Anche
se dobbiamo l’elaborazione del concetto a Melanie Klein (Notes on some schizoid
mechanisms, 1946), che sviluppa ciò che Sigmund Freud aveva postulato già
cinquant’anni prima (Weitere Bemerkungen über die Abwehr Neuropsychosen, 1896),
la definizione più suggestiva di identificazione proiettiva è forse quella
dataci da Ronald Laing: «The one person does not use the other merely as a hook
to hang projections on. He strives to find in the other, or to induce the other
to become, the very embodiment of projection» (Self and Others, 1969), che a mio
modesto avviso ha il pregio di cogliere l’intrinseco del meccanismo di difesa
di là dallo specifico che assume nei contesti in cui è più frequentemente osservato
(figlio/madre, amante/amato, paziente/analista) e di porre l’accento sull’elemento peculiare della strategia difensiva. In pratica
– mi si consenta l’immagine –
l’identificazione proiettiva è il tentativo del soggetto di trovare ipostasi (embodiment), e in un oggetto grandioso, per lo più autorevole e protettivo, e in ciò rivela il tratto schizoide che lo mette in atto quasi sempre come procedura di riparazione, anche quando il meccanismo muove in ambito borderline o narcisistico (cfr. Betty Joseph,
Projective Identification: clinical aspects, in: Joseph Sandler, Projection, Identification, Projective Identification, 1987).
Ora, chi ha un po’ di
consuetudine con questo blog sa bene che aprire un post con un incipit del
genere è un modo per mettere le mani avanti: voglio sgombrare il campo da ogni notazione di natura
moralistica nella descrizione di quello che altrimenti sarebbe da considerare vizio, preferendo rubricarlo come disturbo
della personalità, intrattenendomi sulla noxa come espressione di un disagio, cercando di individuare i fattori che la generano, trattando il soggetto che sollevo a caso clinico con la delicatezza che è indispensabile usare col malato. Ma forse anche questo non basterà, e già immagino il lettore smaliziato subodorare: «Eccolo, starà per rifilarci l’ennesimo pippone su Pannella o su Ferrara». Sbagliato, stavolta è su entrambi. Intendo affrontare, infatti, la questione
dell’identificazione proiettiva
che il primo mette in atto nei confronti di Bergoglio come il secondo ha fatto nei confronti di Ratzinger: mutatis mutandis, siamo dinanzi alla stessa narrazione clinica.
Qui, però, occorre una precisazione:
il concetto di identificazione proiettiva rende ragione dell’unidirezionalità del processo, dando valore pressoché irrilevante a quanto
nell’oggetto si offra come valido pretesto all’embodiment, che peraltro è messo in atto sempre in modo arbitrario, non di rado col ricorso a pratiche di manipolazione, come
d’altronde
è inevitabile quando per oggetto si sceglie un papa, pretendendo risponda in tutto e per tutto alle esigenze del caso. In tal senso, possiamo rilevare che l’unidirezionalità
dell’identificazione proiettiva trova in se stessa una garanzia di riuscita, a fronte di ogni resistenza che di fatto possa esser posta dall’oggetto. Poco importa, dunque, quanto
l’oggetto
sia disponibile, quanto Ratzinger sia stato davvero caregiver di Ferrara e quanto Bergoglio lo sia di Pannella:
l’attenzione va posta al perché il soggetto scelga un papa come oggetto.
In tanti cercano l'autorevolezza che li sollevi dal tumulto interiore, dal collasso decisionale. Chi più autorevole del Papa (anche a sua insaputa)?
RispondiEliminaSì, infatti, è quello su cui cercherò di fare il punto in Embodiment/2. Tuttavia, non chiamerei "tumulto" il malessere e non parlerei di "collasso" per ciò che attiene alla facoltà decisionale: l'identificazione proiettiva è in apparenza un chiedere di essere adottati, ma in sostanza è un voler adottare. In pratica, l'autorevolezza del papa è solo il vestito che il borderline (Ferrara) o il narcisista (Pannella) indossano.
RispondiEliminaChe vestito indossa il trombone Scalfari che anche oggi fa un articolo sul papa?
EliminaNe ho già parlato (http://malvinodue.blogspot.it/2013/10/il-sogno-di-parlare-col-papa.html), ma è diverso: Scalfari non ha alcuna intenzione di adottare o di farsi adottare, la sua non è identificazione proiettiva, è la vanità dell'intellettuale che si mette in posa da Voltaire. Certo, è patetico, ma lì è davvero, e soltanto, un vizio. Qui, con Pannella e Ferrara, siamo alla vera e propria psicopatologia.
EliminaNon capisco perchè sia il caso di scomodare concetti psicoanalitici come l'identificazione proiettiva per spiegare un comportamento come quello citato. Tanto più che l'identificazione proiettiva esige un rapporto stretto, quasi carnale, per attuarsi. Non confondiamo l'affiliazione o la manipolazione (usare altri personaggi come "megafono" per le proprie idee) con l'identificazione proiettiva: in quest'ultimo caso il paziente scinde degli aspetti di sè per proiettarli nell'oggetto/interlocutore, che si ritroverà a sperimentare in sè affetti che sono in realtà del paziente. E' una difesa primitiva, tipica dei bambini o di pazienti funzionanti secondo una modalità, per usare i termini kleiniani, "schizo-paranoide". Un saluto, e complimenti per l'ottima qualità dei post, che seguo volentieri e sempre stimolanti. Raffaele Avico, Torino
RispondiEliminaOvviamente si trattava di un uso allegorico della noxa, non senza un velo di ironia, come mi era sembrato di aver lasciato intendere al lettore scrivendo che rinunciare a parlare di quella che lei chiama "affiliazione" come un vizio morale mi costringeva a "mettere le mani avanti". E' andata così: io ho detto "quel tizio è pestifero", e lei mi ha fatto presente - a ragione - che la peste è portata dalla Yersinia pestis, che a sua volta è portata dalla pulce, che a sua volta è portata dai topi... Tutto giusto, naturalmente.
EliminaMi consenta solo una obiezione riguardo al fatto che nel caso dell'identificazione proiettiva l'oggetto "si ritroverà a sperimentare in sé affetti che sono in realtà del soggetto": accade (per meglio dire: può accadere) nel controtransfert, e in ambito terapeutico (cfr. Bion, Kernberg, ecc.). Ma quando la diade soggetto/oggetto è fuori da questo contesto, non mi risulta che sia necessitata l'incorporazione dei frammenti di Sé perché sia data identificazione proiettiva, che - per inciso - al pari della semplice proiezione dà conto dell'agente (il proiettante), dell'azione (il proiettare) e dell'atto (il proiettato), non già di quanto e come quest'ultimo sia a sua volta fattore (contro)agente.
Sì, la mia critica era solo rivolto al fatto che necessita di una relazione stretta per attuarsi (per esempio appunto nel contesto di analisi), dato che è composta di due movimenti (scissione, proiezioni di parti di sè che "manipolano" il comportamento dell'altro, che vi si "identifica") che hanno senso solo in ottica relazionale. Ho capito in ogni caso il senso del suo post, grazie della risposta. Raffaele
RispondiElimina