È buona
norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni
garbati. Ahimè, non sempre è possibile. Spesso, infatti, fallacia chiama
fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in
rissa. Quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile
la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile, io ricorro a un
espediente che mi si è rivelato sempre efficace: prendo in considerazione solo
gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata
onestà e d’indole affabile, e devo confessare che, quando li ho trovati solidi
fino al punto da cambiare idea, dichiararmi sconfitto è stato un piacere.
Il
guaio è che con la ristrettissima cerchia di persone cui riconosco tali meriti
vado d’accordo su quasi tutto, mentre sul poco che ci vede in disaccordo non vale
la pena di polemizzare, perché attiene per lo più a differenze di gusto. Stavolta,
però, sul caso Cancellieri, mi è offerta l’opportunità, e da Massimo Bordin,
che non ha eguali, a mio modesto avviso, per intelligenza, rettitudine e
signorilità. Posso così trascurare del tutto gli argomenti che in favore del
Guardasigilli sono stati fin qui prodotti da ingenuità o malafede, con ciò
evitando il rischio di scivolare nell’invettiva, per prendere in considerazione
solo quelli che Massimo Bordin ha esposto nel corso della rassegna stampa di
lunedì 4 novembre, dai microfoni di Radio Radicale.
Occorre, tuttavia, una precisazione:
i suoi argomenti, in realtà, sono controargomenti, rapide e asciutte
annotazioni polemiche a margine degli articoli di quanti stigmatizzavano la
condotta del Ministro della Giustizia. Argomenti non per questo meno efficaci di una vera
e propria difesa del suo operato, e con una ben chiara linea, tutta in punta di
principio. E qui mi pare ci sia il primo punto debole dell’argomentazione
offerta da Massimo Bordin, perché in difesa di questo principio, che è quello
più correntemente detto «umanitario», un altro principio, quello più
correntemente detto «legalitario», trova modo di essere degradato a mera
pulsione «giustizialista», a cieco arco riflesso che trasforma il sacrosanto
bisogno di giustizia in bieco desiderio di vendetta, in crudele accanimento su un
capro espiatorio che perde ogni dignità di persona per farsi vittima sulla
quale una plebe inferocita abbia a sfogare ogni sorta di disagio e di
malessere.
Perché il principio «umanitario» possa degradare in tal modo quello «legalitario»
occorre dimostrare che il primo non sia meno «giusto» del secondo, ma che anzi il
primo abbia in sé una logica che non si esaurisce nella pietà, ma fa vera
«giustizia», mentre il secondo piega la «legge» a un’urgenza deterrente o
punitiva che riduce il colpevole, e spesso anche solo il presunto colpevole, al
reato ascrittogli da un’accusa che considera ogni garanzia un ostacolo al
soddisfacimento di quella urgenza. Sembrerebbe d’essere, in buona sostanza,
dinanzi a quanti vogliono a tutti i costi vedere nell’operato di Anna Maria Cancellieri
un abuso di potere trascurando gli elementi che fanno della sua «umanità» la
più genuina espressione di ciò che la «legge» deve essere per realizzare «giustizia».
Qui potremmo levitare ai massimi sistemi. Potremmo farci aiutare da Jacques
Derrida nel definire la relazione tra «legge» e «giustizia» (Force de loi,
1994). Potremmo addirittura riandare alla filogenesi del diritto come espressione
di quella «teologia politica» che si assume il compito irrealizzabile di trovare
in terra un equilibrio, se non la sintesi, di «carità» e «verità» (Der Nomos
der Erde, 1974). Meglio rimanere con i piedi a terra e, pur riconoscendo nel
caso Cancellieri tutti gli elementi che consentono una presa di posizione
istintivamente «umanitaria» o «legalitaria», limitiamoci a considerare
esclusivamente quelli che reggono sul piano razionale.
Non c’è ombra di dubbio
che il provvedimento in favore di Giulia Ligresti sia stato «umanitario» o che
in tal modo sia presentabile a chi lo considera inopportuno per il solo fatto di aver avuto il primum movens nell’interessamento
personale del Guardasigilli. In primo luogo, tuttavia, è da risolvere un
problema che di fatto è posto dall’ambiguità della difesa in favore di Anna
Maria Cancellieri. Da un lato, infatti, si afferma che l’interessamento
personale ci sia stato, d’altronde appare innegabile dalla lettura della
conversazione telefonica intercorsa il 17 luglio tra il ministro e Gabriella
Fragni, nella quale, però, non si fa mai cenno a Giulia Ligresti, ma solo a suo
padre. Torneremo ancora su questa telefonata, per quello che lo stesso Massimo
Bordin non ha difficoltà ad ammettere sia il suo contenuto «imbarazzante», d’intanto
limitiamoci a rilevare che l’interessamento personale di Anna Maria Cancellieri in favore di Giulia
Ligresti è dato per certo nella telefonata intercorsa tra Antonino Ligresti e
Gabriella Fragni, il mese dopo, prima che le condizioni della detenuta siano
definite a rischio dai sanitari. Significherebbe che l’interessamento personale
del ministro ci sia stato in previsione di un rischio di là da venire, e di
fatto non accertabile in anticipo.
