Anno che va, anno che viene, anche per chi ha un blog è tempo di bilanci e programmi. Stavolta provo anch’io e prendo spunto da Massimo Mantellini, che scrive: «Tranne poche eccezioni quasi tutti bloggano meno. Il grosso della rarefazione ha avuto origine qualche anno fa con l’adozione diffusa dei social network. Le piccole cose delle nostre vite oggi finiscono altrove: in uno status update, in un tweet, dentro le cascate di tumblr».
Bene, anch’io da qualche tempo bloggo assai meno, ma non ho un tumblr; ho un account su Twitter, ma non ho mai fatto neanche un tweet di prova; avevo una pagina su Facebook che ho aggiornato solo due o tre volte, e che ho chiuso mesi fa. Ciò nonostante bloggo meno, molto meno. Anni fa sono arrivato anche a una dozzina di post al giorno, praticamente postavo tutto ciò che scrivevo, spesso senza neanche rileggere, e non di rado portavo in pagina anche cose scritte molti anni addietro.
Scrivo meno, oggi? Al contrario, scrivo quanto prima. Forse appena un po’ meno di prima, perché da poco mi è nato un figlio e ho riscoperto il gusto di essere padre. Tutto sommato, però, resto il grafomane che sono sempre stato. È che al momento di postare mi faccio vincere da scrupoli che prima non avevo. Rileggo, correggo, mi accorgo che non si tratta della forma, rinuncio.
Il punto di rottura è stato nel marzo del 2010, col cambio della piattaforma. Se oggi rileggo le paginate che postavo sul Cannocchiale, mi rendo conto che qui, su Blogspot, la mia scrittura pubblica ha in gran parte smesso d’essere un diario. Ero più spudorato, adesso l’intimo resta quasi tutto sul cartaceo. Ho ripreso a riempire quadernetti, come ho sempre fatto, fin da ragazzino.
Così è anche per la produzione – diciamo – letteraria: racconti e poesie, che prima postavo senza alcuna riserva, adesso rimangono gelosamente custoditi in faldoni. Intendiamoci, penso che narrare e comporre versi sia lecito a chiunque. Io lo faccio da sempre e penso che non smetterò mai. Penso anche che a chiunque sia lecito rendere pubblico questo genere di produzione, ma, almeno per quanto mi riguarda, ho visto che oltre l’episodica sortita “per vedere l’effetto che fa” cado in imbarazzo.
Quando ancora Internet non esisteva, non mi sono mai azzardato neppure a immaginare la pubblicazione delle mie poesie o dei miei racconti, men che meno di quei lunghi paginoni in forma di saggi brevi, in gran parte incompleti, che mi sono sempre serviti per mettere ordine alle mie letture, e che una volta rendevo pubblici senza farmi alcuno scrupolo di annoiare il lettore. Nel momento in cui ho vinto la mia lunga e fiera resistenza all’acquisto di un pc e all’accesso al web – era l’inizio del 2001 – avevo al mio attivo solo la pubblicazione di lavori scientifici, tutto il resto era chiuso in un migliaio di quadernetti. Ho subito ceduto alla tentazione di pescare qua e là, l’occasione è stato un thread che Piero Welby aveva aperto sul forum di radicali.it, e per un poco ho continuato anche su malvino.ilcannocchiale.it, ma dopo la morte di Piero ho smesso. Può darsi che mi interessasse essere letto solo da lui.
Non so darmi spiegazione, invece, del perché d’un tratto io abbia rinunciato a pubblicare tutto ciò che avesse attinenza alla mia vita privata. Solitamente accade che questo ritrarsi sia dovuto a qualche esperienza traumatica, ma non è il mio caso. Non mi sono mai sentito davvero ferito a morte dalle critiche che ho ricevuto in questi otto anni che Malvino compirà a marzo, anzi, devo dire che il giudizio più benevolo è stato proprio su quanto più mi aveva dato imbarazzo a rendere pubblico.
Posso solo provare a fare una ipotesi, ma seguendo una traccia che mi pare attendibile: pur essendo un medico, non ho quasi mai parlato del mio lavoro, e, pur vivendo a Napoli, ho raramente parlato di questa città. Sarebbero stati due filoni inesauribili, ma da sempre mi è sembrato che dessero spazio solo a una scrittura furba, un po’ ruffiana, fatta per intrattenere. È che odio l’anedottica e l’apologo morale, e a scrivere della mia città o del mio lavoro ci sarei inevitabilmente finito dentro. Non sono poeta, non sono scrittore, non sono saggista, non sono giornalista, non ho mai aspirato ad esserlo. Non ho mai ritenuto che esistesse uno spazio pubblico per la mia scrittura che non fosse quello della polemica. Mi piace giocare a scacchi e fare a botte, diciamo. Diciamo che ultimamente non trovo occasioni stimolanti e quelle vecchie mi sono venute a noia. Così preferisco riempire pagine per me stesso: una Introduzione alla teologia cattolica alla quale pensavo già da anni, il libretto di un’opera buffa in attesa di trovare un musicista che sappia parodiare bene Rossini...
Leonardo Tondelli scrive: «Non mi interessa scrivere per me stesso […] A me interessa produrre cose che gli altri trovino interessanti e leggibili: e più sono gli altri meglio è». A me, invece, interessa moltissimo scrivere per me stesso: ho scritto pagine che non renderei mai pubbliche e che a rileggere mi danno grande soddisfazione, per non parlare della soddisfazione che trovo nello scrivere pagine che già so che non pubblicherò mai. Tuttavia sarebbe disonesto negare il piacere di constatare, quando accade, che quanto rendo pubblico sia trovato interessante e leggibile. È che non tengo molto al numero, peraltro so di non avere una scrittura semplice, né facile, per non parlare dei temi che maggiormente mi interessano, ostici al grande pubblico del web.
Luca Massaro afferma che «il blog, come forma espressiva, si sta avvicinando sempre più a una specie di “prova d’artista”, ovvero a un esercizio di arte estemporanea del pensiero». Ecco, sì, può darsi, basta non contarci troppo.