lunedì 4 novembre 2013

La frattura tra «umanitario» e «legalitario»


È buona norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni garbati. Ahimè, non sempre è possibile. Spesso, infatti, fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in rissa. Quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile, io ricorro a un espediente che mi si è rivelato sempre efficace: prendo in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata onestà e d’indole affabile, e devo confessare che, quando li ho trovati solidi fino al punto da cambiare idea, dichiararmi sconfitto è stato un piacere.
Il guaio è che con la ristrettissima cerchia di persone cui riconosco tali meriti vado d’accordo su quasi tutto, mentre sul poco che ci vede in disaccordo non vale la pena di polemizzare, perché attiene per lo più a differenze di gusto. Stavolta, però, sul caso Cancellieri, mi è offerta l’opportunità, e da Massimo Bordin, che non ha eguali, a mio modesto avviso, per intelligenza, rettitudine e signorilità. Posso così trascurare del tutto gli argomenti che in favore del Guardasigilli sono stati fin qui prodotti da ingenuità o malafede, con ciò evitando il rischio di scivolare nell’invettiva, per prendere in considerazione solo quelli che Massimo Bordin ha esposto nel corso della rassegna stampa di lunedì 4 novembre, dai microfoni di Radio Radicale.
Occorre, tuttavia, una precisazione: i suoi argomenti, in realtà, sono controargomenti, rapide e asciutte annotazioni polemiche a margine degli articoli di quanti stigmatizzavano la condotta del Ministro della Giustizia. Argomenti non per questo meno efficaci di una vera e propria difesa del suo operato, e con una ben chiara linea, tutta in punta di principio. E qui mi pare ci sia il primo punto debole dell’argomentazione offerta da Massimo Bordin, perché in difesa di questo principio, che è quello più correntemente detto «umanitario», un altro principio, quello più correntemente detto «legalitario», trova modo di essere degradato a mera pulsione «giustizialista», a cieco arco riflesso che trasforma il sacrosanto bisogno di giustizia in bieco desiderio di vendetta, in crudele accanimento su un capro espiatorio che perde ogni dignità di persona per farsi vittima sulla quale una plebe inferocita abbia a sfogare ogni sorta di disagio e di malessere.
Perché il principio «umanitario» possa degradare in tal modo quello «legalitario» occorre dimostrare che il primo non sia meno «giusto» del secondo, ma che anzi il primo abbia in sé una logica che non si esaurisce nella pietà, ma fa vera «giustizia», mentre il secondo piega la «legge» a un’urgenza deterrente o punitiva che riduce il colpevole, e spesso anche solo il presunto colpevole, al reato ascrittogli da un’accusa che considera ogni garanzia un ostacolo al soddisfacimento di quella urgenza. Sembrerebbe d’essere, in buona sostanza, dinanzi a quanti vogliono a tutti i costi vedere nell’operato di Anna Maria Cancellieri un abuso di potere trascurando gli elementi che fanno della sua «umanità» la più genuina espressione di ciò che la «legge» deve essere per realizzare «giustizia».
Qui potremmo levitare ai massimi sistemi. Potremmo farci aiutare da Jacques Derrida nel definire la relazione tra «legge» e «giustizia» (Force de loi, 1994). Potremmo addirittura riandare alla filogenesi del diritto come espressione di quella «teologia politica» che si assume il compito irrealizzabile di trovare in terra un equilibrio, se non la sintesi, di «carità» e «verità» (Der Nomos der Erde, 1974). Meglio rimanere con i piedi a terra e, pur riconoscendo nel caso Cancellieri tutti gli elementi che consentono una presa di posizione istintivamente «umanitaria» o «legalitaria», limitiamoci a considerare esclusivamente quelli che reggono sul piano razionale.
Non c’è ombra di dubbio che il provvedimento in favore di Giulia Ligresti sia stato «umanitario» o che in tal modo sia presentabile a chi lo considera inopportuno per il solo fatto di aver avuto il primum movens nell’interessamento personale del Guardasigilli. In primo luogo, tuttavia, è da risolvere un problema che di fatto è posto dall’ambiguità della difesa in favore di Anna Maria Cancellieri. Da un lato, infatti, si afferma che l’interessamento personale ci sia stato, d’altronde appare innegabile dalla lettura della conversazione telefonica intercorsa il 17 luglio tra il ministro e Gabriella Fragni, nella quale, però, non si fa mai cenno a Giulia Ligresti, ma solo a suo padre. Torneremo ancora su questa telefonata, per quello che lo stesso Massimo Bordin non ha difficoltà ad ammettere sia il suo contenuto «imbarazzante», d’intanto limitiamoci a rilevare che l’interessamento personale di  Anna Maria Cancellieri in favore di Giulia Ligresti è dato per certo nella telefonata intercorsa tra Antonino Ligresti e Gabriella Fragni, il mese dopo, prima che le condizioni della detenuta siano definite a rischio dai sanitari. Significherebbe che l’interessamento personale del ministro ci sia stato in previsione di un rischio di là da venire, e di fatto non accertabile in anticipo.
D’altro canto, però, si afferma che l’interessamento del Guardasigilli in nulla sarebbe diverso da quello speso in favore di altri detenuti, e dunque non sarebbe «personale» nel senso che gli si intende dare per insinuare un trattamento di favore. Bene, tale affermazione regge solo sul piano formale, perché in sostanza è falsa: degli oltre 100 casi portati all’attenzione di Anna Maria Cancellieri solo 6 hanno avuto un esito analogo a quello che riguardava Giulia Ligresti, e si tratta di casi in cui l’interessamento del ministro c’è stato solo dopo che le condizioni dei detenuti erano state definite a rischio dai sanitari, oltre al fatto che hanno ottenuto analoghi benefici solo poco prima e poco dopo la scarcerazione di Giulia Ligresti. Ovviamente quest’ultimo rilievo può sembrare malizioso, ma assume un discreto peso se rapportato ai detenuti morti in carcere dal momento in cui Anna Maria Cancellieri è diventato ministro della Giustizia ad oggi.
L’obiezione a questi dati, che hanno significato per nulla ambivalente, è che il Guardasigilli fa quello che può, a partire dai casi che arrivano alla sua attenzione. È obiezione che solleva un problema più grosso di quello che intendeva risolvere, perché i canali che consentono a un detenuto di arrivare o no al ministro della Giustizia sono giocoforza diversi, sicché arrivarci o no costituisce un elemento di discrimine che è posto a priori della sua carcerazione. Nel caso di Giulia Ligresti sappiamo i modi in cui era posto. Sarà stata millanteria, ma Salvatore Ligresti ha vantato di essere stato utile alla carriera di Anna Maria Cancellieri: non è in questione perché l’abbia fatto, ma il fatto che abbia ritenuto di poterlo fare con la possibilità di essere creduto.
In quanto alle intercettazioni telefoniche che hanno sollevato il caso, appare in tutta evidenza che la famiglia Ligresti vantava nei confronti di Anna Maria Cancellieri dei crediti di natura tutt’altro che amicale. Anzi, ad essere onesti, sembra che l’aver dato un impiego a suo figlio, descritto dai Ligresti come un buono a nulla, fosse stato solo un investimento, che sembrava dare scarso profitto a fronte del costo. Poco importa cosa pensasse Anna Maria Cancellieri dei Ligresti prima di essere messa a corrente del contenuto di queste intercettazioni, e poco importa cosa pensi ora: di fatto si è posta nella condizione di lasciar credere ai Ligresti di poter tornare loro di qualche utilità. Poco importa, dunque, se nella faccenda ci siano gli estremi del reato, anche se questa non è questione da accantonare: ciò che importa è che quanto Giulia Ligresti ha avuto modo di ottenere sia di fatto negato a quanti non hanno una famiglia che possa rivolgersi a un ministro con la stessa convinzione di poter vantare crediti.
Qui cadono tutte le possibili obiezioni relative al ruolo realmente svolto da Anna Maria Cancellieri nella scarcerazione di Giulia Ligresti, perché a chiunque il ministro abbia inoltrato la richiesta di accertamenti riguardo alle condizioni della detenuta era la richiesta di un ministro e aveva via privilegiata. Pare evidente, infatti, che non ci sia bisogno si sostanzi un elemento di induzione o di costrizione perché una richiesta del genere abbia possibilità di avere buon esito in misura direttamente proporzionale al ruolo che chi la sollecita occupa nella scala gerarchica che dal Guardasigilli scende fino al detenuto. 
Non c’era bisogno di abuso di potere, bastava il potere discrezionalmente esercitato dal ministro, che in questo caso è fin troppo chiara negazione dell’elemento cardine del principio «legalitario», che è quello dell’uguaglianza dinanzi alla «legge». In tal senso, possiamo affermare che un intervento «umanitario» che di fatto realizza un momento di disuguaglianza dinanzi alla «legge» rimane «umanitario», ma non è necessariamente «giusto». La lesione si realizza nella telefonata del 17 luglio ed era prefigurata nei rapporti tra Anna Maria Cancellieri e la famiglia Ligresti, come è già accaduto nel maggio dello scorso anno, quando il Guardasigilli era ministro degli Interni: una proprietà dei Ligresti fu occupata da un centro sociale e lo sgombero avvenne a tempo di record. La proprietà privata è sacra, non c’è dubbio, e lo sgombero era necessario. Non meno necessario, però, di quelli che invece non vengono effettuati a soli 10 giorni dall’occupazione, come accadde l’anno scorso con la Torre Galfa dei Ligresti. Non ci sono prove che Anna Maria Cancellieri si sia attivata in quella occasione, ma oggi come può respingere il sospetto?
A parte, dicevo, ci sarebbe da commentare nel dettaglio la telefonata del 17 luglio. Anna Maria Cancellieri non si limita a consolare unamica, ma fa suoi i pesanti giudizi sulla magistratura ai quali si lascia andare la moglie di un detenuto, avalla le risibili attenuanti che basterebbero a scagionarlo e dà colpa dellaccaduto a come vanno le cose in Italia. Basterebbe questo a renderla incompatibile con la carica che riveste. 

