Ho
passato un intero pomeriggio a rileggere cosa scrivevo quarant’anni fa o giù di
lì, era una vita che non ci ritornavo, e molto l’avevo completamente rimosso.
Assai sgradevole la sensazione di scoprire un quadernetto di poesie dedicate – ho
stentato a crederci – a Julius Evola.
martedì 7 gennaio 2014
lunedì 6 gennaio 2014
In breve
Alcuni
lettori mi hanno chiesto quale sia la mia opinione riguardo alla
sperimentazione animale in campo medico. Rispondo loro che sono a favore, senza
riserve, e che ritengo assurde le
ragioni di chi è contrario. Fosse in mio potere, costringerei costoro alla
coerenza, negando loro la somministrazione di ogni molecola che abbia richiesto
il sacrificio anche di un solo animale per i test necessari al suo impiego clinico.
Dove sarebbe, dunque, la «rivoluzione»?
Sono
fra quanti hanno criticato Scalfari per ciò che ha scritto su la
Repubblica della scorsa domenica («Di fatto ha abolito il peccato» - Malvino, 30.12.2013), dunque mi tocca prendere atto della sua replica, e controreplicare, perché quello scrive stavolta non lascia dubbi al fatto che si sia bevuto il cervello.
A parere di Scalfari, dunque, Bergoglio avrebbe sostenuto che, a scegliere il bene così come ce lo si raffigura, il peccato scompare. Non si può escludere che tra una settimana smentisca ancora, ma al momento consideriamo quanto afferma e cominciamo col porci due domande. La prima: Bergoglio ha veramente sostenuto questo? La seconda: ammesso e non concesso che lo abbia sostenuto, poteva farlo?
Inizio col rispondere a questa seconda domanda, ripropondendola in altri termini: può un pontefice contraddire la dottrina? Per ammissione dello stesso Scalfari, no. Dunque dovremmo concludere che la dottrina offra modo di ritenere che un’azione compiuta in buona fede, nella personale certezza di compiere il bene, sia per ciò stesso indenne dal potersi ritenere peccaminosa.
Bene, chiunque abbia un minimo di confidenza col Catechismo della Chiesa Cattolica sa che le cose non stanno affatto a questo modo: il peccato non si realizza quando l’uomo liberamente sceglie di compiere un’azione che in cuor suo ritiene malvagia, ma quando questa lo è di fatto, ancorché la ritenga buona. Infatti, «soltanto
conoscendo il disegno di Dio sull’uomo, si capisce che il peccato è un
abuso di quella libertà che Dio dona alle persone create perché possano amare
lui e amarsi reciprocamente» (387), e a chi è legittimamente affidato il compito di tradurre in regole il disegno Dio, se «Cristo
consegnò alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli, in virtù delle quali
potesse perdonare a qualsiasi peccatore pentito i peccati commessi» (979)? Mi pare sia preclusa ogni possibilità di «rivoluzione» in questo ambito: cosa sia peccato, e cosa non lo sia, tocca alla Chiesa dirlo, né basta ritenere in buona fede che un peccato non sia tale perché di fatto non lo sia. D’altronde, «Egli
renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rom 2, 6), non già secondo le sue buone intenzioni, che semmai possono lastricargli la via per l’Inferno.
C’è poi la delicata questione della misericordia divina. La scorsa domenica, Scalfari ha scritto che per Bergoglio «l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia». Stendiamo un velo pietoso su quel
«sia pure nell’attimo che precede la morte», col quale sembra che Scalfari voglia farci presente d’aver fatto per tempo la prenotazione per un posto in Paradiso, e limitiamoci a considerare che la misericordia di Dio ha per indispensabile premessa il pentimento, e il pentimento deve giocoforza prendere le mosse dal riconoscimento che le buone intenzioni non sono bastate a compiere buone azioni, il che implica di fatto che esistano azioni che ai suoi occhi sono oggettivamente buone e oggettivamente cattive, e queste ultime sono da considerare peccati. Possono essere perdonati, e con ciò l’anima si affranca dalla colpa, ma in sé restano azioni cattive, anche se prima erano erroneamente considerate buone.
Dove sarebbe, dunque, la «rivoluzione»? Tutto è esattamente come prima, la sola differenza sta nel fatto che Bergoglio calca la mano sulla bontà di Dio, mentre Ratzinger la calcava sulla sua giustizia: è il solito alternarsi di carota e di bastone, secondo le necessità del momento. Scalfari non lo capisce e parla a vanvera: «Se la
coscienza è libera e se l’uomo non sceglie il male ma sceglie il bene così come
lui lo configura, allora il peccato di fatto scompare e con esso la punizione». Non
c’è neppure bisogno di essere cattolici per rigettare tale interpretazione della dottrina, e abbiamo detto che Bergoglio non ha alcuna possibilità di metterci mano per adattarla a tale interpretazione. Di più: si tratta di una logica che non regge su alcun piano etico, perché anche il più disinvolto relativismo non può rinunciare a fare i conti con le conseguenze delle azioni, e a dover dare ad esse un valore, che, quantunque relativo, ha un segno positivo o negativo secondo il contesto in cui vengono a determinarsi. Così non
c’è bisogno di essere cattolici, né di credere in Dio, per concordare sul fatto che, fatta salva la libertà di coscienza, la scelta di compiere un’azione ritenuta buona non la rende tale in assoluto, tanto meno la risparmia dal doverne render conto.
Ma Bergoglio ha veramente detto ciò che Scalfari sostiene abbia detto? Niente affatto. Potremmo disquisire a lungo su quanto il compito affidatogli implichi necessariamente un costante ricorso all’ambiguità, e su quanto, almeno fin qui, il gioco è sembrato reggere, e in modo eccellente. Smettesse di reggere, d’altronde, i guai che Ratzinger ha lasciato a Bergoglio diverrebbero di colpo assai più seri. Sta di fatto che di tanto in tanto, per lo più quando è costretto a rassicurare i suoi che la missione del suo pontificato non tocca i pilastri ma solo l’intonaco della facciata, Bergoglio è chiaro: la dottrina e la morale non sono in discussione, ci mancherebbe altro, solo che per un po’ si terranno nel fodero, evitando di sguainarle di continuo come si faceva prima.
domenica 5 gennaio 2014
sabato 4 gennaio 2014
[...]
Mentre
la buona politica ha un progetto di società e a partire dalle condizione date
lavora per costruire consenso e partecipazione alla sua realizzazione, la
politica mediocre si limita a rincorrere il presente. La politica di merda
neanche quello, perché vive solo dell’umore del momento. Non può essere che di
questo terzo tipo, la politica che discute di una nuova fattispecie di reato da
introdurre nel codice penale, e parlo del cosiddetto omicidio stradale.
