby.)
Potere e società nella Napoli del XXI secolo
Vincere la corsa per Palazzo San Giacomo come l’ha vinta Luigi De Magistris – 27% al primo turno e 65% al ballottaggio – avrebbe fatto venire voglia di Palazzo Chigi a chiunque. Solo le malelingue, dunque, potevano aver da ridire – e ne hanno avuto – sul fatto che “Giggino” non avesse nemmeno fatto in tempo a indossare la fascia tricolore per dar già qualche segno di inequivocabile smania, promettendo miracoli in quattro giorni come se fosse ancora in campagna elettorale, annunciando di voler dar vita a un partito tutto suo e mettendosi in posa da statista in nuce, baciando l’ampollina del sangue di San Gennaro ma chiarendo che si trattava di un bacio molto laico.
Cose così, senza un calcolo troppo calcolato, tra furbizia ingenua e furba ingenuità, a ulteriore prova, per chi ne avesse avuto ancora bisogno, che il nostro amato sindaco è più guaglione che chiattillo, di cuore semplice e testa pure, tendenzialmente buono ma non fesso, un poco in sovrappeso forse, ma solo il necessario per non impensierire mamma. Non più giudice, insomma, ma passabilmente giudizioso. E infatti si è subito dato una calmata.
Ha capito che per usare Napoli come un trampolino non deve esagerare, perché il trampolino è delicato e, se si scassa, non salta ma precipita. Sicché continua la raccolta dei punti per il concorso a premier del vasto arco politico che in lui potrebbe trovare il massimo comun divisore del tutto e del niente che sta tra centro e sinistra, e un po’ fa il centrista sistemando suo fratello al Comune, un po’ fa l’uomo di sinistra istituendo il registro delle coppie di fatto. Non potremo non ricordarcelo, ci ha comprato con uno specchietto e una manciata di perline colorate.
Pronta la risposta del cardinale Crescenzio Sepe, un altro che sta a Napoli come su un trampolino, pronto a fare il grande salto verso Roma, perché dopo Wojtyla e Ratzinger – eccheccazzo – il posto spetterebbe a un italiano.
A dispetto del suo faccione da salumiere enfisematoso, Sua Eminenza è sempre stato un uomo sveglio e intraprendente, di tempra taurina e agilità felina, con un senso della pastorale bello grosso, e poi è un profondo conoscitore della logica che muove i mezzi di comunicazione, più per istinto che per studio, il che è fottutamente meglio. Estroso, brillante, duttile, moderatamente moderato, è uno splendido animale politico e sa muoversi da dio nella ragnatela del parastato, avendo dalla sua un’agenda da far invidia a quella di Luigi Bisignani. Ambizioso, ma senza darlo troppo da vedere, è dotato di un fiuto eccezionale per riuscire a cavare il massimo risultato mediatico dal minimo rischio espositivo, e infatti di pericoli ne ha corsi tanti, ma senza troppo danno.
Pronta la sua risposta – dicevo – alla delibera del Comune che avvia l’iter per il registro delle unioni civili: spalanca le porte della cappella dell’episcopio e, insieme, le sue paterne braccia ai separati e ai divorziati che hanno dato vita a nuove unioni. Niente di particolare, in realtà. Non somministra loro l’eucaristia, si limita a dare forma plastica a quella solerte cura pastorale che la Chiesa non nega a chi s’è messo sotto i piedi un sacramento. Tanto meno è gesto che dia riconoscimento pieno a quelle nuove unioni, men che meno sul piano del diritto ecclesiastico.
E tuttavia l’iniziativa si offre come alternativa a quella di De Magistris, consentendogli di sfondare una porta splancata nell’affermare che un registro delle coppie di fatto non è scelta da ritenersi prioritaria con tante famiglie numerose che non arrivano a fine a mese. Una faina, no?
N. B. Il titolo del post è volutamente pretenzioso e fa il verso alla storiografia che va da Croce ad Allum. Secondo quanto butta il secolo, tanto passa il convento.
Ad un passo dal fatale “e che palle!”
A luglio, cedendo a un nobile istinto, Giorgio Napolitano ha dato attenzione ai radicali. C’era un ultraottuagenario che minacciava per la millesima volta di lasciarsi morire di fame e di sete se non gli si dava un po’ di attenzione, e il capo dello stato ha ceduto: ha partecipato a un convegno organizzato dai radicali, dicendosi solidale alle ragioni della loro iniziativa in favore di un’amnistia. Mi è sembrato un gesto bello, come quando Pippo Baudo evitò che Pino Pagano si buttasse giù dal loggione del Teatro Ariston, e non si consideri irriverente questo paragone: Giorgio Napolitano non ha mai pronunciato la parola amnistia, si è limitato a dire che lo stato delle carceri italiane poneva una “prepotente urgenza”.
