mercoledì 7 dicembre 2011

Carissimo

Quando non è pagato in nero (solitamente nella misura del 30-50%, come emerge dai casi che arrivano all’attenzione della Guardia di Finanza), in Italia il costo del fitto di un immobile ad uso abitativo è in media più alto che nel resto d’Europa di un 15-25%. Sarà che, a parità di categoria, le case italiane sono tutte più belle di quelle europee o che in Italia il mercato delle case in affitto è drogato, ma 50 metri quadrati al centro di Roma, di Venezia o di Milano costano al mese almeno il doppio di quanto costano al centro di Berlino, di Amsterdam o Madrid, il 60-80% in più di quanto costano al centro di Parigi, il 15-30% in più di quanto costano nei migliori quartieri di Londra, e la proporzione si mantiene tale anche quando l’immobile non è ubicato in zone centrali, ma in centri con più bassa densità abitativa o in provincia. Fitti più alti che in Italia li troviamo solo fuori dalla Comunità europea (Tokio, Singapore, Montecarlo, ecc.).
La ragione sta nel fatto che l’edilizia pubblica non ha mai avuto in Italia uno sviluppo analogo a quelli di altri paesi europei, dove gli immobili di proprietà pubblica dati in affitto a privati sono il doppio (Olanda e Francia) o addirittura il triplo (Germania e Spagna) di quel 18,9% che in Italia abbiamo sul totale. Il 74% degli italiani vive in case di proprietà e ogni 100 nuclei familiari abbiamo 136 case. La corsa alla casa di proprietà è stata, insieme, causa ed effetto delle scarse energie impegnate nell’edilizia pubblica rispetto agli paesi europei, da sempre, fino al sostanziale disimpegno, dagli anni ’80 ad oggi. D’altro canto, col vertiginoso aumento del prezzo di un affitto, diventava conveniente l’acquisto di una casa con l’accensione di un mutuo: quante volte abbiamo sentito dire “con quello che pago di affitto accendo un mutuo e almeno mi ritrovo una casa di proprietà”? Calcolo ragionevole, se non fosse che la rata mensile di un mutuo è in media del 30-80% più alta del costo dell’affitto di un immobile di pari qualità, e impegna per alcuni decenni.
Non è iniziato negli ultimi decenni, ma col fascismo. Già nell’Italia post-giolittiana si era avuto un decisivo indebolimento del credito fondiario in favore del credito immobiliare urbano, grazie alla massiccio inurbamento avutosi dopo la Prima guerra mondiale. Da gran calmieratore delle tensioni che sarebbero state inevitabili nello snodarsi di tale processo, il fascismo si fece attivo propugnatore dell’ideale di una casa di proprietà come bene vitale per la famiglia, oltre che di enorme vantaggio per la società come garanzia di stabilità dei modelli di relazione: le sanguinose lotte popolari per la casa diventarono presto un ricordo del passato creando un circolo virtuoso tra impresa edile, banca e privato, col passaggio dall’affitto alla vendita tramite mutuo. È il modello che sarà adottato in pieno nel secondo dopoguerra, con l’azione dei governi a guida democristiana che sosterranno il blocco di potere bancario-assicurativo e immobiliare-edilizio per costruire l’archetipo del cittadino ed elettore proprietario della casa in cui vive, come più solida garanzia di uno stabile assetto culturale e politico attorno ai valori della conservazione. La casa di proprietà diventava possibile, ma al costo di un adeguamento all’unico standard di vita che la rendeva tale e che imponeva pure un certo modo di concepire la famiglia e le relazioni tra generazioni, il lavoro e il profitto, il credito e il debito. In altri termini, la casa diventava un bene accessibile praticamente a tutti, ma a patto di starci dentro da fedeli esecutori di un mandato culturale e politico.