Dalla tabella che
apre questo post, e che ho costruito coi dati elaborati dall’Istat per gli anni dal 2001 al 2012, risulta
evidente che sono progressivamente calati, e senza alcun cenno ad inversione di tendenza, sia il numero degli incidenti stradali, sia quello dei feriti, sia quello dei morti su strada. Di fatto, il fenomeno cui Anna Maria Cancellieri intende mettere un freno con apposito decreto legge è in frenata già da tempo, sicché credo sia legittimo il sospetto che
l’iniziativa abbia tutt’altro fine che ridurne la portata. Sarà quello di lisciare il pelo alla bestia? Cerca di guadagnarsene le simpatie perché sia dimenticato il caso Ligresti? Dubbi da malpensante, lasciamo perdere, sarà perché i suoi esperti avranno scoperto
nel colposo un altro sottinteso di doloso,
l’ennesimo.
Politica mediocre o politica di merda? Direi siamo nel mezzo. Quando all’annuncio del decreto legge, però, la Lega si precipita a rivendicare che l’idea era sua, e strepita come se gliel’avessero rubata, il passo è fatto, e siamo nella merda. Quando poi interviene Matteo Renzi e dice: «Basta annunci!», come a dire che è perfino inutile discuterne, si faccia, e si faccia subito, ci si sguazza dentro, apparentemente fieri di esprimere la volontà del popolo.
Già, ma in fondo non è il popolo a chiedere pene più severe per i pirati della strada? Sarebbe un’ottima obiezione se si trattasse davvero di un popolo. Intendo dire: se si trattasse di individui che pretendessero di «conoscere per deliberare». E invece si tratta di plebe cui i media un giorno buttano
l’osso del rapinatore albanese, e il giorno dopo quello dello stupratore rumeno, e l’altro ancora, ieri, quello del marocchino ubriaco che investe e ammazza la bambina di otto anni: dàlle qualcosa da mordere e la tieni buona.
venerdì 3 gennaio 2014
Puzza di pecora, ma è l’unico che c’è
Con
molta delicatezza, bisogna dire, Mancuso fa presente a Scalfari che ha pisciato,
e ha pisciato di brutto, nell’affermare che Bergoglio «ha di fatto abolito il
peccato»: «La libertà umana esiste – scrive – ed esistendo opera, e quindi può
agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così
rimandati all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti
non c’è tradizione spirituale che non conosca il concetto di peccato, sorto
nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che producono una
diminuzione del grado di ordine o di armonia».
Sembrerebbe spiegazione che rimetta il peccato lì dov’era, per giunta dandogli una logica algebrica che alla quota parte di rottura dell’ordine e dell’armonia della creazione di cui l’uomo è responsabile fa corrispondere una congrua proiezione di colpa, la quale implica una necessità di riparazione, secondo i gusti, per espiazione o per misericordia, sicché al posto di Dio può andarci pure il Karma.
In realtà, come tutte quelle che cercano di dare un senso razionale al cristianesimo, nel tentativo di presentarcelo come Teoria del Tutto, anche questa è spiegazione che ha un bel buco. Se, infatti, il bene e il male si inscrivono nella sfera dell’azione, come afferma Mancuso, chi non è in grado di agire può a buon diritto dirsi innocente perché nell’impossibilità stessa di peccare, il che non spiega la sofferenza dell’innocente come espiazione di una colpa, tanto meno come dono di misericordia. Per dirla in altri termini, rimane aperta la questione della sofferenza nei bambini, spesso nei neonati, che in Ivan Karamazov pone in discussione la somma bontà e la somma giustizia di Dio, dunque la sua stessa esistenza.
Fatto sta che invece il cristianesimo ci spiega perché un bambino possa soffrire, ed è una spiegazione delle sue, ma pur sempre migliore di quella di Mancuso: anche il bambino porta con sé il peccato, e fin dalla nascita, anzi fin dal suo concepimento, dunque non ha bisogno di agire male perché Dio consenta che soffra, e in ciò trova un senso la sua sofferenza. Potrà non bastare al bambino, tanto meno ai suoi genitori, ma basta al teologo, e questo gli consente di poter andare a cena con l’animo sereno. Ma Mancuso non ci sta, e anche qui solleva in chi legge i suoi scritti più d’una perplessità sul suo dichiararsi cristiano: «La dottrina cattolica – dice infatti in questa occasione – risponde mediante al dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna».
In realtà, il peccato originale non è cosa cattolica, ma cristiana, e prima d’essere cristiana è giudaica, sicché dirla «soluzione teoricamente insufficiente e moralmente indegna» significa mettere in discussione ogni possibile ermeneutica di ciò che ci racconta il Genesi e il fine stesso dell’incarnazione come occasione di riscatto umano dal male che ci porteremmo dentro fin dal concepimento. È da ben prima di Agostino che si è solititi esclamare: «Puttana Eva!», Mancuso rileggesse il Salmo 51, ci troverà che «nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre», e che la cosa alluda alla riproduzione sessuale o a un’intrinseca inclinazione della carne al male, non si scappa, «er nascituro se carica er peccato origginale, s’o deve carica’», come dice il don Pizzarro di Corrado Guzzanti.
Ma c’è di più: c’è che quel «volenti o nolenti» di Mancuso merita un asteriscone bello grosso anche per il peccato che si inscrive nella sfera dell’azione. Se infatti oggi il Pater noster recita «non abbandonarci alla tentazione», fino a pochi anni fa, e per due millenni, ha recitato «non ci indurre in tentazione», segno evidente che pure nell’agire abbiamo chi fa tutto per metterci in difficoltà, e non è Satana, sennò si sarebbe recitato «non consentire al Maligno di tentarci» e roba simile. Senza dubbio imbarazzante un Dio cui non basta imprimerci lo stigma della colpa allo stadio di ovocellula fecondata ma che addirittura trova gusto a tentarci in continuazione, comprensibile che si sia messa una pezza. Il fatto è che mai come in questo caso è stata necessaria una manipolazione del testo evangelico delle più schifose tra le tante, perché sia in aramaico (oo’la te-ellan l’niss-yoona), sia in greco (μη εισενεγκης ημας εις πειρασμoν), sia in latino (ne nos inducas in tentationem), il concetto di induzione al peccato è espresso da verbi che non lasciano interpretazioni alternative: nulla di più lontano dal senso di abbandonare al male, è proprio un portare verso o dentro.
Insomma, si legge Scalfari, si legge Mancuso, e ci si chiede: ma invece di discutere di un cristianesimo che non esiste, perché ’sti due non fanno in conti con quello che c’è? Puzza di pecora, è vero, ma è l’unico che c’è.
Sembrerebbe spiegazione che rimetta il peccato lì dov’era, per giunta dandogli una logica algebrica che alla quota parte di rottura dell’ordine e dell’armonia della creazione di cui l’uomo è responsabile fa corrispondere una congrua proiezione di colpa, la quale implica una necessità di riparazione, secondo i gusti, per espiazione o per misericordia, sicché al posto di Dio può andarci pure il Karma.
