Chaïm
Perelman prende a esempio un celeberrimo frammento di Eraclito («Entriamo e non
entriamo due volte nello stesso fiume») per introdurci all’analisi degli
«argomenti quasi-logici» e per chiarire la natura del sistema entro il quale la
contraddizione può essere ancora dotata di una sua coerenza. Nel caso del
frammento di Eraclito, scrive che la coerenza è mantenuta se l’espressione «lo
stesso fiume» viene intesa – insieme – in due modi diversi, in modo che l’affermazione
sia vera per la prima interpretazione e la negazione per la seconda. E conclude:
«Nell’antichità, quando il pensiero scientifico di impostazione matematica era
meno sviluppato, il ricorso ad argomenti quasi-logici era più frequente. Oggi,
la prima reazione ad essi consiste nel sottolineare la loro debolezza» (L’empire rhétorique, VII). Se ne deduce che
il frammento di Eraclito poteva reggere
nell’antichità,
ma non oggi. Oggi siamo portati a
ritenere che un fiume non sia mai identico a se stesso e tuttavia entrandovi possiamo
dire tranquillamente: «È lo stesso fiume nel quale sono entrato ieri». Semmai
la questione può più ragionevolmente investire me: «Sono lo stesso di ieri?». E
qui le cose si complicano, sicché forse è meglio ricorrere ad un esempio.
Mettiamo che il «fiume» sia una situazione che, anche se non in tutto
sovrapponibile ad un’altra nella quale mi sono trovato dentro, presenti tali e
tante analogie con quella nella quale mi trovo dentro adesso da dover rinunciare ad usare un argomento
quasi-logico del tipo «ma non è la stessissima cosa». Ecco, mettiamo che la
situazione sia quella di un dittatore che silenzia ogni dissidenza con violenza
sempre più brutale. Ovviamente l’ex Jugoslavia non è l’Iraq, e l’Iraq non è l’Afghanistan,
e l’Afghanistan non è la Siria, ma potrò trattare l’ex Jugoslavia, l’Iraq e
l’Afghanistan in un modo e la Siria in modo completamente opposto? Potrò farlo,
ma dovrò chiedermi: «Sono lo stesso di ieri?». Lì potrò rispondermi
affermativamente solo ricorrendo a un argomento quasi-logico. Oppure ammettere: «Ieri
ero un paladino dei diritti umani, oggi sono ministro degli Esteri».
Ieri
potevo dire: «La guerra tradizionale ha sempre considerato le vittime tra i
civili come vittime involontarie, accidentali: si colpiva l’aeroporto e se le
bombe cadevano sulle case vicine, pazienza. Nell’ex Jugoslavia, invece, è
esattamente l’opposto: l’obiettivo è lo sterminio della popolazione civile. E
di fronte a questo, la comunità internazionale ha preferito far finta di
niente, mettere tutti sullo stesso piano, aggrediti e aggressori, e andare
avanti a forza di tregue puntualmente disattese. Invece avrebbero dovuto dire
fin dall'inizio che la Serbia è l’aggressore, che Milosevic sta facendo quello
che ha fatto Hitler. E l’Europa, ora come allora, fa finta di non vedere, prosegue
con la solita politica di appoggiare l’uomo forte purché mantenga la
tranquillità nella zona, con la speranza che prima o poi si calmi. Così facendo
offre molte speranze a tutti i dittatori del terzo mondo che stanno giusto
aspettando di vedere come reagisce la comunità internazionale di fronte a
questi fatti, per trarne poi le loro conseguenze».
Potevo dire: «La guerra
contro Saddam è giusta? Rigiro la domanda: è giusta la pace attuale che ha
permesso a Saddam di assassinare 500.000 iracheni? E di scatenare negli anni
Ottanta una guerra contro l’Iran costata 2 milioni di morti? Per chi esiste la
pace? Per gli europei, non certo per gli iracheni. Saddam, come ogni dittatore,
è innanzitutto un problema per il suo popolo. Dunque fanno bene gli americani
ad ammassare truppe nel Golfo? Di sicuro bisogna mettere fuori gioco il
dittatore di Baghdad. Il dittatore iracheno è uno che non si fa scrupoli a
usare le armi chimiche. Se ne è già servito per far fuori migliaia di curdi del
Nord dell’Iraq».
