Doppio
paginone di Paolo Mieli sul Corriere della Sera di lunedì 23 dicembre: prende
spunto da tre volumi che Il Mulino manda in libreria nel 25o° dalla
pubblicazione del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (Michel Porret,
Beccaria; Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?
Ascesa e declino dello Stato di diritto; Luigi Ferrajoli e Mauro Barberis, Dei
diritti e delle garanzie) per fare il punto su cosa sia cambiato in questo
quarto di millennio e concludere che «violenze ed esecuzioni capitali restano
pratiche diffuse». Poco da obiettare, tranne ciò scrive riguardo a Jeremy
Bentham: Bentham – scrive Mieli, citando
probabilmente Porret che sul padre dell’utilitarismo si è già intrattenuto in
almeno un’altra occasione, almeno a quanto mi risulta (suo il saggio in coda
all’edizione del Panopticon per Marsilio, 2002) – «“sorprendentemente” accetta,
nel 1843, questo genere di vessazioni [l’uso della tortura]». Chiaramente deve
trattarsi di un refuso, perché Bentham muore del 1832 e l’opera in questione, Théorie
des peines et des récompenses, è del 1825.
Ma questo, in fondo, è irrilevante
rispetto a ciò che segue (mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è necessario riportare integralmente il passo): «Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la
tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio,
circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo
scopo della detenzione del reo per Bentham “è poco chiaro”; il rapporto tra
fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato.
Nella tortura al contrario la “catena causale” tra fatto ed effetto o risultato è
assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in
ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed
esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad
indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva
Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta
affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che “la detenzione è
predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo
all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente
indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze
inflitte”. Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è
prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle
domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono
indirizzate».
Senza
pretendere di fare l’avvocato difensore di Bentham, e chiarendo che non intendo
far mie le sue opinioni in proposito, occorre dire che siamo dinanzi a una
lettura assai infelice di ciò che Bentham ha scritto, comune d’altra parte a
quella di chiunque abbia accostato il pensatore passando per la critica rivoltagli da Foucault
e, appunto, da Perrot, che ce lo ridanno come pianificatore di un allucinante sistema
carcerario.
Bentham, per esempio, era contrario alla pena di morte, non già per mero umanitarismo, ma perché, «lungi
dall’essere convertibile in profitto, è una perdita, uno sperpero di ciò che
produce la forza e la ricchezza di una nazione». L’orizzonte morale è
chiaramente fuori discussione, mentre anche qui la stella polare è quel «massimo
bene per il maggior numero di individui» che lo guida lungo tutto il corso
della sua riflessione sulla società e sullo stato. Ed è in tal senso che deve essere
letto ciò che scrive sulla pena, e al riguardo credo sia utile citare
un brano che ritengo derimente: «Ciò che giustifica la pena è la sua
maggiore utilità [rispetto al non applicarla] o, per dir meglio, è la sua
necessità. […] Il male prodotto dalle pene è una spesa che lo stato si accolla
in vista di un profitto, che è la riduzione dei crimini. In questa operazione
tutto deve essere calcolato del guadagno e della perdita, dal che risulta
evidente che diminuire la spesa o aumentare il profitto significa in ugual
misura ottenere un bilanciamento favorevole».
Come è lampante, ogni variabile
del sistema è ridotta a funzione, sicché si può concludere che è rigettata in
toto la scala valoriale che attiene a un giudizio di carattere morale. Poco
oltre, infatti, scrive: «Ordinariamente si parla di mitezza o di rigore della
pena, termini che implicano un pregiudizio di favore o di sfavore, che nuoce ad
un esame imparziale [di ciò che la pena è chiamata a procurare]. Dire mite una
pena è contraddittorio, mentre dirla economica vuol dire usare il [giusto =
conveniente] metro del calcolo e della ragione».
In quest’ottica, ciò che
riguarda la tortura, senza perdere l’atrocità che inevitabilmente suscita in
noi, acquista un senso ben diverso. Per Bentham la condizione-tipo che la rende
«economica» è quella del terrorista che si rifiuti di rivelare quanto sappia di un
attentato che stia per essere consumato con rilevanti perdite di vite umane. Alla
nostra sensibilità, due secoli dopo, ripugna l’idea che la tortura possa essere
utile, e questo probabilmente può essere considerato un bene, anche se il costo che comporta è quello di una strage di innocenti. Per Bentham,
invece, il bene sta nell’utile che ne ricava il maggior numero di individui a
discapito dell’individuo che si rende responsabile di un reato a danno della
collettività: che si voglia considere grande o piccola, la differenza tra noi e
lui è tutta qua.
Criticare un'interpretazione foucaultiana titolando con una parafrasi da Derrida è un raffinato esercizio di crudeltà intellettuale.
RispondiEliminaE' bello sapere ci sia chi coglie le citazioni in forma di insinuazione. Grazie.
EliminaSe posso suggerire
RispondiEliminahttp://www.everseradio.com/wp-content/uploads/2010/04/Jeremy_Bentham.jpg