In realtà, come tutte quelle che cercano di dare un senso razionale al cristianesimo, nel tentativo di presentarcelo come Teoria del Tutto, anche questa è spiegazione che ha un bel buco. Se, infatti, il bene e il male si inscrivono nella sfera dell’azione, come afferma Mancuso, chi non è in grado di agire può a buon diritto dirsi innocente perché nell’impossibilità stessa di peccare, il che non spiega la sofferenza dell’innocente come espiazione di una colpa, tanto meno come dono di misericordia. Per dirla in altri termini, rimane aperta la questione della sofferenza nei bambini, spesso nei neonati, che in Ivan Karamazov pone in discussione la somma bontà e la somma giustizia di Dio, dunque la sua stessa esistenza.
Fatto sta che invece il cristianesimo ci spiega perché un bambino possa soffrire, ed è una spiegazione delle sue, ma pur sempre migliore di quella di Mancuso: anche il bambino porta con sé il peccato, e fin dalla nascita, anzi fin dal suo concepimento, dunque non ha bisogno di agire male perché Dio consenta che soffra, e in ciò trova un senso la sua sofferenza. Potrà non bastare al bambino, tanto meno ai suoi genitori, ma basta al teologo, e questo gli consente di poter andare a cena con l’animo sereno. Ma Mancuso non ci sta, e anche qui solleva in chi legge i suoi scritti più d’una perplessità sul suo dichiararsi cristiano: «La dottrina cattolica – dice infatti in questa occasione – risponde mediante al dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna».
In realtà, il peccato originale non è cosa cattolica, ma cristiana, e prima d’essere cristiana è giudaica, sicché dirla «soluzione teoricamente insufficiente e moralmente indegna» significa mettere in discussione ogni possibile ermeneutica di ciò che ci racconta il Genesi e il fine stesso dell’incarnazione come occasione di riscatto umano dal male che ci porteremmo dentro fin dal concepimento. È da ben prima di Agostino che si è solititi esclamare: «Puttana Eva!», Mancuso rileggesse il Salmo 51, ci troverà che «nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre», e che la cosa alluda alla riproduzione sessuale o a un’intrinseca inclinazione della carne al male, non si scappa, «er nascituro se carica er peccato origginale, s’o deve carica’», come dice il don Pizzarro di Corrado Guzzanti.
Ma c’è di più: c’è che quel «volenti o nolenti» di Mancuso merita un asteriscone bello grosso anche per il peccato che si inscrive nella sfera dell’azione. Se infatti oggi il Pater noster recita «non abbandonarci alla tentazione», fino a pochi anni fa, e per due millenni, ha recitato «non ci indurre in tentazione», segno evidente che pure nell’agire abbiamo chi fa tutto per metterci in difficoltà, e non è Satana, sennò si sarebbe recitato «non consentire al Maligno di tentarci» e roba simile. Senza dubbio imbarazzante un Dio cui non basta imprimerci lo stigma della colpa allo stadio di ovocellula fecondata ma che addirittura trova gusto a tentarci in continuazione, comprensibile che si sia messa una pezza. Il fatto è che mai come in questo caso è stata necessaria una manipolazione del testo evangelico delle più schifose tra le tante, perché sia in aramaico (oo’la te-ellan l’niss-yoona), sia in greco (μη εισενεγκης ημας εις πειρασμoν), sia in latino (ne nos inducas in tentationem), il concetto di induzione al peccato è espresso da verbi che non lasciano interpretazioni alternative: nulla di più lontano dal senso di abbandonare al male, è proprio un portare verso o dentro.
Insomma, si legge Scalfari, si legge Mancuso, e ci si chiede: ma invece di discutere di un cristianesimo che non esiste, perché ’sti due non fanno in conti con quello che c’è? Puzza di pecora, è vero, ma è l’unico che c’è.
giovedì 2 gennaio 2014
«Il coraggio degli italiani»
Non
vorrei sbagliare, può darsi ch’io ricordi male, ma questa dovrebb’essere la
prima volta che per il suo messaggio di fine anno un Presidente della
Repubblica adotta una soluzione formale suggestiva come quella della rubrica
della posta che ieri sera apriva, dopo un breve cappello introduttivo, il testo
letto da Napolitano agli italiani: solo Scalfaro, nel 1997, abbozzò qualcosa
del genere, ma si tenne sulle generali, accennando solo alle questioni che gli
erano poste da chi gli scriveva, mentre stavolta, invece, insieme a qualche
cenno biografico, di «Franco, da Vigevano», di «Serena, da un piccolo centro
del catanese», di «Veronica, da Empoli», c’era il milieu, con tanto di guillemets. Ammesso che quelle lettere siano state scritte da persone
realmente esistenti – e in questo caso occorrerebbe spendere due paroline sul
malvezzo di ometterne i cognomi, neanche si trattasse della Posta del Cuore
tenuta da Donna Letizia – occorre riconoscere che si è trattato di un ottimo espediente
retorico, perché ha la resa dell’interlocuzione con persone reali piuttosto che
con un astratto campione di categorie
sociali, producendo un effetto di notevole tensione empatica, perché una
cosa è rivolgersi agli «italiani», come facevano Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat
e Leone, un’altra è dire «cari concittadini», com’era solito fare Pertini, ma un’altra
ancora – e tutt’altra cosa – è rivolgersi a «Vincenzo, che mi scrive da un
piccolo centro industriale delle Marche», o a «Daniela, dalla provincia di
Como».
Ammesso
che quelle lettere siano state scritte da persone realmente esistenti, necessariamente
devono aver superato la stessa selezione che premia quelle che arrivano ad
essere pubblicate su un giornale: nella forma e nella sostanza, anche quando in
apparenza sembrerebbero dover imbarazzare o addirittura irritare il
destinatario, devono tornare utili allo scopo, che è quello di costruire un
interlocutore virtuale di comodo, e tuttavia dotato di quel tanto da non essere
del tutto assimilabile alla logica che informa il testo che funge da risposta. In
pratica, la «forte denuncia della condizione degli “esodati” mi è stata
indirizzata da Marco, della provincia di Torino, che mi chiede di citare nel
messaggio di questa sera la gravità di tale questione, in quanto comune a tanti»,
serve solo a poter aggiungere «lo faccio», costruendo una relazione analoga a
quella che c’è tra il dj e il pubblico che segue la sua trasmissione, quando sul
piatto gira il disco di cui un radioascoltatore ha fatto richiesta al telefono,
in diretta: si tratta di una relazione che presuppone un filtro unidirezionale,
attraverso il quale passa solo quanto serve a costruire un interlocutore che
corrisponda alla proiezione desiderata.