domenica 3 novembre 2013

Anna Maria Cancellieri tra i «radicali»

I tomi II e IV dell’Opera omnia di Gaetano Salvemini (Feltrinelli, 1961-1978) e numerosi articoli di Ernesto Rossi per Il Mondo, soprattutto quelli pubblicati tra il 1949 e il 1952, poi raccolti in Settimo: non rubare (Laterza, 1954), contengono passaggi di estrema durezza nella condanna dei privilegi che producono disparità di trattamento dinanzi alla legge, e che di fatto sono la negazione della democrazia. Non c’è da stupirsene: erano radicali, e per un radicale lo stato di diritto è a fondamento di ogni libertà e di ogni giustizia che non siano vuote parole, ma concreta sostanza del vivere civile. Non si fa alcuna fatica a immaginare, dunque, cosa avrebbero scritto su un caso come quello di Anna Maria Cancellieri.
Avrebbero scritto che da almeno due decenni è in affettuosissimi rapporti con un imprenditore plurindagato e plurincondannato che sempre ha unto tutto quello che poteva ungere per procacciarsi appalti a danno dei suoi concorrenti. Che suo figlio è stato dipendente di questo imprenditore, traendone un utile esorbitante se rapportato alle sue prestazioni, come andava lamentando chi a saldo le aveva chiesto un favore che non veniva corrisposto con la sollecitudine desiderata. Che nell’adoperarsi per corrispondere questo favore, se non in abuso d’ufficio, è incorsa in un odioso uso della discrezionalità d’intervento.
Salvemini e Rossi, però, erano anche superbi polemisti e non avrebbero avuto alcuna difficoltà a spezzare le zampette di chi prova a difendere l’operato di Anna Maria Cancellieri. «Non è intervenuta solo in favore di Giulia Ligresti, ma anche di altri sei detenuti»: sì, ma basta un’occhiata alle date per capire che i sei fortunati le servissero da alibi. «Se rimaneva in carcere, Giulia Ligresti poteva morire»: dunque bisogna addebitare ad Anna Maria Cancellieri tutti i decessi avvenuti in carcere da quando è Guardasigilli? «Ma le intercettazioni portano a escludere che si sia trattato di corruzione, concussione o altro reato»: sia, ma in discussione non è il penale, ma la disciplina e l’onore che la Costituzione chiede ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, e nel caso di un ministro della Giustizia, al venir meno di onore e disciplina, vengono meno credibilità ed affidabilità, sicché si è in presenza di un gravissimo vulnus allistituzione e a quanto listituzione è chiamata a difendere. «Anna Maria Cancellieri deve dimettersi», avrebbe concluso Salvemini; e Rossi, che era appena un poco più sanguigno, avrebbe aggiunto: «Deve farlo subito».

