Nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby si è riparlato di testamento biologico. C’è chi ha ribadito che l’individuo ha il diritto di metter fine ai propri giorni quando la vita non gli sembri più degna di essere vissuta, di essere aiutato a farlo se non sia in grado di provvedere da solo, di poter disporre per tempo in tal senso; e c’è chi ha ribadito, al contrario, che la vita non appartiene a chi la vive e che dunque non se ne può disporre a proprio piacimento, men che meno chiedendo assistenza al suicidio, che è giusto rimanga reato, e grave. Posizioni diametralmente opposte che sembrerebbero non lasciar spazio ad altre, e dunque fatte apposta per spaccare in due il paese: da un lato, chi ritiene che ciascuno possa liberamente e responsabilmente decidere per sé in un modo, lasciando agli altri la possibilità di una diversa scelta, e, dall’altro, chi ritiene che davanti ad ogni scelta c’è sempre una sola decisione giusta e che quella deve essere imposta a tutti, ovviamente per il loro bene, che poi è sempre il bene comune. È evidente che dietro queste due posizioni ci siano due modi diversi di concepire l’uomo, anch’essi diametralmente opposti, irrimediabilmente destinati a confliggere, come infatti è accaduto sul caso Welby.
Conflitti del genere causano lacerazioni dolorose nel corpo di una società, ma pare siano inevitabili, anzi, pare che il progresso umano non possa farne a meno e che proprio nei suoi esiti trovi forza e vettore. A tentare di evitarli, d’altra parte, non si ottiene altro che dilazionarli, rendendone ancora più violento il corso, quando infine riaffiorano. Il divorzio ci offre un buon esempio, al riguardo. In Italia ci si arrivò con molto ritardo, nel tentativo di non spaccare in due il paese, eppure già da tempo si fronteggiavano due diversi modi di concepire la famiglia: da un lato, c’era chi riteneva che il bene comune riposasse sull’indissolubilità del matrimonio e, dall’altro, c’era chi aveva una diversa idea del bene comune, non incompatibile col bene di ciascuno. Chi era in favore del divorzio non voleva imporlo ad alcuno, chi era contrario voleva negarlo a tutti. Posizioni diametralmente opposte, irrimediabilmente destinate a confliggere, e tuttavia ci fu chi tentò di evitare il conflitto.
Intervistato da Oriana Fallaci nel 1974, Giorgio Amendola spiegò che il Pci avrebbe volentieri evitato quella “guerra interna”. Così anche Massimo D’Alema sul testamento biologico. Nel 2009, in un dibattito pubblico a Marina di Camerota, diceva: “Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione. La mia personale posizione è che in materie come il testamento biologico è meglio non fare nessuna legge”.
Ora, per amor del vero, bisogna dire che questa “terza posizione” ha una sua ragion d’essere. Puoi non amare più tua moglie, ma a che ti serve il divorzio? Puoi avere un’amante. Puoi anche avere dei figli da lei. Saranno “illegittimi” – o “bastardi”, come si diceva prima dell’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento e il conseguente adeguamento del diritto di famiglia – ma, via, la società resterà salda sul principio che il matrimonio è indissolubile. Idem col fine vita. Un cancro ti divora e la morfina ti fa l’effetto dell’acqua fresca? Un occhiolino al dottore compiacente, due soldi all’infermiera e il suicidio assistito è di fatto, ma sia saldo il principio che la vita è sacra e indisponibile. Il trionfo dell’ipocrisia, ma in nome di valori inestimabili. In più, ciascuno fa i cazzi propri e si evitano “guerre interne”. Basta che l’adulterio sia gestito in modo discreto, basta che del suicidio assistito non si sappia: in fondo, i paladini dei valori inestimabili si accontentano di poco, basta non scandalizzarli troppo. Guai, però, a pretendere che una legge consenta a ciascuno di vivere e morire nel rispetto dei propri valori: questo è lo scandalo più grosso, non lo tollerano.
“Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione” è posizione deboluccia che ha bisogno di un argomento nobile per reggere. Così, come per il divorzio nel Pci ci fu chi disse che si trattava di un “lusso borghese” e che la classe operaia non sapeva che farsene, nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby capita di leggere su l’Unità: “Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire”. Si potrebbe, chessò, far decidere alla persona cara e poi rispettare le sue decisioni, se davvero ci è cara. Troppo?
Non è questo, il problema: è che, “anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto”. Molto bello, ma si deve pur morire?
Macché. “Non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui”. E una legge sul testamento biologico non è rendere giustizia a chi vuol morire, e in modo degno? Forse, ma “un tratto che caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire”.
Ma se quelle esili spalle decidono di prendere su se stesse la libera e responsabile decisione di morire, sociologi e filosofi hanno qualcosa da ridire? Sì, pare l’abbiano: “Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori»”. Non è del tutto chiaro come questo debba convincerci che una legge sul testamento biologico sia inutile, ma la cosa non rimane senza sviluppo: “I due casi [Welby e Englaro] hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge. Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini…”.
Ok, c’è da mettere un puntello nobile alla soluzione ipocrita di D’Alema, ma qui si esagera. Parliamo del ddl Calabrò e, sì, nel caso diventasse legge, lo Stato sottrarrebbe al singolo uomo eccetera eccetera. Ma una legge che al singolo uomo concedesse il diritto di cimentarsi eccetera eccetera, in cosa sarebbe oppressiva? C’è una bella differenza, mi pare, tra una legge che sancisca l’indissolubilità del matrimonio ed una che consenta di scioglierlo: la prima è oppressiva, perché impedisce di divorziare a chi voglia, ma la seconda no, perché non costringe alcuno a divorziare, se non voglia.
Differenza che pare faccia difficoltà ad esser colta: una legge sul testamento biologico – fatta la voluta confusione: qualsiasi legge sul testamento biologico – è inutile, perché “l’umanità dell’uomo [è] garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge”. Da non credere. Una eventuale norma che riconosca all’individuo il diritto di autodeterminazione è “l’impero della legge”. “L’umanità dell’uomo”, invece, sta nella mancia all’infermiera.