Sono
fra quanti hanno criticato Scalfari per ciò che ha scritto su la
Repubblica della scorsa domenica («Di fatto ha abolito il peccato» - Malvino, 30.12.2013), dunque mi tocca prendere atto della sua replica, e controreplicare, perché quello scrive stavolta non lascia dubbi al fatto che si sia bevuto il cervello.
A parere di Scalfari, dunque, Bergoglio avrebbe sostenuto che, a scegliere il bene così come ce lo si raffigura, il peccato scompare. Non si può escludere che tra una settimana smentisca ancora, ma al momento consideriamo quanto afferma e cominciamo col porci due domande. La prima: Bergoglio ha veramente sostenuto questo? La seconda: ammesso e non concesso che lo abbia sostenuto, poteva farlo?
Inizio col rispondere a questa seconda domanda, ripropondendola in altri termini: può un pontefice contraddire la dottrina? Per ammissione dello stesso Scalfari, no. Dunque dovremmo concludere che la dottrina offra modo di ritenere che un’azione compiuta in buona fede, nella personale certezza di compiere il bene, sia per ciò stesso indenne dal potersi ritenere peccaminosa.
Bene, chiunque abbia un minimo di confidenza col Catechismo della Chiesa Cattolica sa che le cose non stanno affatto a questo modo: il peccato non si realizza quando l’uomo liberamente sceglie di compiere un’azione che in cuor suo ritiene malvagia, ma quando questa lo è di fatto, ancorché la ritenga buona. Infatti, «soltanto
conoscendo il disegno di Dio sull’uomo, si capisce che il peccato è un
abuso di quella libertà che Dio dona alle persone create perché possano amare
lui e amarsi reciprocamente» (387), e a chi è legittimamente affidato il compito di tradurre in regole il disegno Dio, se «Cristo
consegnò alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli, in virtù delle quali
potesse perdonare a qualsiasi peccatore pentito i peccati commessi» (979)? Mi pare sia preclusa ogni possibilità di «rivoluzione» in questo ambito: cosa sia peccato, e cosa non lo sia, tocca alla Chiesa dirlo, né basta ritenere in buona fede che un peccato non sia tale perché di fatto non lo sia. D’altronde, «Egli
renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rom 2, 6), non già secondo le sue buone intenzioni, che semmai possono lastricargli la via per l’Inferno.
C’è poi la delicata questione della misericordia divina. La scorsa domenica, Scalfari ha scritto che per Bergoglio «l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia». Stendiamo un velo pietoso su quel
«sia pure nell’attimo che precede la morte», col quale sembra che Scalfari voglia farci presente d’aver fatto per tempo la prenotazione per un posto in Paradiso, e limitiamoci a considerare che la misericordia di Dio ha per indispensabile premessa il pentimento, e il pentimento deve giocoforza prendere le mosse dal riconoscimento che le buone intenzioni non sono bastate a compiere buone azioni, il che implica di fatto che esistano azioni che ai suoi occhi sono oggettivamente buone e oggettivamente cattive, e queste ultime sono da considerare peccati. Possono essere perdonati, e con ciò l’anima si affranca dalla colpa, ma in sé restano azioni cattive, anche se prima erano erroneamente considerate buone.
Dove sarebbe, dunque, la «rivoluzione»? Tutto è esattamente come prima, la sola differenza sta nel fatto che Bergoglio calca la mano sulla bontà di Dio, mentre Ratzinger la calcava sulla sua giustizia: è il solito alternarsi di carota e di bastone, secondo le necessità del momento. Scalfari non lo capisce e parla a vanvera: «Se la
coscienza è libera e se l’uomo non sceglie il male ma sceglie il bene così come
lui lo configura, allora il peccato di fatto scompare e con esso la punizione». Non
c’è neppure bisogno di essere cattolici per rigettare tale interpretazione della dottrina, e abbiamo detto che Bergoglio non ha alcuna possibilità di metterci mano per adattarla a tale interpretazione. Di più: si tratta di una logica che non regge su alcun piano etico, perché anche il più disinvolto relativismo non può rinunciare a fare i conti con le conseguenze delle azioni, e a dover dare ad esse un valore, che, quantunque relativo, ha un segno positivo o negativo secondo il contesto in cui vengono a determinarsi. Così non
c’è bisogno di essere cattolici, né di credere in Dio, per concordare sul fatto che, fatta salva la libertà di coscienza, la scelta di compiere un’azione ritenuta buona non la rende tale in assoluto, tanto meno la risparmia dal doverne render conto.
Ma Bergoglio ha veramente detto ciò che Scalfari sostiene abbia detto? Niente affatto. Potremmo disquisire a lungo su quanto il compito affidatogli implichi necessariamente un costante ricorso all’ambiguità, e su quanto, almeno fin qui, il gioco è sembrato reggere, e in modo eccellente. Smettesse di reggere, d’altronde, i guai che Ratzinger ha lasciato a Bergoglio diverrebbero di colpo assai più seri. Sta di fatto che di tanto in tanto, per lo più quando è costretto a rassicurare i suoi che la missione del suo pontificato non tocca i pilastri ma solo l’intonaco della facciata, Bergoglio è chiaro: la dottrina e la morale non sono in discussione, ci mancherebbe altro, solo che per un po’ si terranno nel fodero, evitando di sguainarle di continuo come si faceva prima.