Quelli che oggi si fanno chiamare «radicali»? Meglio non parlarne. Cioè parliamone.
Anna Maria Cancellieri era ospite al XII Congresso di Radicali Italiani, e non poteva eludere la questioncina che la invischia. L’ha trattato nel seguente modo, e mi pare che le reazioni dei «radicali» lì convenuti non abbiano bisogno di commento. 


Alla signora sono bastate due vuote chiacchiere sulla «umanità» e un indecoroso appello alla «onestà intellettuale» per cavarsela alla grande. Non poteva essere altrimenti: si è detta in favore di amnistia e indulto (tanto non è lei a dover decidere, la cosa non la impegna, tuttal più le torna utile, soprattutto adesso) e ha degnato della sua presenza un congresso disertato dall’80% degli stessi «radicali» (non ci vanno perché sanno che è del tutto inutile, tanto l’esito si decide altrove, e prima). Come dire, ci si dà una mano, e va a capire chi ne abbia più bisogno, se una manica di sfessati ormai buoni solo a reggere il logoro strascico di un vecchio matto o un ministro della Giustizia che ormai sembra avere la fiducia solo di chi sul caso Ruby votò la mozione Paniz. Salvemini e Rossi? Morti da tempo, in tutti i sensi. 

sabato 2 novembre 2013

[...]



Lui non era nipote di Mubarak e lei non aveva dato lavoro al figlio del Guardasigilli.

giovedì 31 ottobre 2013

[...]

Sulla questione «voto palese o voto segreto» risparmiamoci l’excursus storico dalla Grecia antica ai nostri giorni, e limitiamoci a considerare che, oggi, a lamentare la decisione di ricorrere al voto palese lì dove era pratica corrente quello segreto, decisione presa a maggioranza semplice dalla Giunta per il Regolamento di Palazzo Madama, sono proprio quelli che, ieri, lamentavano l’intoccabilità della Costituzione, chiedendone modifiche col voto a maggioranza semplice: gli articoli della Costituzione non sono mica le Tavole della Legge, dicevano ieri, e oggi, a sentirli, sembra che a portare giù dal Sinai il Regolamento del Senato sia stato Mosè in persona. Non è la prima volta che i servi di Silvio Berlusconi mostrano tenuta malferma su questioni di principio, e di certo non sarà l’ultima, ma è che di principi ne hanno uno solo, la fedeltà al padrone. La questione di merito, in casi come questi, si riduce a questione di metodo, e questa non può che risolversi nella presa d’atto dell’esito di un voto. Prosaicamente: l’hanno preso in culo e devono farsene una ragione. 

martedì 29 ottobre 2013

lunedì 28 ottobre 2013

Bacino, ancora niente

Twitto poco – dall’apertura dell’account ad oggi ho calcolato una media di 1,4 tweet al giorno – e la ragione sta nel fatto che «in 140 battute entrano tre splendidi endecasillibi o una scatarrata di insulti, ma non si riesce ad argomentare un cazzo» (@lmcastaldi, 19.3.2012 il primo tweet, mettevo le mani avanti). Sì, tra il certame in versi e la rissa da suburra c’è anche la conversazione mondana, che spesso può essere brillante anche solo monosillabando, concordo, ma quella non è il mio forte. O c’è il link a quella strepitosa cosuccia che si è postata due minuti fa sul proprio blog, non sarebbe un vero peccato se l’umanità se la perdesse? Tre o quattro volte l’ho fatto anch’io, però provando subito dopo un certo imbarazzo, e ho preferito accontentarmi che il post fosse segnalato da altri, quando capitava. Poi ci sarebbe pure il commento televisivo in diretta, e non nego che può esser pure divertente, ma almeno per me è sempre a un passo dal deprimente. Idem per il ribattere ai tweet altrui, chessò – faccio un esempio – quelli di Roberto Formigoni: anche quando ti alza la palla per darti l’opportunità di una micidiale schiacciata, e non c’è tweet che non te ne alzi una, schiacci, rischiacci, rischiacci ancora, ma poi finisci per chiederti «è più cretino lui a provocare o io a cascarci?». Twitter, insomma, non fa per me. Non in scrittura per lo meno, perché in lettura lo considero un simpatico spioncino. Simpatico, però pericoloso, perché può dare la stessa illusione di stare a far sociologia che si può coltivare porgendo orecchio alle chiacchiere in metrò o in fila al supermercato… Vabbe’, basta così, sennò prendo la tangente, in fondo si trattava solo della premessa a un post che prende spunto da due scambi di battute che ho avuto poco meno di un mese fa su Twitter.
Era la sera di martedì 1° ottobre, tutto il social network vibrava nell’attesa di quello doveva accadere l’indomani, e su cosa dovesse accadere sembrava non ci fosse ombra di dubbio: Silvio Berlusconi avrebbe tolto la fiducia al governo, questo avrebbe significato la spaccatura del Pdl, la fine del Ventennio… Figurarsi. Figurarsi se a questa possibilità, che – occorre sottolineare – era pur sempre soltanto una possibilità, Silvio Berlusconi non avrebbe messo riparo da par suo. C’era solo un modo, ed era quello di non far cadere il governo, per prendere tempo. Significava fare una micidiale figura di merda, peraltro mostrandosi sconfitto due volte agli occhi del mondo, in casa e fuori. Il voto a Palazzo Madama era solo di lì a poche ore dall’annuncio ufficiale che avrebbe votato la sfiducia e i suoi fedelissimi lo avevano sottoscritto con parole di fuoco. Il governo sarebbe caduto? Chissà. I cinque senatori a vita di fresca nomina, qualche «responsabile», una dozzina di grillini… Poteva non cadere, e allora la sconfitta sarebbe stata atroce. O poteva cadere, ma chi gli assicurava che si andasse alle urne? Certo non il Quirinale. Dalle urne, d’altronde, chi gli assicurava di non prendere legnate? E poi: avrebbe potuto ricandidarsi? La Giunta per le elezioni e le immunità del Senato avrebbe funzionato anche a Camere sciolte, e di lì a due o tre settimane la Corte di Appello avrebbe emesso la sentenza sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Poteva ricorrere in Cassazione anche su quella, ma intanto, a Camere sciolte, non sarebbe stato più senatore e una qualsiasi procura avrebbe potuto chiedere, e ottenere, un provvedimento di custodia cautelare nei suoi confronti per una delle tante accuse che gli pendono sul groppone. Che fare, dunque? Il governo, innanzitutto, non doveva cadere. Questo gli avrebbe dato modo di congelare la scissione del Pdl che sembrava essere cosa fatta con l’annuncio della costituzione di un gruppo parlamentare da parte dei cosiddetti «governativi». Doveva scongiurarla. Doveva prendere tempo. Solo così avrebbe avuto modo di rosolare le «colombe», evitando per giunta di dover usare lo spiedo lungo che era servito per Gianfranco Fini. Non c’era altra soluzione: doveva votare la fiducia al governo. Il resto si sarebbe visto poi, ma votare la fiducia era indispensabile. Era un prezzo enorme? Lo sarebbe stato per chiunque avesse avuto un minimo di dignità, anche solo due grammi, ma la sola dignità di Silvio Berlusconi sta nella cura dei cazzi suoi.
Ecco, per spiegare per quale ragione lo stupore generale del 2 ottobre poteva trovare spiegazione solo nella piatta ottusità di quanti continuano a rimanere ogni volta spiazzati dalle sue trovate solo perché usano la loro testa invece di provare a ragionare con la sua, ci ho messo le oltre 2.500 battute spazi inclusi dellultimo capoverso. Ok, sarò verboso, convengo, ma ognuno ha i propri limiti, e non sono riuscito ad argomentare più sinteticamente. Dovendo ridurre il tutto a 140 battute – erano le 22.00, la mattina dopo avevo la sveglia alle 5.00, un post su queste pagine mi avrebbe preso troppo tempo potevo far meglio di così?  


