Jonathan
Haidt, di cui l’ultimo numero della Domenica de Il Sole 24 Ore ci offre un
brano tratto dal suo ultimo volume (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono
su politica e religioni – Codice Edizioni 2013), sostiene da tempo che la
specie umana sarebbe dotata di un’intuizione morale indipendente da ogni forma
di ragionamento e priva da ogni condizionamento di natura utilitaristica. In
pratica, è convinto che la morale scaturisca da un moto affettivo immediato ed automatico,
inconsapevole e privo di ogni intenzionalità, come una sorta di elemento biologico
sul quale – e almeno questo gli fa onore – non si azzarda a disquisire,
limitandosi a dichiararlo universale. Siamo, in buona sostanza, dinanzi alla riproposta
dell’innatismo.
Qui, però, l’idea che la morale nasca con noi non ha alcuna
pretesa di fondare una precettistica universale mediante la selezione di ciò
che è genuino rispetto a ciò che è artefatto: Jonathan Haidt è del parere,
infatti, che ogni giudizio morale risponderebbe a un’intuizione che, in sé,
almeno in parte, è giusta. Insomma, seppur parzialmente, tutti i valori morali
sarebbero espressione della moralità innata all’uomo e dunque potrebbero
convivere pacificamente nei loro precipitati comportamentali, perché in ognuno
d’essi vi è un riflesso di quella comune natura che – sostiene – poco ha a che
fare col calcolo più o meno intellegibilmente imposto dalle contingenze.
L’obiezione
che i valori morali siano un prodotto dell’evoluzione umana non lo impensierisce
affatto: neanche prova a metterlo in discussione, perché comunque – scrive in
questo suo ultimo lavoro – «le intuizioni precedono il ragionamento strategico»:
«la morale è molto di più di una questione di danno e correttezza». Conclusioni?
Siamo dinanzi a una visione della specie umana come una οἰκουμένη
che chissà quale divinità degli inferi si è divertita a disperdere in frammenti di ragione che sembrano come maledette a scontrarsi in eterno, quando la ricomposizione è lì, sotto il naso dei contendenti: basta essere carini, scambiarsi cortesie, e ogni questione che in apparenza ci fa sembrare nemico chi non la pensi come noi smette di avere ragion d’essere.
Non voglio essere cattivo e non andrò oltre il commento implicito che sta in trasparenza a quanto ho fin qui esposto. Aggiungo solo che la teoria di Jonathan Haidt sembra il tentativo di costruire un argomento che superi ogni relativismo etico in una sorta di panmoralismo che somiglia molto a quello dell’idealismo o, per venire ai nostri giorni, alla scommessa lanciata da Bergoglio nella sua risposta a Scalfari: cerchiamo quel che ci unisce, e quel che ci divide ci apparirà irrilevante.
È un buon argomento?
Un buon
argomento deve essere corretto, valido
e persuasivo. È corretto quando poggia su premesse incontestabili, valido
quando non incorre in tautologie o contraddizioni, persuasivo quando risulta
efficace. Non basta che sia solo efficace, dunque, a renderlo buono, perché la
persuasività si può ottenere anche con argomenti viziati da errori logici più o
meno ben dissimulati o che prendono le mosse da premesse salde solo in
apparenza; né basta che sia valido, perché il rispetto della logica
proposizionale non assicura un risultato accettabile partendo da false
premesse; tanto meno basta sia corretto, perché anche partendo da premesse
autoevidenti si può arrivare a conclusioni errate alterando il procedimento
attraverso il quale l’argomento viene a costruirsi.
Sembrerebbe lecito
supporre, allora, che la «bontà» del «buon» argomento sia una qualità morale.
Non è così. Se la «buona» argomentazione rifugge dal ricorso alla persuasività
che si avvale di mezzi invalidi o scorretti, non è perché abbia un ethos ad
informarla, anzi, un argomento non è mai tanto a rischio d’essere fallace,
ancorché sottilmente fallace, come quando rivendica «bontà» in virtù
dell’obbedienza ad una precettistica morale: più o meno coscientemente, si è
sempre tentati dal far carte false per rendere persuasiva la morale della quale
ci si sente chiamati a difensori, perché il «bene» che essa incarna è sempre
dato come antecedente e superiore alla logica chiamata a giustificarlo. Così
nel caso dell’argomento scorretto, che ha già nelle premesse l’errore da rendere
persuasivo. In quanto all’argomento invalido, quando rivendica «bontà» in virtù
dell’obbedienza ad una precettistica morale, non fa che rivelarne la natura tautologica
o contraddittoria.
Si può concludere che mai un argomento è tanto lontano dall’esser
«buono» come quando la «bontà» è qualità morale. Dell’ethos, al contrario, il
«buon» argomento ha la pretesa di porsi a fondamento, rinunciando ad ogni trascendente:
la logica che lo muove non si proclama manifestazione di un Logos, ma strumento
immanente che nell’immanenza agisce per darle un senso universalmente intellegibile.
Ne consegue – con Isocrate, contro Aristotele – che l’argomentare racconta storia
e carattere di chi argomenta, non già del Logos che si incarna in chi ne
racconta l’incarnazione: la teoria dell’argomentazione non è l’esegesi di una
narrazione mitica, ma il tentativo – in gran parte riuscito – di decostruire la
metafisica.
Jonathan Haidt, invece, porge un argomento che intende fondarne una tutta nuova, in realtà vecchia quanto la storiella della Torre di Babele. Per Bergoglio non vale neanche la pena esprimere un giudizio: è la riedizione dell’eristica gesuitica aggiornata ai nostri tempi, caritas for dummies.