Bene, le lettere di cui Napolitano s’è
servito per il testo del suo messaggio di fine anno – non ha molta importanza,
ripeto, se le abbia davvero ricevute o se le sia inventate – costruiscono un
interlocutore che corrisponde esattamente all’italiano che è chiamato a
guardare al nuovo anno «con serenità e con coraggio»: intendo dire che tale
disposizione d’animo, per chi si trovi in condizioni analoghe a quelle
descritte nelle lettere di cui Napolitano ci ha esposto il contenuto, è possibile
solo ad avere una particolare postura etico-estetica dinanzi a gravi
difficoltà. E per non farla troppo lunga direi non sia difficile individuarla
in un modello di cittadino che non esiste più, se mai è esistito anche fuori
dalle pagine dell’Almanacco del Pci. Parlo dell’operaio, dell’impiegato, dello
studente, che il Pci aveva irreggimentato in un esercito composto e dignitoso,
mai stanco di sacrifici: l’eroica classe dei lavoratori, tanto più degna di
andare al governo, quanto più in grado di assumersi la responsabilità in nome
di tutto il paese, rinunciando a velleitarismi, a massimalismi e soprattutto a
lacerazioni dell’unità nazionale. È da almeno vent’anni che non esiste più, questo
popolo, ma vive ancora nel Wille e nella Vorstellung di un vecchio comunista e
gli dice che «di sacrifici ne ho fatti molti, e sono disposto a farne ancora»,
che ha fatto «giuramento di
pagare le tasse sempre e comunque» anche se non è lavoratore dipendente ed è di fronte al dilemma «se pagare
alcune tasse o comprare il minimo per la sopravvivenza dei miei due figli», che
nonostante tutto si dice «fiero del mio paese». Qui non si osa mettere in
discussione che questo popolo possa anche esistere, ci si chiede solo quanto
sia rappresentativo di un’Italia che per un terzo si astiene, vota scheda bianca o
nulla e per un altro terzo vota Berlusconi o Grillo. Si tratterà, per caso, della base del cosiddetto
«partito del Presidente»?
Il messaggio
di fine anno dal Quirinale in fondo non è che un genere letterario, dunque
credo che il modo più appropriato di commentare quello di ieri sera sia
l’analisi formale del testo, che aveva la misura delle 15.430 battute (spazi
inclusi), divise in sette sezioni: (a) un breve cappello introduttivo (0-735); (b)
il capitolo delle «lettere indirizzatemi ancora di recente», di cui abbiamo fin
qui parlato (736-5.010); (c) «il coraggio degli italiani», una sorta di
manifesto che intenderebbe dare legittimità di guida del paese al
«partito del Presidente»
(5.011-6.950);
(d) una sezione dedicata a governo, parlamento, opposizioni (6.951-10.417), dove a ciascuno è assegnata una parte in commedia, e guai a non interpretarla a dovere, sennò si è per lo sfascio del paese; (e)
una miscellanea di temi vari
(10.418-12.531), di quelli che non possono mancare, sicché basta un richiamo di cortesia;
(f) un’autodifesa
(12.532-14.969)
che ha eluso tutti gli addebiti con un «conosco i limiti dei
miei poteri» (giocoforza esigeva un po’ di faccia tosta, e non è mancata); e (g)
un brevissimo commiato
(14.970-15.430), quasi a tagliar corto dopo aver detto il necessario, cioè che Napolitano non si sente re, ma papa.
mercoledì 1 gennaio 2014
martedì 31 dicembre 2013
Da leggere
«Berlusconi è entrato in politica
per difendere le sue aziende»
Marcello
Dell’Utri, 28.12.1994
Due
sono le puttanate che Silvio Berlusconi è stato capace di spacciare come verità
anche a parte dei suoi avversari: che si sia fatto da solo e che la
magistratura abbia cominciato ad interessarsi di lui solo dopo la discesa in
campo del 1994. Due puttanate che Michele De Lucia smonta con l’acribia dello
speleologo che scende nella cronaca della Prima Repubblica riuscendo a infilare
la vena carsica destinata a diventare il fiume impetuoso che devasterà la
Seconda. Da leggere.
lunedì 30 dicembre 2013
[...]
È sesquipedale
stronzata sostenere una relazione, addirittura un’equivalenza, tra spirito ed
energia, ma ogni tanto c’è chi la butta lì, come fosse la quadra tra
trascendenza e immanenza, spremitura di E=mc² e Deus sive natura, e con un
sillogismo da tosacani: la materia è energia, spirito ed energia so’ la stessa
cosa, ergo lo spirito informa la materia.
Un mostriciattolo della logica
proposizionale che ci si aspetterebbe solo da qualche sballatone della New Age,
non di rado invece lo ritroviamo pure nell’utensileria di qualche avanzo del modernismo,
com’è nel caso di Leonardo Boff, che qualche anno fa, su Adista, scriveva: «L’energia
è e sta in tutto. Senza energia nulla potrebbe esistere. Come esseri coscienti
e spirituali, siamo una realizzazione estremamente complessa, sottile e
interattiva di energia… Questa energia forse costituisce la migliore metafora
di quello che significa Dio, i cui nomi variano, ma sempre indicando la stessa
energia soggiacente... La singolarità dell’essere umano è poter entrare in
contatto cosciente con questa energia. Egli può invocarla, accoglierla e
percepirla nella forma di vita, di irradiazione e di entusiasmo».
Spropositi
del genere sono possibili solo grazie all’ambiguità di termini come spirito ed
energia, sicché basta fare un minimo di chiarezza al riguardo per smontare la
panzana: lo spirito è entità metafisica, l’energia è entità fisica; lo spirito
è un «chi», l’energia è un «cosa»; lo spirito è incommensurabile, l’energia è
misurabile; lo spirito è immutabile, l’energia può essere prodotta, accumulata,
ceduta, ecc.; soprattutto, lo spirito non deve fare i conti con l’entropia, l’energia
sì. Tutto evidente fino all’ovvio, ma evidentemente non abbastanza.
«Di fatto ha abolito il peccato»
Tra i
tanti gonzi che vedono in Bergoglio un rivoluzionario ce n’è uno che arriva a
sostenere sia «rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve
pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il
peccato». Parlo di Eugenio Scalfari, che evidentemente s’è bevuto il cervello.
Ovviamente Bergoglio non ha affatto abolito il peccato, e per la semplice
ragione che non può farlo: sarebbe sovvertire la dottrina, che nel peccato ha
uno dei suoi pilastri, e a un papa questo non è dato, neanche se volesse. Su
questo punto, d’altra parte, non vale neanche la pena di argomentare, perché
già da domattina ci penseranno le firme più autorevoli del mondo cattolico, e
fioccheranno citazioni sfuse e a pacchetti, dai Vangeli al Catechismo, anche se
a sputtanare Scalfari basterebbe anche solo qualche passaggio dall’intervista che
Bergoglio ha concesso ad Abraham Skorka (cfr. cap. II e cap. VII de Il cielo e
la terra, Mondadori 2013).