Boh, non saprei dire. Anche a posteriori, non saprei dire. Sta di fatto che, anche a fronte di ciò tutto che Silvio Berlusconi ci ha mostrato di se stesso da quando è «sceso in campo» fino a quella sera, il tweet destò perplessità. Due perplessità. Una, espressa in modo garbato, rivelava il buon senso chi la sollevava, e il buon senso – consentitemi la digressione, che piglio a prestito da Ortega y Gasset  non viene mai meno al dovere di trattare il prossimo alla pari. Ma il buon senso è uno strumento efficace per prevedere le mosse di chi ha per solo movente la lucida disperazione di chi avverte il pericolo  reale o allucinato – di aver tutto da perdere? Silvio Berlusconi è un criminale. O un malato. O entrambe le cose. Dinanzi ad un soggetto del genere la logica che regge il buon senso non può essere più efficace di quanto possa esserlo la conoscenza dell’anatomia felina nella gabbia di un leone che non mangia da una settimana.  


Proprio perché non reggeva al buon senso, la previsione era probabile. E così i fatti si sono incaricati di renderla possibile fino allinevitabile.
La seconda perplessità era espressa in tuttaltro modo. Sul fondo, riportato alla luce dalla frequentazione con gli Angelucci, era ben evidente la nascita in quel di Castellammare di Stabia, mentre tutto intorno ai margini dellabrasione persisteva il sottile strato di smalto spennellato in quel di Londra. 


Quasi un mese è passato. Silvio Berlusconi ha ormai ricompattato il partito. Pare sia intenzionato a candidare sua figlia alle prossime elezioni. Bacino, ancora niente. 



sabato 26 ottobre 2013

venerdì 25 ottobre 2013

Francesco Bucci - Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante - Soc. Ed. Dante Alighieri, 2013

Dubbia è la radice di ακρίβεια, che in Tucidide sta per diligenza, in Platone per precisione, in Aristotele per rigore, nella Bibbia dei Settanta per esattezza, e che arriva nel nostro lemmario dall’uso che se ne fece nell’Ottocento tedesco, dove Akribie stava per la virtù del filologo e dello storico che eccellono in meticolosità. Da noi divenne acribia, e fu subito degradata a pignoleria, difficile capire se per quella nostra inclinazione al pressappoco che nella cura minuziosa e assidua dei dettagli vede un ostacolo alla comprensione intuitiva del tutto (dobbiamo questo cancro a Benedetto Croce), o se non fu piuttosto per come il termine suona all’orecchio: non sentite un che di acre e di bilioso, sennò di borioso, nell’acribioso? Se siamo costretti a sospendere la questione sul piano etimologico, perché ormai ci è impossibile capire quanto discernere (άκρατος) e quanto assodare (βέβαιος) ci fosse nell’ακρίβεια dei greci, non è vano porcela su quello della cosiddetta psicologia morale, perché non c’è ombra di dubbio che, di là dai suoi risultati, l’acribia ha un movente di natura etica, e infatti l’acribioso ha sempre un Über-Ich spietato, perciò raramente inefficace.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork dcopia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dallIntroduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con moralenatura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso allautorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.     