La casa di proprietà, che prima del fascismo era prerogativa dell’11% degli italiani, lo divenne nella misura del 26% del 1938, del 40% del 1960, del 50% del 1970, fino all’odierno 74%. Quando Silvio Berlusconi vantava la solidità del nostro sistema citando appunto questo famoso 74% di possessori di case, dimenticava di dire che oltre il 90% di essi ha più di 50 anni, che in oltre il 20% dei casi si tratta di abitazioni sulle quali è ancora acceso un mutuo, che più del 65% dei casi si tratta di abitazioni più vecchie di 40 anni. Un valore complessivo che per il solo settore residenziale ammonta al 400% del Pil, ma che per un quarto è in mano al solo 10% dei proprietari. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di abitazioni dal valore sovrastimato per un mercato che da tempo ha perso ogni regola, basti pensare al fatto la grandezza media di una casa è di 62 metri quadrati (52 in città, poco meno di 80 fuori dalle aree urbane a più alta densità), con un prezzo medio di oltre 180.000 euro. Difficile dire di cosa sia ricco, in media, chi abita una casa di proprietà rispetto a chi potrebbe abitarne una in affitto, se la corsa alla casa di proprietà non avesse fatto impazzire anche il mercato dei fitti. Di certo c’è solo che la rincorsa al modello della casa di proprietà ha portato una gran parte degli italiani alla dipendenza dal blocco di potere bancario, con quanto ne deriva sul piano del condizionamento della vita economica, sociale e politica. Né si può dire che tale modello sia mai stato in grado di metterci al riparo dalle emergenze in ambito abitativo, soprattutto da quando l’opzione del tasso variabile ha cominciato a illudere i più sprovveduti. “Con quello che pago di mutuo e di tasse sul possesso non mi converrebbe abitare in affitto?”: non lo sentiamo dire, perché la casa di proprietà è diventata un bene che va al di là del suo valore, ma soprattutto perché i fitti rimangono alti ed è difficile possano scendere. E tuttavia, facendo uno sforzo per liberarci dal luogo comune che traslocare è un po’ morire, sarebbe poi tanto più povera un’Italia nella quale i possessori di case fossero solo il 55% come in Germania o il 40% come nel Regno Unito? Lasciate stare, non provate a liberarvi del luogo comune: continuate a fare una vita di stenti per poter avere 50 metri quadrati tutti vostri. Ma non lamentatevi se chi fa una manovra finanziaria basata più sulla tassazione che sui tagli debba giocoforza reintrodurre l’Ici sulla prima casa: volevate una patrimoniale, era indispensabile, e questa è una patrimoniale. D’altra parte, lo sappiamo, detassare la prima casa era cosa possibile solo nel lucido delirio di un demagogo.
L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, infatti, è il più illuminante esempio di cosa sia stato il populismo berlusconiano, perché ne condensa i fini e i mezzi meglio di ogni altra sua espressione. Con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, Silvio Berlusconi è arrivato alla pancia di quel 74% di italiani che vivono in una casa di proprietà, per dir loro che quel bene diventava formalmente intangibile, inviolabile, sacro, sicuro di trovare pieno consenso, anche quando non dichiarato: un’operazione della quale ha scaricato gli oneri sui Comuni e quindi sugli stessi contribuenti che sulla carta venivano a godere della detassazione, ma incassando almeno sul piano umorale, che non è mai poco, un credito di riconoscenza trasversale e di notevole ampiezza, ben oltre ogni calcolo di convenienza reale. Quanto agli italiani veniva risparmiato con l’abolizione dell’Ici veniva tolto loro in altro modo, questo era evidente a tutti, ma l’esattore non era più lo Stato, che da sempre in Italia, e quasi mai a torto, è considerato un mostro odioso. Ciò che più conta, inoltre, veniva detassato almeno formalmente il simbolo vivo della fatica del lavoro e degli affetti della famiglia, cifra esistenziale ancor prima che economica. In ciò, con mirabile circolarità di coincidenze, il berlusconismo ha dato il tocco finale a quanto aveva avuto avvio col fascismo, ma con una parodia di liberismo, e soprattutto con un occhio di riguardo a uno dei luoghi comuni più cari agli italiani. Carissimo in tutti in sensi.

