“Peggio di Berlusconi, nessuno? Peggio del berlusconismo, niente? Posso essere d’accordo – dicevo – però abbiate il senso delle proporzioni e non cadete nell’errore di pensare che Monti sia migliore di quello che è”. Lo dicevo il 21 novembre, quando non erano ancora noti i punti della finanziaria di questo governo cosiddetto tecnico, voluto da quasi tutti, da quasi tutti salutato come la migliore soluzione per uscire dal marasma, non importa se un pochino di qua o un pochino di là dal dettato costituzionale. In fondo, Monti tornava comodo pure a Bossi e a Di Pietro.
Un figlio nato da pochi giorni mi sollevava dall’onere dell’interminabile pippone nel quale solitamente mi attorciglio quando devo argomentare una tesi impopolare, e in quel momento – sembra una vita fa, ma sono passate solo due o tre settimane – Monti sembrava un eroe venuto a liberarci da una odiosa dittatura: sollevare dubbi sulla sua persona, e dunque su quanto era ragionevole aspettarsi da un governo a sua guida, sarebbe stato imperdonabile.
È che a me Monti non è mai piaciuto, diffido delle larghissime intese necessitate da pulsioni emergenziali, sono contrario per principio ai governi cosiddetti tecnici e mi era bastato un niente – Ornaghi e Riccardi nella lista dei ministri – per convincermi che il rimedio trovato all’interminabile agonia della XVI legislatura fosse nient’altro che il tenerla in vita artificialmente, per fare una riforma delle pensioni che il governo Berlusconi non avrebbe mai potuto fare per il veto della Lega, né avrebbe mai potuto fare un governo della XVII legislatura, se di centrosinistra, salvo rimangiarsi le promesse agli elettori o l’istantanea perdita di pezzi della Santa Alleanza antiberlusconiana.
Quello che ci chiedeva l’Europa era ragionevole: adeguare il sistema pensionistico alla aumentata aspettativa di vita media. E tuttavia non bastava una riforma delle pensioni, perché solo il 25% del deficit è imputabile a quelle. Si doveva mirare sul serio al pareggio di bilancio, ridurre la spesa nel pubblico, privatizzare il possibile, liberalizzare le professioni. E poi c’era da stimolare la famosa crescita, e poi tutto doveva essere fatto in nome della famosa equità.
Non poteva farlo alcun governo politico, né di centrodestra, né di centrosinistra, perché alla politica italiana, in ormai cronica crisi di leadership, da tempo non restava che la followship di questo o quel pezzo di società italiana. Strategie alla giornata per tutti, navigazione a vista nella nebbia di previsioni tutte fosche, una bussola ormai impazzita per i troppi fulmini caduti sull’Europa, impossibile toccare i privilegi dei notai o dei tassisti, dei preti e dei deputati. Ci voleva un governo cosiddetto tecnico, ma per constatare che non ne era capace. Non era un eroe, il Monti, era un tecnodemocristiano.
Un figlio nato da pochi giorni mi sollevava dall’onere dell’interminabile pippone nel quale solitamente mi attorciglio quando devo argomentare una tesi impopolare, e in quel momento – sembra una vita fa, ma sono passate solo due o tre settimane – Monti sembrava un eroe venuto a liberarci da una odiosa dittatura: sollevare dubbi sulla sua persona, e dunque su quanto era ragionevole aspettarsi da un governo a sua guida, sarebbe stato imperdonabile.
È che a me Monti non è mai piaciuto, diffido delle larghissime intese necessitate da pulsioni emergenziali, sono contrario per principio ai governi cosiddetti tecnici e mi era bastato un niente – Ornaghi e Riccardi nella lista dei ministri – per convincermi che il rimedio trovato all’interminabile agonia della XVI legislatura fosse nient’altro che il tenerla in vita artificialmente, per fare una riforma delle pensioni che il governo Berlusconi non avrebbe mai potuto fare per il veto della Lega, né avrebbe mai potuto fare un governo della XVII legislatura, se di centrosinistra, salvo rimangiarsi le promesse agli elettori o l’istantanea perdita di pezzi della Santa Alleanza antiberlusconiana.
Quello che ci chiedeva l’Europa era ragionevole: adeguare il sistema pensionistico alla aumentata aspettativa di vita media. E tuttavia non bastava una riforma delle pensioni, perché solo il 25% del deficit è imputabile a quelle. Si doveva mirare sul serio al pareggio di bilancio, ridurre la spesa nel pubblico, privatizzare il possibile, liberalizzare le professioni. E poi c’era da stimolare la famosa crescita, e poi tutto doveva essere fatto in nome della famosa equità.
Non poteva farlo alcun governo politico, né di centrodestra, né di centrosinistra, perché alla politica italiana, in ormai cronica crisi di leadership, da tempo non restava che la followship di questo o quel pezzo di società italiana. Strategie alla giornata per tutti, navigazione a vista nella nebbia di previsioni tutte fosche, una bussola ormai impazzita per i troppi fulmini caduti sull’Europa, impossibile toccare i privilegi dei notai o dei tassisti, dei preti e dei deputati. Ci voleva un governo cosiddetto tecnico, ma per constatare che non ne era capace. Non era un eroe, il Monti, era un tecnodemocristiano.