lunedì 21 ottobre 2013

Il sogno di parlare col papa




Il sogno di parlare col papa è il ridicolo di certi atei, d’altronde il ridicolo incombe su tutti, credenti e non credenti, sempre, perché è un infortunio della vanità, e la vanità è una debolezza umana. Nel caso degli atei che sognano di parlare col papa, la vanità sta nella presunzione di invincibilità dei propri argomenti contro la fede, che già in se stessa reca un grave rischio di infortunio, perché il miglior argomento contro la fede è l’indifferenza al problema di Dio. L’infortunio vero, però, si realizza nel desiderio di voler dar prova di tale invincibilità nel tenzone con chi si ritiene abbia i migliori argomenti in favore della fede, e nel ritenere che questi sia il papa, qualunque papa. Non è così, ovviamente, perché Tommaso d’Aquino era senza alcun dubbio un osso più duro di Niccolò IV, e Blaise Pascal di Innocenzo X. Bene, ritenere che, per il semplice fatto di essere assiso al vertice dell’istituzione che custodisce e difende la fede, il papa abbia i migliori argomenti in favore dell’esistenza di Dio, della sua incarnazione in Cristo, e via dicendo, è un implicito riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo nel corpo della storia. Non è un caso, infatti, che il sogno di parlare col papa sia ricorrente anche in chi nutra la certezza di riuscire a convincerlo circa la bontà della propria eresia o della propria riforma.
Tolti i casi in cui l’ateo si procuri da vivere grazie al suo ateismo e cerchi nella polemica diretta col papa un’occasione di promozione pubblicitaria alla sua professione, il discrimine in materia sta nell’asimmetria della finalità dell’argomentazione: dal papa all’ultimo dei pretonzoli, e al più fesso dei credenti, chi crede vuol convertire chi non crede, a tutti i costi; gli argomenti dell’ateo, invece, sono per lo più difensivi, e mirano a dimostrare che questa fregola è tanto più molesta quanto più la sostanza del credo sia inconsistente e quanto più gli effetti della conversione si rivelino sempre, in ultima istanza, deleteri.
Qui, però, occorre porre un distinguo sul «credere», che è termine insidioso, come dimostra il frequente uso del sofisma che vorrebbe comunque «credente» («in altro», si è soliti dire) chi non crede nell’esistenza di Dio, nella sua incarnazione in Cristo, e via dicendo. Il distinguo sta nell’accezione che si intende dare a «credo»: se vuol dire «penso», «reputo», «ritengo», la fede non c’entra un cazzo, e il sofista andasse a farsi fottere.
Trattandosi di debolezza umana, possiamo dire che il ridicolo è tragicomico. Si pensi all’«ingenioso hidalgo» che andava in giro con un catino di barbiere in testa credendolo l’elmo di Mambrino, e lo si compari al «matematico impertinente» (Longanesi, 2005) che s’è fatto dare pubblicamente del coglione da Ratzinger e, invece aprirgli il culo a spicchi, ne mena vanto, oppure all«uomo che non credeva in Dio» (Einaudi, 2008) che al vicario di Cristo in terra ha offerto a gratis diverse pagine di pubblicità sul giornale che ha fondato, e ne va tutto fiero. In entrambi i casi, l’infortunio della vanità precede dalla cattiva digestione di un mito: nel primo caso, fu il mito della Cavalleria a precipitare nel tragicomico il povero don Quijote de la Mancha; nel secondo caso, è il mito di Voltaire che intrattiene carteggio con Papa Lambertini ad aver giocato un pessimo tiro a Piergiorgio Odifreddi e a Eugenio Scalfari. D’altra parte, chi ha studiato il fenomeno della Cavalleria sa bene che di nobile aveva solo un leggero strato di retorica in superficie. In quanto a Voltaire, anche lì si trattava di un tentativo di autopromozione.

In capo al post ho riprodotto uno scorcio di pag. 9 del numero di Panorama del 19 marzo 1970, a firma di Guido Calogero. Se non sapete chi fosse, possiamo cavarcela in meno di tre righe: in quanto a onestà intellettuale, Eugenio Scalfari dovrebbe fargli una pippa; in quanto a vastità di sapere e a profondità di pensiero, Piergiorgio Odifreddi non ne vale un pelo del cazzo. E tuttavia anche Guido Calogero era un uomo: anche a lui scappò il sogno di parlare col papa, anche se si trattava solo di un espediente retorico per riempire la paginetta della sua rubrica. Ve ne risparmio il contenuto, a grandi linee dirò che si trattava di una peroratio a Paolo VI, che due anni prima, con lenciclica Humanae vitae, aveva gelato le speranze dei cretini che nel Concilio Vaticano II avevano intravisto chissà cosa. Vi offro solo il finale, per darvi la misura del ridicolo nel sogno di parlare col papa.

  




sabato 19 ottobre 2013

[...]

«Signore, col pretesto di tenere un bordello,
vostra moglie vende stoffe di contrabbando!»



Si parva licet, Michele Santoro è passato dall’invettiva di Tacito al pettegolezzo di Svetonio, che nel giornalismo è passo assai più lungo di quello che dalla fermata d’autobus davanti alla Procura di Milano ha portato Paolo Brosio a Medjugorje, ed è passo irreversibile. A questo punto è inutile dirgli: «Basta con le olgettine, raccontaci il paese», il suo senso critico è irrimediabilmente sceso ai livelli di Alfonso Signorini, di cui vuol essere la negativa fotografica. Che glielo dica Massimo Cacciari o un coro greco di cassintegrati, fa lo stesso: si parva licet, in Caligola vede ormai solo il vizioso, eventualmente il folle. Con ciò, l’imperatore smette di essere problema politico e diventa questione morale, e le questioni morali, si sa, amano andare fuori contesto, di là dai casi che le sollevano, si fanno apologo e, quando trovano una persona per darle antonomasia, si spersonalizzano... In fondo, il favore più grosso che Servizio Pubblico ha finora fatto a Silvio Berlusconi non è stato rilanciarlo alle ultime elezioni politiche, ma farlo diventare una categoria morale. Come il tributo a un monumento.

giovedì 17 ottobre 2013

Io sto con Gnocchi e Palmaro


Ho rinunciato ad aprire una cartella di collazione degli atti e dei detti notevoli di Bergoglio, sapevo fosse una fatica inutile, ci avrebbero pensato gli ultras cattolici ai quali sta sul cazzo fin da quel «buonasera» di sei mesi fa, nel caso avrei potuto attingere dalla cartella che aprirono quella stessa sera. Lì dentro, giorno dopo giorno, hanno ficcato tutto quello che Bergoglio andava facendo e dicendo, agitando nei loro cuori tutta la gamma delle emozioni dallo sgomento allo sdegno. Li capisco, poverini, anche per loro Bergoglio non è che una bagascia, e per chi ha un bisogno quasi biologico di stare inginocchiato davanti un papa dev’essere un tortura indicibile sta lì col ginocchio piegato, ma senza poterlo poggiare, perché al posto di un pontefice ci sta un esperto di marketing chiamato a rimettere in sesto la ditta.
Li capisco, perché sto in analoga condizione: ho un palmo della mano destra sospeso in aria, pronto a mollare uno schiaffone, ma il cerone sul volto del cattolicesimo post ratzingeriano è così abbondante che la mano vi impatterebbe scivolando via, per giunta tutta impiastricciata, ci farei la figuraccia di chi scivola su una buccia di banana. Io, il senzadio con lhobby del decostruzionismo, e loro, le pecorelle più candide nel gregge, aspettiamo un altro papa e rimpiangiamo quello andato in pensione: loro per poggiare il ginocchio, io per sferrare lo schiaffone.
Che chiavica di papa, questo Bergoglio. Anche il papa più sifilitico che ci abbia regalato il Medioevo o il Rinascimento sembra un Gigante della Fede al suo confronto: la Tradizione era meglio conservata in una sua pustola che in questa patetica messinscena del poverello d’Assisi che gira in scarpe da tranviere e con borsone da veterinario. Il cattolicesimo non è questa melassa, è un orrido viluppo di bassissimi interessi coperto da un affascinante velo intessuto di sofismi. Ora arriva questo pretonzolo col sorriso à la Stan Laurel e con la zeppola à la Helenio Herrera  e degrada il mostro a un cartone animato, bleah.
Perciò io sto con Gnocchi e Palmaro, i due licenziati in tronco da Radio Maria per aver detto che a loro questo papa non piace, argomentando con la più pura ortodossia, al confronto della quale le bubbole che Bergoglio ha sbaccellato a Scalfari e a Spadaro hanno dignità di eresiucole stortignaccole: il cattolicesimo genuino è il loro, quello di Bergoglio è una volgare contraffazione per fottere il mercato. Sto con Gnocchi e Palmaro, a loro va tutta la mia solidarietà, e con loro levo al cielo la dolente preghiera: «Aridacce un puzzone».