«Di fatto ha abolito il peccato», un beneamato
cazzo: Bergoglio si è limitato a dare due o tre pigiatine sul pedale della
Carità dopo che Ratzinger aveva affondato il piede a tavoletta su quello della Verità.
Tanto insistere sulla misericordia di Dio, d’altronde, che senso avrebbe se il
peccato fosse di fatto abolito? D’altronde, nell’intervista concessa a padre
Antonio Spadaro per La Civiltà Cattolica non è lo stesso Bergoglio ad aver
detto «sono un peccatore»?
Niente, Scalfari è convinto: «Un Papa che abbia
modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di
questa radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della
storia del cristianesimo e l’ha fatto operando contemporaneamente sulla
teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione. Soprattutto
sulla teologia». Roba da scomodare la Sala Stampa Vaticana per una nota ufficiale, già immagino quella vecchia pantegana di padre Federico Lombardi sudare sette camicie.
Grave
infortunio, quello di Scalfari, ma in fondo non è il solo a credere che Bergoglio voglia, e possa, cucire addosso al popolo di Dio un cattolicesimo che stia bello comodo al cavallo e alle ascelle. Poveri fessi.
Per
bilanciare il fallimentare consuntivo di un papato all’insegna del rigore
dottrinario c’era bisogno di un cazzone simpatico e alla mano, qualche
sbavatura era inevitabile, anzi, è probabile sia stata addirittura messa in
conto, perché l’attenzione dei perennemente distratti poteva essere stornata da tutta la merda
venuta a galla sotto il papato di Ratzinger solo con un’operazione ardita,
perciò rischiosa, sicché qualche rischio è stato messo in conto, e allo stato
il preventivo si rivela azzeccato. Ne è prova l’ansia che ha preso gli ambienti
cattolici più legati alla tradizione: è la negativa dell’entusiasmo che
Bergoglio ha suscitato in credenti e non credenti accomunati dall’idea – qui torna
utile citare Scalfari – che «l’uomo è libero, la sua anima è libera anche se
contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella
scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche
ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la
misericordia e il perdono che sono una costante eterna, […] purché, sia pure
nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia».
È una
dottrina cattolica a cazzo di cane, ma di grande appeal, infatti manca solo che
Bergoglio abolisca l’Inferno per chi rinunci alla misericordia divina anche in
punto di morte, ma Scalfari non dispera: «Può abolire l’Inferno, ma ancora non
l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da
secoli». Sì, ma la dottrina non ha dubbi al riguardo. Dettagliuzzo, via.
Non
scherzo: il fatto che Bergoglio «di fatto [abbia] abolito il peccato» al
momento non suscita reazioni, sembra davvero un dettagliuzzo. E in fondo su cosa s’è appuntata l’attenzione?
Cosa ha fatto sobbalzare alla lettura del pippone di Scalfari? La svista sulla
canonizzazione che Bergoglio avrebbe deciso per Ignazio di Loyola invece che
per Pierre Favre: «Concludo – ha scritto – con una frase che dice tutto su
questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi giorni fa Ignazio di
Loyola…».
Resosi conto dell’errore, come lo ha giustificato? «Ho probabilmente
[probabilmente, eh] usato male il verbo “canonizzare”… Usando quella parola
volevo segnalare che Papa Francesco ha sottolineato l’importanza del fondatore
della Compagnia di Gesù… Mi scuso con i lettori per l’imprecisione lessicale».
Dico: si può essere così coglioni? Ma dici che tra «pochi giorni fa» e «Ignazio
di Loyola» è accidentalmente saltato «il primo confratello di»: non è più
banale, ma più convincente?
Perché chiedere scusa ai lettori, poi? È stato
abolito il peccato, caro Scalfari, che vuoi che sia un’imprecisione
lessicale?
domenica 29 dicembre 2013
Embodiment / 1
Anche
se dobbiamo l’elaborazione del concetto a Melanie Klein (Notes on some schizoid
mechanisms, 1946), che sviluppa ciò che Sigmund Freud aveva postulato già
cinquant’anni prima (Weitere Bemerkungen über die Abwehr Neuropsychosen, 1896),
la definizione più suggestiva di identificazione proiettiva è forse quella
dataci da Ronald Laing: «The one person does not use the other merely as a hook
to hang projections on. He strives to find in the other, or to induce the other
to become, the very embodiment of projection» (Self and Others, 1969), che a mio
modesto avviso ha il pregio di cogliere l’intrinseco del meccanismo di difesa
di là dallo specifico che assume nei contesti in cui è più frequentemente osservato
(figlio/madre, amante/amato, paziente/analista) e di porre l’accento sull’elemento peculiare della strategia difensiva. In pratica
– mi si consenta l’immagine –
l’identificazione proiettiva è il tentativo del soggetto di trovare ipostasi (embodiment), e in un oggetto grandioso, per lo più autorevole e protettivo, e in ciò rivela il tratto schizoide che lo mette in atto quasi sempre come procedura di riparazione, anche quando il meccanismo muove in ambito borderline o narcisistico (cfr. Betty Joseph,
Projective Identification: clinical aspects, in: Joseph Sandler, Projection, Identification, Projective Identification, 1987).
Ora, chi ha un po’ di
consuetudine con questo blog sa bene che aprire un post con un incipit del
genere è un modo per mettere le mani avanti: voglio sgombrare il campo da ogni notazione di natura
moralistica nella descrizione di quello che altrimenti sarebbe da considerare vizio, preferendo rubricarlo come disturbo
della personalità, intrattenendomi sulla noxa come espressione di un disagio, cercando di individuare i fattori che la generano, trattando il soggetto che sollevo a caso clinico con la delicatezza che è indispensabile usare col malato. Ma forse anche questo non basterà, e già immagino il lettore smaliziato subodorare: «Eccolo, starà per rifilarci l’ennesimo pippone su Pannella o su Ferrara». Sbagliato, stavolta è su entrambi. Intendo affrontare, infatti, la questione
dell’identificazione proiettiva
che il primo mette in atto nei confronti di Bergoglio come il secondo ha fatto nei confronti di Ratzinger: mutatis mutandis, siamo dinanzi alla stessa narrazione clinica.
Qui, però, occorre una precisazione:
il concetto di identificazione proiettiva rende ragione dell’unidirezionalità del processo, dando valore pressoché irrilevante a quanto
nell’oggetto si offra come valido pretesto all’embodiment, che peraltro è messo in atto sempre in modo arbitrario, non di rado col ricorso a pratiche di manipolazione, come
d’altronde
è inevitabile quando per oggetto si sceglie un papa, pretendendo risponda in tutto e per tutto alle esigenze del caso. In tal senso, possiamo rilevare che l’unidirezionalità
dell’identificazione proiettiva trova in se stessa una garanzia di riuscita, a fronte di ogni resistenza che di fatto possa esser posta dall’oggetto. Poco importa, dunque, quanto
l’oggetto
sia disponibile, quanto Ratzinger sia stato davvero caregiver di Ferrara e quanto Bergoglio lo sia di Pannella:
l’attenzione va posta al perché il soggetto scelga un papa come oggetto.
venerdì 27 dicembre 2013
giovedì 26 dicembre 2013
[...]