D’altro canto, però, si afferma che l’interessamento
del Guardasigilli in nulla sarebbe diverso da quello speso in favore di altri
detenuti, e dunque non sarebbe «personale» nel senso che gli si intende dare
per insinuare un trattamento di favore. Bene, tale affermazione regge solo sul
piano formale, perché in sostanza è falsa: degli oltre 100 casi portati all’attenzione
di Anna Maria Cancellieri solo 6 hanno avuto un esito analogo a quello che
riguardava Giulia Ligresti, e si tratta di casi in cui l’interessamento del
ministro c’è stato solo dopo che le condizioni dei detenuti erano state definite
a rischio dai sanitari, oltre al fatto che hanno ottenuto analoghi benefici
solo poco prima e poco dopo la scarcerazione di Giulia Ligresti. Ovviamente
quest’ultimo rilievo può sembrare malizioso, ma assume un discreto peso se
rapportato ai detenuti morti in carcere dal momento in cui Anna Maria
Cancellieri è diventato ministro della Giustizia ad oggi.
L’obiezione a questi
dati, che hanno significato per nulla ambivalente, è che il Guardasigilli fa
quello che può, a partire dai casi che arrivano alla sua attenzione. È obiezione
che solleva un problema più grosso di quello che intendeva risolvere, perché i
canali che consentono a un detenuto di arrivare o no al ministro della
Giustizia sono giocoforza diversi, sicché arrivarci o no costituisce un
elemento di discrimine che è posto a priori della sua carcerazione. Nel caso di
Giulia Ligresti sappiamo i modi in cui era posto. Sarà stata millanteria, ma Salvatore
Ligresti ha vantato di essere stato utile alla carriera di Anna Maria
Cancellieri: non è in questione perché l’abbia fatto, ma il fatto che abbia
ritenuto di poterlo fare con la possibilità di essere creduto.
In quanto alle
intercettazioni telefoniche che hanno sollevato il caso, appare in tutta
evidenza che la famiglia Ligresti vantava nei confronti di Anna Maria
Cancellieri dei crediti di natura tutt’altro che amicale. Anzi, ad essere
onesti, sembra che l’aver dato un impiego a suo figlio, descritto dai Ligresti
come un buono a nulla, fosse stato solo un investimento, che sembrava dare
scarso profitto a fronte del costo. Poco importa cosa pensasse Anna Maria Cancellieri dei Ligresti prima di
essere messa a corrente del contenuto di queste intercettazioni, e poco importa
cosa pensi ora: di fatto si è posta nella condizione di lasciar credere ai
Ligresti di poter tornare loro di qualche utilità. Poco importa, dunque, se nella
faccenda ci siano gli estremi del reato, anche se questa non è questione da
accantonare: ciò che importa è che quanto Giulia Ligresti ha avuto modo di
ottenere sia di fatto negato a quanti non hanno una famiglia che possa
rivolgersi a un ministro con la stessa convinzione di poter vantare crediti.
Qui cadono tutte le possibili obiezioni relative al ruolo realmente svolto da Anna
Maria Cancellieri nella scarcerazione di Giulia Ligresti, perché a chiunque il
ministro abbia inoltrato la richiesta di accertamenti riguardo alle condizioni
della detenuta era la richiesta di un ministro e aveva via privilegiata. Pare
evidente, infatti, che non ci sia bisogno si sostanzi un elemento di induzione o di costrizione perché una richiesta del genere abbia possibilità di avere buon esito in misura direttamente proporzionale al ruolo che chi la sollecita occupa nella scala gerarchica che dal Guardasigilli scende fino al detenuto.
Non c’era bisogno di abuso di potere, bastava il potere discrezionalmente esercitato dal ministro, che in questo caso è fin troppo chiara negazione dell’elemento cardine del principio «legalitario», che è quello dell’uguaglianza dinanzi alla «legge». In tal senso, possiamo affermare che un intervento «umanitario» che di fatto realizza un momento di disuguaglianza dinanzi alla «legge» rimane «umanitario», ma non è necessariamente «giusto». La lesione si realizza nella telefonata del 17 luglio ed era prefigurata nei rapporti tra Anna Maria Cancellieri e la famiglia Ligresti, come è già accaduto nel maggio dello scorso anno, quando il Guardasigilli era ministro degli Interni: una proprietà dei Ligresti fu occupata da un centro sociale e lo sgombero avvenne a tempo di record. La proprietà privata è sacra, non c’è dubbio, e lo sgombero era necessario. Non meno necessario, però, di quelli che invece non vengono effettuati a soli 10 giorni dall’occupazione, come accadde l’anno scorso con la Torre Galfa dei Ligresti. Non ci sono prove che Anna Maria Cancellieri si sia attivata in quella occasione, ma oggi come può respingere il sospetto?
A parte, dicevo, ci sarebbe da commentare nel dettaglio la telefonata del 17 luglio. Anna Maria Cancellieri non si limita a consolare un’amica, ma fa suoi i pesanti giudizi sulla magistratura ai quali si lascia andare la moglie di un detenuto, avalla le risibili attenuanti che basterebbero a scagionarlo e dà colpa dell’accaduto a come vanno le cose in Italia. Basterebbe questo a renderla incompatibile con la carica che riveste.