[...]


Nel gran discutere intorno ai funerali religiosi che le gerarchie ecclesiastiche hanno negato a Erich Priebke mi pare non si sia dato il giusto rilievo al fatto che il capitano delle SS fu battezzato nel 1948. Concedergli il battesimo, allora, e negargli i funerali religiosi, oggi – che carognata!  

Πολεμική τέχνη / 2


«Sapeste la sorpresa e l’emozione che si provano nel
ricevere a casa propria un’inaspettata lettera di un Papa»
Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 24.9.2013)

«Buongiorno, Santità, sono sconvolto, non m’aspettavo
che mi chiamasse… Posso abbracciarla per telefono?»
Eugenio Scalfari (la Repubblica, 1.10.2013)


 
Alcuni giorni fa mi sono intrattenuto sulla πολεμική τέχνη, ho detto che può essere considerata come la continuazione del duello con altri mezzi, ma che, col differire il fine di annichilire il nemico in quello di dimostrare che l’avversario ha torto, perde l’equipollenza geometrica che ha col duello nel punto della contestabilità dell’esito, perché l’argomentazione ha un limite insuperabile rispetto a quello della forza bruta, che sta nell’aleatorietà del suo successo, sicché puoi avere i migliori argomenti contro chi ne ha di pessimi, e usarli nel modo migliore, ma questo non ti assicura affatto che la vittoria ti sia riconosciuta da chi è stato chiamato ad arbitrare la contesa, tanto meno dal soccombente, se pure chi arbitra la contesa l’abbia dichiarato sconfitto: a colpi di randello non c’è discussione, in tutti i sensi.
Oggi vorrei soffermarmi su quello che in buona evidenza è un paradosso: se deporre il randello per impugnare l’argomento è da considerare un salto qualitativo sul piano antropologico, com’è che il nuovo strumento si rivela meno efficace del vecchio? La logica che muove l’evoluzione, qui, non è in favore della soluzione migliore? In altri termini: abbiamo deciso di rinunciare all’inequivocabilità dell’esito di un contenzioso risolto a colpi di randello solo per ridurre il numero di teste fracassate? Se così fosse, si dovrebbe dedurre che la logica che informa l’evoluzione, qui, mira a salvare teste piuttosto che a selezionare quelle migliori. D’altra parte, non sarebbero quelle migliori ad essere selezionate grazie al randello. E dunque: a cosa mira questa evoluzione?
Levandole il connotato teleologico che qui le abbiamo appioppato solo per dare un significato motivazionale a quella che abbiamo chiamato «logica», potremmo dire che sostituire argomento a randello sposta l’arbitrato dalla «natura» alla «società» (e metterle tra virgolette come ho fatto con «logica» mi auguro lasci intendere il connotato che appioppo ai due termini). La polemica come continuazione del duello con altri mezzi, infatti, ha il suo prodromo storico nel duello che si svolge nell’arena, dinanzi a un pubblico. Quando il pubblico comincia a cambiare, l’arena si trasforma in piazza e poi in foro tribunalizio: a quel punto il salto è compiuto, e il duello affida l’esito del cimento a un’opinione «sociale» che si arroga una prerogativa prima «naturale». Siamo al punto in cui il duello, ormai già polemica, è sotto la stessa norma che informa l’opinione pubblica del momento storico in cui si consuma la contesa: non può che consumarsi entro la sfera in cui è la stessa opinione pubblica a darsi norma. La retorica, qui intesa come tecnica dell’argomentazione, diventa lo strumento che nel formare un’opinione pubblica pre-giudica il contenzioso, sicché la polemica comincia a diventare sempre più spesso il modo per saggiare la forza dei contendenti sul piano della «logica» che informa la «società»: le teste fracassate dai randelli cedono il passo agli argomenti che hanno il difetto di essere poco persuasivi.
Qui credo che non sia superfluo ripetere ciò che ho scritto in un altro post. Un buon argomento scrivevo deve essere corretto, valido e persuasivo; è corretto quando poggia su premesse incontestabili, valido quando non incorre in tautologie o contraddizioni, persuasivo quando risulta efficace. Non basta che sia solo efficace, dunque, a renderlo buono, perché la persuasività si può ottenere anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza; né basta che sia valido, perché il rispetto della logica proposizionale non assicura un risultato accettabile partendo da false premesse; tanto meno basta sia corretto, perché anche partendo da premesse autoevidenti si può arrivare a conclusioni errate alterando il procedimento attraverso il quale l’argomento viene a costruirsi. (Sul fatto che la «bontà» del «buon» argomento non debba intendersi come qualità morale, e perché, e cosa implichi il fatto, rimando al post in questione.) Il punto sul quale credo sia utile soffermarsi è che un argomento, pur valido e corretto, non è detto che sia necessariamente persuasivo. A costo di tediare il mio lettore, ripeto ancora: la persuasività si può ottenere anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza. E di cosa «vive» il «sociale», se non di quelle premesse che riescono ad apparire ben salde in un determinato contesto storico? Cosa «muove» il «sociale», se non la ricerca della più convincente dissimulazione dell’utile nel giusto, del senso comune nel vero e dell’acconcio nel bello?
Il luogo in cui si consuma la polemica, dunque, ne prefigura in buona misura l’esito. E le tesi che scendono nellagone, ancorché male argomentate, non vi scendono mai sguarnite dell’arma persuasiva che i contendenti ritengono più forte. Perciò – scrivevo –  l’argomentare racconta storia e carattere di chi argomenta, non già del Logos che si incarna in chi ne racconta l’incarnazione: la teoria dell’argomentazione non è l’esegesi di una narrazione mitica, ma il tentativo di decostruire la metafisica. E cosa vuoi decostruire del cattolicesimo, cretino, se nellaccingerti a polemizzare con un Papa ti sdilinguisci in carinerie?