Commentando
l’intervista che Bergoglio ha concesso una dozzina di giorni fa a Tornielli (La
Stampa, 15.12.2013), ho rilevato che la risposta «non c’è spiegazione» alla
domanda «perché soffrono i bambini?» sia il sintomo più evidente di quanto il
cattolicesimo sia crisi. Al perché Dio possa consentire che i bambini soffrano,
infatti, la teologia ha una risposta, ed è quella che fino a qualche decennio
fa anche l’ultimo dei pretonzoli non aveva difficoltà alcuna a ripescare dal De
natura boni di Agostino studiato in seminario, fatto sta che è risposta così
atroce, e a tal punto puzza dell’arcaico rituale della bestia innocente
immolata per ingraziarsi un Dio feroce, che pure Ratzinger, nel 2010, preferiva
far finta di non conoscerla, anche se si è sempre detto che quelle occhiaie gli fossero venute proprio per aver passato anni ed anni su Agostino, e alla bambina giapponese che gli chiedeva perché Dio
avesse consentito allo tsunami di recidere le vite di tanti suoi coetanei
farfugliava: «Anche a me viene la stessa domanda, ma non abbiamo risposte». Una
questioncella di teodicea che non imbarazza solo Bergoglio, dunque, ma è che Bergoglio
ci tiene al profilo mondano, e teneva a far presente che quel «non c’è
spiegazione» gliel’aveva rifilato Dostoevskij, suo «maestro di vita», al che
facevo presente che quella era la risposta di Ivan Karamazov, un senzadio, alla
quale suo fratello Alëša,
anima pia e devota, opponeva proprio quella data da Agostino. Bene, se n’è
accorto anche il giornale dei vescovi, che manda Alessandro D’Avenia a coprire la stronzata con un po’
di segatura.
Gira e rigira attorno alla stronzata detta da Bergoglio, poi a metà dell’editoriale procede: «Il Papa evoca
le brucianti pagine in cui Ivan Karamazov, nella sofferenza degli innocenti,
scorge un segno dell’assenza di Dio e se ne serve per la sua ribellione. Quella
del freddissimo Ivan verso il dolore innocente non è però com-passione ma
denuncia, scusa, teoria progettata da un cuore incapace di amare con i fatti e
bisognoso quindi di auto-giustificazione. Egli s’aggrappa a quel dolore non per
alleviarlo, ma per usarlo. Prende le distanze da quel dolore per mettere a
tacere la sua coscienza e Dio, ergendosi a giudice di un mondo e di un Dio
sbagliati. Ivan non muove un dito, non si china sul dolore, ma lo lascia lì,
per servirsene come atto di accusa e come certificato medico per il suo cuore gelido.
Per Ivan il dolore innocente è la frontiera sbarrata a un Dio che non risponde
ai perché dell’uomo, la frontiera che segna il confine della terra dell’uomo in
cui Dio non può entrare perché non ha i documenti in regola e viene rimandato
indietro. Su quella stessa frontiera lo lascia entrare il Papa che incontra
proprio lì lo sguardo di Dio, un Dio con la carta d’identità in regola, e tanto
di fotografia: Cristo. Anche Dostoevskij smaschera la “colpa originale” di Dio
e la rinvia alla libertà dell’uomo. Nelle pagine dello stesso romanzo il monaco
Zosima ricorda il fratello Markel, morto giovane. Anche lui, come Ivan, lontano
da Dio. Markel però, grazie al suo male, ha una conversione profonda fino a
dire “in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti, per tutti e per tutto. Io
non so come spiegarlo, ma sento fino allo spasimo che è così”. Proprio questa
consapevolezza gli ha dato la gioia del Paradiso, perché gli ha aperto occhi e
cuore all’Amore. Egli si fa carico del dolore innocente come colpevole: veste
così i panni del Dio che nella notte di Natale veste quelli dell’uomo. Sembrano
parole provenienti da un mondo altro quelle di Markel, ma sono le parole che
usano i santi definendo la propria essenza incapace di amare e benedire. Prima
ancora di riferirsi ai peccati effettivamente commessi, essi dicono “sono un
peccatore”. E lo dicono proprio perché la santità di Dio li ha toccati. Sono
due le possibilità che Dostoevskij prospetta di fronte al male,
all’ingiustizia, al dolore: Ivan, l’uomo che resta uomo, o Markel, l’uomo che è
trasformato in un altro Cristo».
Sia, ma Bergoglio dà la risposta che dà Ivan o
quella che dà Markel? E poi: nella risposta che dà Bergoglio v’è un pur lontano
cenno a Markel? La stronzata resta lì, D’Avenia riesce solo a spargerci sopra un
velo di segatura. Perché, prima di tutto, Markel è un peccatore, e ammette i
suoi peccati, insieme a quello originario, per farsi santo attraverso l’espiazione
nel dolore, fino alla morte. In più, non è un bambino: ha 17 anni, scrive Dostoevskij, e a quell’età
nella Russia zarista si è già adulti. Come può reggere il parallelo con il
dolore e la morte di un bambino che del solo peccato originario che gli si
voglia addebitare neanche ha coscienza? Nel caso di Markel, l’individuo è
attore, conscio, liberamente delibera l’accettazione della sofferenza e della
morte come riparazione sulla via della santità. Nel caso del bambino, tutto
questo manca. Il velo di segatura non copre la stronzata. Ma D’Avenia non demorde: «O si
maledice un mondo siffatto, nel quale siamo convocati senza consenso,
trincerandosi dietro un legittimo atto di accusa al mondo e a chi l’ha fatto,
allontanandocene, accusando la storia fino a disprezzarla: si diventa freddi,
rigidi, effettivamente “cattivi”; oppure si benedice il mondo e si assume su di
sé la colpa, rimanendo nel dinamismo della storia, accettando il male che ogni
giorno riserva (la morte si sconta vivendo), lasciando che la pena ferisca la
carne e a contatto con essa, in Cristo, venga superata chinandosi e
abbracciando: si diviene più aperti ed effettivamente buoni, di una bontà che
non è nostra».