Poteva far di più, da luglio ad oggi? Può darsi, ma a me sfugge cosa, soprattutto con la più o meno esplicita indisponibilità di quasi tutto il parlamento alle richieste dei radicali e con altre urgenze, almeno altrettanto prepotenti, a impegnare l’agenda del paese, prim’ancora che quella del Quirinale. Nemmeno a sentire i radicali si capisce cosa fosse realmente possibile al capo dello stato, fatto sta che da qualche settimana Marco Pannella sta impiccando Giorgio Napolitano alla sua ammissione che il sovraffollamento delle carceri italiane pone una “prepotente urgenza”. Non sapendo con chi prendersela per il fatto che l’attenzione generale è tutta sullo spread, fiutando nell’aria l’inutilità di sporgersi ancora dal loggione, pare che il capo della setta di Via di Torre Argentina abbia deciso per la richiesta di impeachment del capo dello stato, probabilmente per alto tradimento, se non alla Costituzione, a quella che Marco Pannella ha deciso fosse una promessa fatta a lui personalmente.
Non è dato sapere quanto possa avergli bruciato il culo, nel frattempo, il fatto che sia stato nominato senatore a vita il solo Mario Monti, visto che lui vi aspira da almeno trent’anni, o il fatto che la sua richiesta di essere nominato ministro della Giustizia sia stata cestinata o, ancora, il fatto che, con la larga maggioranza della quale il governo Monti gode al momento, i parlamentari radicali valgono zero. Sta di fatto che Marco Pannella corre un’altra volta il pericolo di perdere quel poco di visibilità che si è conquistato con i suoi due o tre bluff di ritorno al centrodestra e facendosi sputare in faccia in piazza: conoscendolo, ce n’è abbastanza perché il culo gli bruci comunque, e quando il culo gli brucia…
Penso che finirò per disinteressarmi anche di Marco Pannella, e per le stesse ragioni che mi hanno portato a lasciar perdere Giuliano Ferrara: non è più capace neanche di farmi incazzare e da qualche tempo mi provoca solo quel misto di pena e di disprezzo che, conoscendomi un pochino, già so che appassirà in noia mortifera. Con Ferrara è accaduto, attardandomi più del necessario. Con Pannella vorrei evitare, togliendogli ogni attenzione adesso, prima del fatale “e che palle!”.
Colpa mia, naturalmente. Con entrambi ho commesso l’errore di usare un filtro freudiano (Psicopatologia della vita quotidiana), mentre con un filtro weberiano (Il lavoro intellettuale come professione) avrebbero potuto continuare a farmi incazzare ancora tanto, ma ormai è fatta. Poco male, vivo in un paese in cui non manca certo il materiale per continuare a trarre svago dal mio passatempo preferito. C’è il Ravasi, per esempio, un ipocritone di quelli che mi fanno venire l’acquolina in bocca...
domenica 27 novembre 2011
Facile, semplice, scontata, naturale…
Armando Matteo è prete, ma riesce a fare una riflessione abbastanza onesta sullo stato della fede in occidente, involontariamente: “Il passaggio da un fede trasmessa con il latte materno a un fede che ora è sempre più, ma per sempre meno persone, oggetto di una scelta non scontata è l’indice più forte di un cambiamento radicale – l’avvento della mentalità postmoderna – che ha investito il cristianesimo occidentale, nell’ultimo secolo e mezzo” (Avvenire, 25.11.2011). Riflessione abbastanza onesta, dicevo, perché Armando Matteo è pur sempre un prete e un minimo di disonestà gli è inevitabile: “il latte materno”, infatti, è figura retorica che sta per il mostruoso apparato che fino a un secolo e mezzo fa non dava alcuna possibilità di scelta. L’onestà sta nell’ammettere, anche se implicitamente, che quando non viene imposta, e fin dalla nascita, la fede cristiana va incontro a qualche problemino: nella libertà di scegliere, quella del cristianesimo smette di essere una scelta “scontata”, e perciò è fatta da “sempre meno persone”.
Cosa ha scristianizzato l’occidente, dunque? La libertà di scegliere. Non è un caso che il cristianesimo si sia fatto forte eliminando eresie (airesis = scelta) e abbia cominciato a indebolirsi quando si è affermato il principio della libertà religiosa: quando l’ha fatto suo, la sua crisi è diventata irreversibile. È bastato, così, che si inceppasse il meccanismo che per secoli ha reso impossibile scegliere tra una fede e l’altra, o addirittura di rifiutare ogni fede, e il cristianesimo ha rivelato il suo punto debole, che poi è lo stesso di ogni altro credo: senza un meticoloso lavoro di manipolazione delle coscienze, tanto più efficace quanto più precocemente è messo in pratica, i contenuti della fede non hanno la buona presa che ci si attenderebbe in virtù della loro dichiarata “naturalezza”. Al pari di tutto ciò che solitamente ci viene spacciato come “naturale”, credere è un prodotto “culturale”, come tale destinato ad esser messo in discussione quando gli vengono meno gli strumenti per conservare la sua egemonia.