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lunedì 14 ottobre 2013

Sansepolcristi 2.0


Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno tutto il diritto di pretendere che i parlamentari del M5S desistano da ogni iniziativa volta a modificare la Bossi-Fini: da candidati hanno assunto l’onere di rispettare il vincolo di mandato e sottoscrivendo il Codice di comportamento degli eletti si sono impegnati all’attuazione del programma presentato agli elettori, che all’immigrazione non dedica neanche un rigo. Questo, in quanto al metodo. In quanto al merito, invece, c’è da dire che solo chi si ostina a considerare il grillismo come una mutazione in seno al popolo della sinistra può concedersi il lusso di stupirsi per il solenne cazziatone che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno riservato ai senatori del M5S che in Commissione Giustizia hanno votato in favore di una revisione del reato di clandestinità. È che il grillismo pesca elettori ed eletti nel popolo della sinistra, ma ha poco o niente da spartire col tradizionale patrimonio di valori della sinistra, se non con quella sinistra che un secolo fa fu espulsa dal Partito socialista italiano per farsi fascista di lì a qualche anno.
Rinnovo l’invito di qualche mese fa a comparare il programma del M5S e quello di CasaPound, soprattutto ai punti relativi a Economia, Welfare ed Europa: il minimo comune multiplo sta nel «socialismo» mussoliniano del 1919. A scanso di fraintendimenti, però, sarà il caso di ribadire che quel «socialismo» non è ancora il fascismo del 1922, per quanto sia già lontano migliaia di anni luce dal solidarismo internazionalista di Turati, Albertelli, Treves & c., e non è ancora il fascismo del 1936, ma è già nazionalista, sciovinista e revanchista, e non è ancora il fascismo del 1938, ma già ha un’idea di nazione che fonda sullo ius sanguinis. D’altra parte, quando Mussolini è prossimo all’espulsione dal Partito socialista italiano, fa parte dell’opposizione interna che viene detta della «sinistra estrema»: il salto che spicca a destra prende lunga ricorsa da quel massimalismo che ha vocazione più facinorosa che rivoluzionaria. Una banda di pericolosissimi cialtroni che nella crisi dello Stato liberale troveranno il terreno fertile per reclutare rabbia e paura.
È la stessa strada che tentano i sansepolcristi 2.0 del M5S, dunque non c’è affatto da stupirsi, tanto meno da scandalizzarsi, che al momento siano costretti a lisciare il pelo alla bestia: la Bossi-Fini non si tocca, i sondaggi dicono che alla gente piace.   

domenica 13 ottobre 2013

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[I post che ho dedicato alla Vocazione di San Matteo del Caravaggio (1, 2, 3) mi hanno procurato l’immenso piacere di uno scambio epistolare con un autorevole studioso di storia dell’arte nei cui confronti ho sempre nutrito immensa stima. Non me ne ha fatto divieto, ma eviterò di farne il nome, perché il fatto che mi abbia contattato per dare il suo fin troppo lusinghiero avallo alle mie riflessioni potrebbe metterlo a rischio di qualche speciosa molestia di rimbalzo. Se ne parlo, d’altronde, è solo per dare una spiegazione al post qui sotto, che è stato scritto su suo espresso invito, e che senza questa premessa potrebbe essere letto senza riuscire a coglierne il registro ironico, peraltro esplicito fin dal titolo: in una delle sue e-mail mi ha chiesto di produrgli un esempio di quelle disavventure che capitano – avevo scritto in risposta al commento di un lettore – a «tanta critica d’arte, che, per liberarsi dal rigore dell’analisi scientifica dell’opera (contesto storico, tecnica, ecc.), vola per i cieli dell’interpretazione arbitraria» e «piega gli elementi formali dell’opera d’arte alla concettuosità di chi la guarda», sicché accade che «la tela deve adattarsi a ciò che l’occhio vede in essa». Quanto segue, con dedica, è l’esempio richiestomi.]




Il Tondo Doni come psicobiografia gay di Michelangelo



   
È opinione corrente che la scena dipinta da Michelangelo Buonarroti nel Tondo Doni raffiguri Maria nell’atto di prendere il piccolo Gesù dalle braccia di Giuseppe che glielo sta porgendo. Tutto sbagliato, si tratta esattamente del contrario: è Maria che porge Gesù a Giuseppe. Questa lettura consente di liberare l’opera dalla fredda analisi formale che la liquida come «punto di partenza del Manierismo» per farne un vero e proprio diario dell’anima dell’artista.
Prima di passare a considerare i significati che si sprigionano dall’opera se letta in questo modo, diciamo subito che questa lettura non confligge con quanto è assodato sul piano storico in relazione a ciò che ne spiega genesi e struttura. Se infatti la scena starebbe a rappresentare il «dono» di Gesù che Giuseppe fa a Maria, in evidente allusione al cognome del committente, Agnolo Doni, la lettura alternativa di Maria che «dona» Gesù a Giuseppe non la contraddice.
Peraltro, le posture dei tre personaggi della Sacra Famiglia sono compatibili con entrambe le letture, anzi, quella alternativa qui proposta risulta ancora più convincente. Gli occhi di Giuseppe, infatti, sono rivolti verso il «dono», com’è naturale in chi compia l’atto di riceverlo, mentre in Maria, che lo sta «donando», analogo sguardo è giustificato, dato il gesto di porgere il «dono» a chi è posto alle sue spalle, dalla premura di verificare se la presa sia sicura.


Non è tutto, perché è evidente sotto il piede destro di Gesù un lembo della veste di Giuseppe, nella quale è verosimile che il piccolo stia per essere avvolto. 