Potevo dire: «Può darsi che una guerra metta in discussione
l’establishment del mondo arabo, ma credo che i cittadini di quel mondo siano
esattamente come noi. Nel senso che il diritto alla libertà e la democrazia non
è un lusso dei Paesi occidentali, ma è un’aspirazione dell’essere umano. E’
vero che, per anni, abbiamo, per la stabilità, sostenuto delle dittature arabe
che sono state – come si dice? – gli “amici” dell’Occidente. Forse dovremmo
imparare a non ripetere gli errori del passato, a non innamorarci dell’uomo
forte e della soluzione rapida e a prestare un po’ più di attenzione alle
istituzioni democratiche forti alla loro costruzione».
Potevo dire: «Abbandonare
gli iracheni (come i ceceni e ieri i bosniaci e tanti altri) nell’ora del
bisogno e in un momento cosi decisivo per il loro futuro, non ha nulla di
nobile. Non è un comportamento di cui noi democratici, potremo mai andare
fieri».
Potevo dire: «La comunità internazionale ha la responsabilità di
liberare un intero popolo tenuto in ostaggio da una banda di fanatici. L’intervento
militare, se avrà successo, svolgerà la funzione della polizia che neutralizza
i sequestratori».
Oggi, no. Oggi mi corre l’obbligo di adeguarmi alle decisioni
dell’esecutivo di cui faccio parte o di dimettermi in dichiarato dissenso. Quest’ultima
sarebbe una posizione poco popolare, come d’altronde lo era quella di ieri, che
era definita guerrafondaia, amerikana, neocon, ecc. Ma ieri non ero ministro, mentre oggi ci tengo a rimanere tale. Qualcuno mi accuserà di incoerenza, di opportunismo
o peggio, ma via, come cazzo ti muovi, dispiaci a qualcuno. I miei compagni
radicali, per esempio? No, quelli no, quelli sono dei maestri in
quasi-argomenti e avere uno di loro alla Farnesina li gratifica da matti. Sì,
può darsi che qualcuno mi farà notare… Ecco, quel Mecacci, per esempio…
«Cara
Emma Bonino, scusami tanto ma da radicale oggi non posso non dirti che la
posizione del governo sulla questione siriana non è solo timida e non è solo
sbagliata ma è ipocrita, utopistica, anti umanitaristica e, molto
semplicemente, anti radicale… Di fronte all’accertamento dell’uso di armi
chimiche in un paese all’interno del quale negli ultimi due anni sono state
uccise 110 mila persone e dove quasi due milioni di persone si sono ritrovate
nello status di profughi di guerra, dire che la risposta giusta che l’Italia deve
dare coincide con le parole “diplomazia” e “tavolo di pace” è dire una cosa che
sinceramente non ha alcun senso… Ci siamo forse tutti dimenticati di Sebrenica?
Siamo tutti diventati smemorati? Io invece credo sia giusto ricordare che
l’assedio di Sarajevo è durato quasi quattro anni e che un bombardamento di
trenta giorni della Nato sulle postazioni serbo-bosniache che martoriavano la
città ci fu solo dopo la strage del 28 agosto ’95. Solo così furono salvati
molti civili e solo così fu poi possibile costringere Milosevic a firmare il
parziale accordo di Pace di Dayton. Senza avere indebolito l’esercito di
Milosevic, quella pace, per quanto precaria, non sarebbe stata possibile. E
oggi lo stesso ragionamento vale per Assad: senza cambiare la situazione
facendo perno sulla forza militare, senza andare a colpire i suoi arsenali e
insomma senza attaccare Assad è assurdo pensare che per grazia divina si possa
venire a costituire un tavolo di pace. Il nostro paese oggi si ritrova su una
posizione idealistico-utopistica in cui spera che sia qualcun altro a risolvere
problemi che ci riguardano. Nel mio piccolo, da militante radicale che ha preso
la sua prima tessera nel 1992 e che per una vita è stato educato a considerare
la promozione dei diritti umani un valore non negoziabile, dico questo: dico
che Bonino sbaglia e dico che nel 2013, cara Emma, non si può consentire che il
diritto internazionale sia un alibi dietro cui nascondere criminali di guerra».
Radicale, senza dubbio, anche se i suoi compagni già lo trattano da traditore.
Senza dubbio, non eracliteo.