Nella riflessione di Armando Matteo, però, c’è di più: “La fede cristiana – scrive – non è diventata solo una semplice scelta tra molte altre: più radicalmente è diventata una scelta non semplice, perché gli uomini e le donne di oggi sembrano non avere più antenne per Dio, cioè non riescono con immediata evidenza a capire il senso, le ragioni, le motivazioni, la convenienza per il vivere quotidiano del credere cristiano”. Anche qui bisogna liberare l’onestà dell’affermazione da una piccola disonestà che la trattiene, e che sta nel largheggiare coi sinonimi (“senso”, “ragioni”, “motivazioni”, “convenienza”) di ciò che dovrebbe fare della fede cristiana una scelta migliore rispetto alle altre, o al non credere: se rimane la migliore, perché non rimane ancora la più semplice? Meglio: cos’è che prima la rendeva la più semplice? La risposta è in quanto abbiamo già detto prima: non è più una scelta “scontata”. La fede cristiana era una scelta semplice, quando era praticamente un obbligo. Superfluo aggiungere che anche qui è possibile largheggiare coi sinonimi: “facile”, “semplice”, “scontata”, “naturale”…
giovedì 24 novembre 2011
“Umanesimo forte”
A me sembrano perennemente impegnati a dividersi su ogni questione, su quelle centrali e su quelle marginali, ma può darsi sia solo una mia impressione, e dunque chiedo a voi: vi risulta che nel Pd ci sia unanimità su qualcosa? Sbaglio o di regola si spaccano su tutto? Si tratta del fisiologico confronto tra opinioni, che non bisogna stupirsi di constatare così spesso antitetiche in un partito felicemente giunto alla maturità post-ideologica, o si tratta del normale scannarsi tra tizi che non hanno niente in comune, costretti a stare assieme sotto la stessa bandiera? Chissà. C’è da prendere atto, tuttavia, che «da noi – dice Pierluigi Bersani – è in corso una ricerca per trovare una comune base prepolitica, che io chiamo di “umanesimo forte”, che aiuti l’uomo ad essere più umano in politica».
Delle due, una: o si tenta di dare un’ideologia a un partito felicemente giunto alla maturità post-ideologica per sentirsene infelicemente privo o si cerca l’ennesima conciliazione tra quanto di ideologico si rivelò già inconciliabile nel tentativo di compromesso tra Dc e Pci. In questo caso, “umanesimo forte” sarebbe sinonimo gentile di quel cattocomunismo che Giordano Bruno Guerri genialmente definì come “disgrazia che non è né comunismo né cattolicesimo, ma ha molti difetti di entrambi”; sennò sarebbe l’immagine speculare della chimera degasperiana del “centro che guarda verso sinistra”, una “sinistra che guarda verso il centro” nella convinzione rodaniana, opportunamente aggiornata, che “si può entrare nel partito comunista ma essere completamente cattolico sul piano religioso e completamente comunista sul piano politico”.
Arrivo al virgolettato di Pierluigi Bersani che ho riportato sopra grazie a una segnalazione di Alessandro D’Amato: un’Asca del 18 novembre che riporta alcune frasi che il segretario del Pd ha pronunciato all’VIII Convegno Nazionale di Scienza & Vita, l’associazione che è stata il ferro di lancia di Camillo Ruini ai tempi del referendum sulla legge 40/2004. Frasi che estrapolate dal contesto tornerebbero buone per due o tre battute sarcastiche: «Io sono un appassionato del pensiero di Ratzinger... Ho apprezzato oggi la lectio magistralis del cardinal Bagnasco che non mi permetto di commentare... I valori su cui si regge una società non possono essere relativi... L’uomo non è un rampicante e non è un sasso nello spazio...».