8 commenti:

  1. applausi.
    aggiungerei che il costo per l'acquisto delle case fa sì che si sia costretti a risparmiare sulla manutenzione (su cui invece una proprietà di tipo industriale avrebbe interesse a spendere per mantenere il valore del bene) e così gli immobili sono spesso mal tenuti e tecnicamente obsoleti.
    aggiungerei anche che il modello esposto favorisce la famiglia tradizionale basata sull'indissolubilità del matrimonio: provate a divorziare con una casa in comunione dei beni!

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  2. "Calcolo ragionevole, se non fosse che la rata mensile di un mutuo è in media del 30-80% più alta del costo dell’affitto di un immobile di pari qualità, e impegna per alcuni decenni." Allora preferisco scegliere una casa più piccola, con la rata del mutuo - a tasso rigorosament fisso - pari al fitto d'un immobile più grande; inoltre, se il mutuo impegna per decenni, l'affitto impegna per sempre.

    "Difficile dire di cosa sia ricco, in media, chi abita una casa di proprietà rispetto a chi potrebbe abitarne una in affitto, se la corsa alla casa di proprietà non avesse fatto impazzire anche il mercato dei fitti".
    Poter trasmettere il bene ai propri figli?

    Luigi, ti ricordo che negli Stati Uniti - notoria nazione di traslocatori - è scoppiata la più assurda bolla immobiliare.

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  3. Grande Malvino. Si può sapere quanti, di quel 74% di proprietari, ha comprato realmente o ereditato, anche in maniera mascherata?

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  4. @ Marcello
    Ti ricordo che negli Stati Uniti la bolla è scoppiata perché tanti si sono illusi di poter avere una casa di proprietà anche senza poterselo permettere.

    @ Telebolla
    Non sono riuscito a trovare il dato che mi chiedi, peraltro credo sia difficile fotografare una realtà che in fondo è molto fluida.

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  5. Mah. Personalmente, per lavoro, conosco molte persone che vivono in affitto, e molte che possiedono un immobile (di solito quello in cui vivono) o più di uno (di solito affittati a terzi). I primi, senza eccezione si lamentano (se giovani) o sono arcipentiti di non aver comprato quando si poteva (se anziani). I secondi mediamente sono soddisfatti se proprietari della propria casa (meglio le tasse che un pugno di mosche in mano), e arciscontenti se affittanti (due volte su tre l'inquilino è una grandissima rogna, non paga o crea problemi a non finire).

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  6. Personalmente sono contento di avere una casa di mia proprietà (e di aver chiuso il mutuo in pochissimi anni con estinzioni parziali anticipate, che la banca accettava con riluttanza ma era costretta per contratto!), però devo dare ragione a Malvino per quanto riguarda la situazione generale del mercato delle abitazioni in italia: case piccole, mal costruite e costosissime; poi costi assurdi per agenzie, notai, tasse ogni volta che compri e che vendi, eccetera. Per forza che qui si cambia casa così poco.

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  7. Avrei molte considerazioni da fare, ma cercherò di non abusare troppo dell'ospitalità concentrandomi solo sulla più urgente.

    Il testo parla di quelli che possono scegliere tra comprare e affittare, e avanza dubbi sulla preferibilità della prima opzione; a me invece torna più utile parlare degli altri, di quelli che la scelta non ce l'hanno, e non possono che affittare.
    Da tredici anni, in Italia, non esiste più alcun meccanismo di calmierazione dei canoni d'affitto; prima c'era l'equo canone, a distinguere gli affittuari per necessità dagli affittuari per scelta.
    Chiunque sia stato studente o lavoratore fuori sede negli anni a cavallo tra il prima e il dopo equo canone ha potuto vedere da vicino l'impennarsi dei prezzi di affitto in tutte le città universitarie e/o industriali.

    Mi permetto dunque di avanzare timidamente l'ipotesi che sia stato il mercato sregolato degli affitti a far impazzire quello delle compravendite, soprattutto per quel simpatico fenomeno per cui, se sei abbastanza stronzo, puoi affittare un appartamento di tre stanze a otto persone, fino a riscuotere il triplo o il quadruplo di quel che qualunque single o nucleo familiare potrebbe permettersi, cosa che ha, negli anni, espulso dai centri urbani le famiglie affittuarie.

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  8. Penso che tra le altre cose la casa abbia rappresentato un'integrazione alla pensione. La casa di proprietà è effettivamente un surrogato della pensione: la compri durante tutto l'arco della tua vita lavorativa e quando questa si esaurisce la non spesa in affitto costituisce il ritorno. Con il vantaggio che oltre che essere reversibile su coniuge è anche reversibile sulla prole. Penso che la causa principale sia la convinzione che dopo la fine del lavoro ci sia la vita eterna.

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