Non così nel modo in cui è raffigurata Maria, che in grembo ha un libro del quale si sarebbe liberata se stesse per accogliervi il bambino.


Che sia Maria a porgere Gesù a Giuseppe, dunque, oltre che possibile è assai più verosimile che viceversa.
Qui occorre rammentare che Michelangelo restò orfano di madre alla tenera età di sei anni: come non pensare al gesto della madre che prima di morire affida il figlio al padre? Si badi bene: il piccolo perde la madre mentre è in piena fase edipica. Non c’è bisogno di salire sullo scaletto per tirar giù dagli scaffali alti i classici della psicoanalisi per trovare conferma che qui siamo dinanzi ad uno dei quadri clinici che predispongono il soggetto ad una conversione nevrotica che possa sfociare in una scelta omosessuale. Bene, basta spostare lo sguardo alla scena rappresentata sullo sfondo del Tondo Doni per cogliere, nelleloquenza simbolica del gruppo di efebi nudi, tutta la gamma dei correlati comportamentali dellomofilia: dal gioco e dall’abbraccio che sono la solare rappresentazione della felice e innocente pederastia in Platone e in Virgilio,   


al torvo cipiglio di sfida e alla presa che ghermisce la preda sessuale che caratterizza il desiderio fattosi ossesso.


Concludendo, e senza tema di essere smentiti, il Tondo Doni è la psicobiografia gay di Michelangelo.




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«La lettera va presa alla lettera»
Jacques Lacan

Devo una risposta a Matteo Mainardi, che mi rimprovera di aver riproposto su queste pagine l’intervista nella quale Gianfranco Spadaccia spiegava le ragioni del no radicale all’amnistia del 1981: dice che il contesto era diverso da quello odierno, che a quei tempi le patrie galere non erano sovraffollate come adesso, che allora l’amnistia era la «presa per il culo» che il «sistema» usava «per non riformare se stesso». Si tratta di un’obiezione che avrebbe un peso, se in quell’intervista Gianfranco Spadaccia non motivasse il no radicale a quell’amnistia sulla base di una questione di principio, anzi, di almeno tre principi, che definisce «temi caratteristici dell’opposizione radicale». In pratica, il richiamo al fatto che la situazione carceraria del 1981 fosse diversa da quella del 2013 è strumentale e surrettizio.
In tal senso, torna utile analizzare gli argomenti di Gianfranco Spadaccia. In primo luogo, afferma che il problema  c’è, ma che i radicali non se ne ritengono corresponsabili, dunque non si sentono chiamati a risolverlo, tanto meno ricorrendo alla soluzione prospettata da chi l’ha causato. Non mette affatto in discussione lo «stato di necessità», dunque, e tuttavia rigetta la proposta dell’amnistia come soluzione. In secondo luogo, afferma che i radicali la rigettano, perché non è soluzione strutturale, ed è un rimedio dalleffetto di breve durata. Infine, elenca i punti di una riforma del sistema penitenziario, e più in generale del compartimento della giustizia, che dice alternativa al provvedimento di clemenza.
Suppongo sia superfluo rimarcare le differenze con l’odierna posizione dei radicali sulla questione, di qui la ragione del mio post, che era una risposta all’accusa di incoerenza che i radicali rivolgono in questi giorni a Beppe Grillo: alcuni anni fa si esprimeva in favore dell’amnistia e oggi è decisamente contrario. Ricorrendo alla stessa obiezione offerta da Matteo Mainardi per dare spiegazione dell’evidente torsione subita dai «temi caratteristici dell’opposizione radicale», anche Beppe Grillo potrebbe appellarsi alle mutate condizioni. Ovviamente si tratterebbe di una lettura diametralmente opposta a quella odierna dei radicali, e ispirata dai temi caratteristici dell’opposizione grillina, che non si fa alcuna fatica a riconoscere come diametralmente opposti a quelli odierni dei radicali, che hanno subito anch’essi un’evidente torsione rispetto al passato.
Per inciso, inoltre, è da considerare che Detenuto in attesa di giudizio è del 1971 e offre uno spaccato del mondo carcerario italiano che non è meno infame di quello odierno. Cosa cambia, dunque? Per Matteo Mainardi, il fatto che «oggi siamo alla condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo». Sta insinuando che Gianfranco Spadaccia dovesse aspettare la condanna della Corte Europea per farsi unidea sui diritti dell’uomo?
Il fatto è che, se una questione di principio può farsi elastica a seconda del contesto, l’elasticità deve essere concessa sia alla vacca sia al mulo. Poi, sì, possiamo entrare nel merito e, a piacere, esprimere la nostra preferenza per la vacca o per il mulo, ma questo non toglie che a entrambi puzzi il culo. Levando l’eccesso di colore alla metaforetta, in entrambi i casi il principio si è adattato al contesto, secondo quanto è parso conveniente: a Beppe Grillo oggi conviene fare il forcaiolo anche a discapito della sensibilità mostrata in passato riguardo alla condizione dei detenuti nelle carceri italiane; in quanto a Marco Pannella, sull’amnistia si gioca il tutto per tutto, non avendo più nulla da perdere, e questo a discapito di quella che in passato era la soluzione strutturale al problema.
   
Ma a Matteo Mainardi devo anche alcune delucidazioni che in futuro potranno essergli utili ad evitare increspature al suo bel garbo.
Primo: la mia non è stata una «sparata». Consigliavo solo di «dare una guardatina in soffitta» prima di dare per scontato che i «temi caratteristici dell’opposizione radicale» siano gli stessi da sempre: uno solo, in realtà, è da sempre uguale a se stesso, immutabile e costante, ed è l’opportunismo, spina dorsale di quella «durata» che esalta i gregari e i famigli di Marco Pannella come il semplice fatto che la Chiesa stia lì da due millenni dà ai cattolici dà la certezza che Dio esista veramente.
Secondo: il presunto mio «antiradicalismo». Su questo punto, con infinita dolcezza, vorrei far presente a Matteo Mainardi che io non sono affatto «antiradicale», anzi, mi ritengo assai più radicale di lui. La ragione è semplicissima: lui sta ancora dietro ad uno che ha corrotto il pensiero radicale ad una pratica di ipocrisia, cinismo e opportunismo, io non più.