E questa seconda opzione sarebbe quella che si prospetta, per
esempio, a un bambino di un anno appena che urla pazzo di dolore perché un
cancro gli sta mangiando il cervello? Sì, pare che sia proprio così: «Maledire
gli altri e il mondo ci porta a maledire Dio e in ultima istanza noi stessi:
Ivan. Benedire gli altri e il mondo invece è essere dentro lo sguardo che Dio
ha sulle cose e le persone, è essere liberi dal giudizio, e noi saremo
giudicati come abbiamo giudicato, salderemo il debito che abbiamo imputato ai
nostri debitori: Markel». Se questo era il lavoretto per cui era stato
mandato, era meglio che
D’Avenia si attrezzasse con bustina e sacchetto. Perché la stronzata è
ancora tutta lì, dove Bergoglio l’ha deposta. È chiaro, infatti, che il bambino
non è assolutamente in grado di benedire gli altri e il mondo per il cancro che
gli sta mangiando il cervello, dunque non ha modo di saldare alcun debito: due
volte maledetto, quindi? E da chi, se non dal Dio che se pure esistesse –
afferma Ivan – meriterebbe solo il nostro odio per la sua crudeltà?
No, «non c’è spiegazione»
è la sola spiegazione, e non ammette
l’esistenza di Dio.
Profondo rosso
Ieri
sono stato a casa dei miei, 87 anni lui, 83 lei, qualche acciaccuzzo fisico, qualche
torpore mentale, ma insomma, come dice mia sorella, non ci possiamo lamentare.
Dopo il pranzo di Natale, la scoperta. Di quelle che non guasterebbe come sottofondo
la colonna sonora di un film di Dario Argento. Qualcosa dei Goblin, diciamo.
Ecco, accendete la pista qui sotto e provate a immaginare la scena.
Il
quadretto era appeso in un angolino. Lo scorgo da lontano, in parte era coperto dalle foglie di un ficus. Incuriosito, mi avvicino - qui vi consiglio di alzare il volume di qualche decibel - scosto le foglie - ancora qualche decibel - mi avvicino per guardare meglio - mettete il volume al massimo - e faccio un salto indietro.
Potete riabbassate il volume, mi auguro sia servito a rendere
l’idea. È che quando scopri che tua figlia si è fatta un piercing alla lingua, hai due o tre extrasistoli, ma poi la cosa... Qui, hegelianamente parlando, non sai che cazzo dire.
«2008? Papà - chiedo provando a metterci un mix di biasimo, sconcerto e doglianza - ma non avevi smesso all’inizio degli anni Settanta?». Rialzate al massimo il volume: in risposta, un terrificante sorriso.
martedì 24 dicembre 2013
[...]
«Quello
che ci manca, rispetto al 1994, sono gli intellettuali», lamenta Giancarlo
Galan (la Repubblica, 23.12.2013). È a lui che Silvio Berlusconi ha dato l’incarico
di «rimpolpare le prossime liste con nomi della cultura», a lui il compito di
portare in Parlamento sotto le insegne di Forza Italia «i nuovi Urbani,
Melograni, Ferrara, Colletti». Colletti? Lucio Colletti? Parliamo del filosofo
che morì ben prima che Forza Italia diventasse il backstage di un B-movie tutto scoregge, battutacce e tette al vento? Bene,
fino ad allora non aveva mai risparmiato critiche al partito e al suo leader,
diremmo che morì criticando, sicché da tempo era mal tollerato, e al punto che nel 2001, che fu pure l’anno
della sua morte, riuscì a stento ad entrare in Parlamento, e solo grazie a un tardivo ripescaggio. Possiamo
trovargli mille difetti, ma Colletti era una persona seria, forse perfino un po’
seriosa: accetterebbe, oggi, di stare in lista con le sciacquette e i quaquaraquà che sono
il distillato della rinata Forza Italia?
Essere giusti con Bentham
Doppio
paginone di Paolo Mieli sul Corriere della Sera di lunedì 23 dicembre: prende
spunto da tre volumi che Il Mulino manda in libreria nel 25o° dalla
pubblicazione del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (Michel Porret,
Beccaria; Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?
Ascesa e declino dello Stato di diritto; Luigi Ferrajoli e Mauro Barberis, Dei
diritti e delle garanzie) per fare il punto su cosa sia cambiato in questo
quarto di millennio e concludere che «violenze ed esecuzioni capitali restano
pratiche diffuse». Poco da obiettare, tranne ciò scrive riguardo a Jeremy
Bentham: Bentham – scrive Mieli, citando
probabilmente Porret che sul padre dell’utilitarismo si è già intrattenuto in
almeno un’altra occasione, almeno a quanto mi risulta (suo il saggio in coda
all’edizione del Panopticon per Marsilio, 2002) – «“sorprendentemente” accetta,
nel 1843, questo genere di vessazioni [l’uso della tortura]». Chiaramente deve
trattarsi di un refuso, perché Bentham muore del 1832 e l’opera in questione, Théorie
des peines et des récompenses, è del 1825.
Ma questo, in fondo, è irrilevante
rispetto a ciò che segue (mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è necessario riportare integralmente il passo): «Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la
tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio,
circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo
scopo della detenzione del reo per Bentham “è poco chiaro”; il rapporto tra
fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato.
Nella tortura al contrario la “catena causale” tra fatto ed effetto o risultato è
assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in
ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed
esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad
indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva
Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta
affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che “la detenzione è
predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo
all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente
indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze
inflitte”. Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è
prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle
domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono
indirizzate».
Senza
pretendere di fare l’avvocato difensore di Bentham, e chiarendo che non intendo
far mie le sue opinioni in proposito, occorre dire che siamo dinanzi a una
lettura assai infelice di ciò che Bentham ha scritto, comune d’altra parte a
quella di chiunque abbia accostato il pensatore passando per la critica rivoltagli da Foucault
e, appunto, da Perrot, che ce lo ridanno come pianificatore di un allucinante sistema
carcerario.
Bentham, per esempio, era contrario alla pena di morte, non già per mero umanitarismo, ma perché, «lungi
dall’essere convertibile in profitto, è una perdita, uno sperpero di ciò che
produce la forza e la ricchezza di una nazione». L’orizzonte morale è
chiaramente fuori discussione, mentre anche qui la stella polare è quel «massimo
bene per il maggior numero di individui» che lo guida lungo tutto il corso
della sua riflessione sulla società e sullo stato. Ed è in tal senso che deve essere
letto ciò che scrive sulla pena, e al riguardo credo sia utile citare
un brano che ritengo derimente: «Ciò che giustifica la pena è la sua
maggiore utilità [rispetto al non applicarla] o, per dir meglio, è la sua
necessità. […] Il male prodotto dalle pene è una spesa che lo stato si accolla
in vista di un profitto, che è la riduzione dei crimini. In questa operazione
tutto deve essere calcolato del guadagno e della perdita, dal che risulta
evidente che diminuire la spesa o aumentare il profitto significa in ugual
misura ottenere un bilanciamento favorevole».
Come è lampante, ogni variabile
del sistema è ridotta a funzione, sicché si può concludere che è rigettata in
toto la scala valoriale che attiene a un giudizio di carattere morale. Poco
oltre, infatti, scrive: «Ordinariamente si parla di mitezza o di rigore della
pena, termini che implicano un pregiudizio di favore o di sfavore, che nuoce ad
un esame imparziale [di ciò che la pena è chiamata a procurare]. Dire mite una
pena è contraddittorio, mentre dirla economica vuol dire usare il [giusto =
conveniente] metro del calcolo e della ragione».