In realtà, ascoltando tutto l’intervento del segretario del Pd, si scopre che queste frasi sono solo carinerie di contorno al tentativo di blandire la rigidissima posizione di non negoziabilità che la Chiesa di Roma ha assunto sui temi di natura bioetica, che non consente al Pd di cercare consensi al centro senza perderli a sinistra, anche se la crisi del centrodestra lo consentirebbe. Il fatto è che le carinerie sono niente rispetto a ciò che Pierluigi Bersani sembra disposto a concedere, pur mantenendo ferma, almeno in apparenza, la pregiudiziale laica. In poche parole, il Pd sembra essere disposto ad accettare in pieno la tesi ratzingeriana della necessità di una morale irrevocabile alla base del diritto. Peggio ancora, sembra disposto a riconoscerne la natura trascendente. Ridicolo e tragico insieme è che ritenga questa svendità della laicità dello Stato accettabile dai credenti e dai non credenti. L’“umanesimo” che dovrebbe essere la comune base prepolitica del Pd sembrerebbe dover essere “forte” della stessa pretesa che in ultima analisi rende ogni religione incompatibile con la democrazia.
martedì 22 novembre 2011
Il “noi” e il “me”
Quando è fine a se stesso, lo sfoggio di cultura è estremamente fastidioso, però questo vale solo per noi laici: anche quando sembra citare solo per il gusto di citare, un chierico non lo fa quasi mai per vacuo esibizionismo: ha sempre un altro scopo, nobile per giunta: tenta di distogliere l’attenzione dal livello culturale medio del clero, bassissimo ormai da decenni: è per questa ragione che Gianfranco Ravasi non infastidisce mai, neanche quando ha bisogno di due dozzine di citazioni per dire che non ci sono più le mezze stagioni. Se non fosse un chierico, sarebbe oltremodo irritante, ma da chierico fa un’infinita tenerezza: lo vedi far la ruota del pavone coi suoi virgolettati, e pensi: come si sacrifica, poverino, sembra una Billy carica di Adelphi. Si tratta di una missione, in un certo qual senso, del tipo di quella che si è data don Fortunato Di Noto, che va a caccia di pedofili su internet per farci dimenticare gli abusi sessuali commessi dai preti a danno dei minori.
C’è un ma: per dimostrare che un chierico non legge solo il breviario, il Ravasi trascura il breviario, e il peggio di sé lo dà proprio sui Vangeli: esegesi stortignaccole e fru-fru. È il caso del suo tentativo di spiegarci la patente contraddizione tra Mc 9, 40 (“Chi non è contro di noi è con noi”) e tra Mt 12, 30 e Lc 11, 23 (“Chi non è con me è contro di me”). Sul suo blog – da poco ha pure un blog, chissà quando trova il tempo per dir messa – scrive che “a prima vista i due detti di Gesù sono diametralmente opposti e si deve optare per l’uno o per l’altro, qualora si voglia ricostruire un’unica frase autentica detta dal Gesù storico”: ovviamente opta per la versione di Marco, più antica rispetto a quella di Matteo e di Luca, che ne sarebbe lo “stravolgimento”. Neanche lo sfiora il sospetto che, trattandosi di frasi dette da Gesù in diverso contesto, possano essere due facce della stessa medaglia. E sì che c’è una bella differenza tra il “noi” della versione di Marco e il “me” di quella riportata in Matteo e in Luca: la questione è tutta lì.
Nel primo caso, infatti, agli apostoli che gli segnalano il caso di un tale che opera prodigi in suo nome senza far parte della sua cerchia, Gesù fa presente che il fatto non costituisce un pericolo e che si può lasciar correre: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me” (Mc 9, 39). Nel secondo caso, invece, la situazione è ben diversa: qui, i farisei sollevano la questione del perché Gesù esorcizzi gli indemoniati in nome di Beelzebùl. In apparenza, ma solo in apparenza, la risposta di Gesù è oscura: “Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi. Ora, se Satana scaccia Satana, egli è discorde con se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno? E se io scaccio i demoni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano? Per questo loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio. Come potrebbe uno penetrare nella casa dell’uomo forte e rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde. Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro” (Mt 12, 25-32). Non si metta in dubbio che in Gesù operi lo Spirito di Dio. E lo Spirito di Dio ha potere su Satana. Gesù scaccia i demoni in nome di Beelzebùl, appellandosi al potere che lo Spirito di Dio ha su Satana: mettere in dubbio questo è commettere bestemmia non contro lui, ma contro lo Spirito.
Ecco che dunque le due frasi non sono affatto in contraddizione, anzi, definiscono il confine interno e quello esterno alla fede: il “noi” in Marco è ecumenico (si può chiudere un occhio su chi riconosce in Gesù il potere dello Spirito di Dio e opera in suo nome pur senza essere dei suoi); il “me” in Matteo e in Luca fa, invece, un chiaro riferimento alla professione di fede dello Spirito di Dio in Gesù (chi non lo riconosce commette bestemmia).
In realtà le due frasi non sono in contraddizione neppure per il Ravasi, che però risolve la questione definendole “corrispondenti a finalità e a contesti differenti e divergenti”. Non è affatto vero: sono entrambe convergenti nel fine di stabilire il confine tra amico e nemico. Si è “con” o “contro” Cristo, se si afferma o si nega la sua natura divina: se la si afferma, si è tollerati anche se non si è parte della sua cerchia; se la si nega, si è nemici.
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