In quest’ottica, ciò che
riguarda la tortura, senza perdere l’atrocità che inevitabilmente suscita in
noi, acquista un senso ben diverso. Per Bentham la condizione-tipo che la rende
«economica» è quella del terrorista che si rifiuti di rivelare quanto sappia di un
attentato che stia per essere consumato con rilevanti perdite di vite umane. Alla
nostra sensibilità, due secoli dopo, ripugna l’idea che la tortura possa essere
utile, e questo probabilmente può essere considerato un bene, anche se il costo che comporta è quello di una strage di innocenti. Per Bentham,
invece, il bene sta nell’utile che ne ricava il maggior numero di individui a
discapito dell’individuo che si rende responsabile di un reato a danno della
collettività: che si voglia considere grande o piccola, la differenza tra noi e
lui è tutta qua.
lunedì 23 dicembre 2013
Urgenza morale
Amnistia,
indulto e popolazione detenuta nell’Italia repubblicana (Flavio Piraino,
altrodiritto.it) è un saggio che in poco più di 60.000 battute, una ventina di
tabelle e un’ottantina di voci bibliografiche sintetizza la storia dei
provvedimenti di clemenza emanati in Italia dal Regio decreto n. 1156 del 17
ottobre 1942 alla Legge n. 241 del 31 luglio 2006: numeri eloquenti e
inequivoci che consentono all’autore di poter affermare che ad essi «seguirono
aumenti del numero di delitti denunciati sempre superiori ai coefficienti
espressi dalla tendenza del periodo», rendendo «lecito concludere che gli
effetti negativi dei provvedimenti di clemenza generalizzata superano di larga
misura gli aspetti positivi in vista dei quali sono stati adottati e si risolvono
in un aumento della criminalità».
Basta questo per essere contrari a un’amnistia, oggi? Non credo. Se si ha l’onestà intellettuale di ammettere che si tratta solo di una misura emergenziale, si può dirla necessaria, basta evitare di immaginarla come soluzione definitiva del problema del sovraffollamento carcerario o, peggio, di prospettarla come tale. Senza una revisione dell’istituto della custodia cautelare, senza l’abrogazione della Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini, le carceri tornerebbero a sovraffollarsi in due o tre anni. E tuttavia il legislatore indugia: per insanabili dissensi tra le parti non è in grado di mettere mano a una riforma della giustizia, per dar conto a un’opinione pubblica che in larga maggioranza è ostile all’idea di un’amnistia neanche prova a discuterne, mentre fatica a prender atto che tenere in carcere tossicodipendenti e clandestini non risolve il problema della dipendenza da sostanze stupefacenti né quello delle grandi migrazioni di massa. D’intanto pende sull’Italia una procedura d’infrazione in sede europea proprio per le condizioni inumane che caratterizzano la detenzione nelle nostre carceri: da ciò, e per ciò, la necessità di un’amnistia, soluzione tampone al pari di ogni altro condono, dunque soluzione odiosa, se si vuole, perché mette in discussione la certezza della pena, ma necessaria – ripeto – per evitare che, per condizione date, la pena sia tortura e venga meno alla funzione di recupero che è contemplata dalla nostra Costituzione.
Come dicevo nel post qui sotto, però, l’Italia è il paese in cui il senso del compassionevole sposa la pratica dell’irresponsabilità, per cui a chi non vuole intendere che un’amnistia è necessaria in questi termini si oppone chi la chiede come soluzione strutturale dell’intero comparto della giustizia, quasi come se, a lasciar fare al cuore, la testa seguirebbe e, con la testa, mani, piedi e il resto. Difficile dire quale tra queste opposte fazioni sia più la più idiota, né in fondo importa più di tanto, perché quando la testa è al traino, e da locomotore sta, com’è in questo caso, lo stomaco irto di peli della plebe forcaiola o il cuore fibrillante dei radicali e di qualche frangia del cattolicesimo militante, ogni questione si fa irrisolvibile in radice, dunque risolvibile come mero braccio di ferro tra due opposte forme di irresponsabilità.
Un lettore particolarmente attento al senso che nel post qui sotto volevo dare a irresponsabilità ha sennatamente rilevato che il termine è da intendere, da un lato, come «comportamento incurante delle conseguenze» e, dall’altro, come «assenza di un qualsiasi meccanismo che faccia pagare per gli errori». In questo caso, chi è contrario a un’amnistia sembra non aver chiaro che, col permanere nello stato di illegalità in cui l’Italia attualmente si trova per la patente violazione dell’art. 27 della Costituzione e dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si arriverebbe in breve, in non più di pochi mesi, a sanzioni pesanti sul piano economico e a un ulteriore danno alla già non esaltante immagine che offriamo del nostro paese in ambito comunitario, e che tali conseguenze sarebbero a carico di tutti, di tasca e di faccia; d’altro canto, chi chiede l’amnistia come se fosse la soluzione definitiva di ogni problema relativo alla giustizia in Italia non tiene in alcun conto di ciò che il saggio di Piraino che citavo in apertura di questo post dimostra in modo irrefutabile, né sembra esser coerente con quella millantata difesa dello stato di diritto che non sta a tutela solo di Caino, ma anche di Abele, e qui la tentazione sarebbe quella di aggiungere soprattutto, giacché la vittima di un reato è parte lesa a causa di un diritto violato.
A ben vedere, dunque, e senza neanche dover vedere troppo oltre, siamo di fronte a due forme di irresponsabilità che sono facce opposte dello stesso moralismo: una ha il grugno arcigno di chi non sa intendere la pena che come ritorsione, l’altra ha il musetto pio di chi non sa intendere la clemenza che come condono. Un po’ più oltre, invece, e mi auguro non sia troppo oltre da dover trovare una qualche difficoltà a vedere, siamo di fronte alla tragicommedia delle buone intenzioni che non risolvono niente, perché in entrambi i casi si pongono a valle del problema. È perfino ovvio che qui si neutralizzino a vicenda.
Se tuttavia la posizione ostile a un’amnistia mostra evidenti i limiti che le impone il pregiudizio moralistico, e neanche mette conto il rimarcarli, una parola va spesa su quelli di chi si ostina a far forte la richiesta di un provvedimento di clemenza sollevando la questione di coscienza, e ciò tanto più paradossalmente se si tiene conto che su questa posizione vediamo confluire post comunisti come Napolitano e sedicenti crociani come Pannella, le cui rispettive scuole di pensiero concordano in un sol punto, e cioè sulla necessaria separazione tra politica e morale. Un po’ più comprensibilmente vediamo confluirvi pure alcuni cattolici, che danno un senso estensivo all’opera di misericordia corporale del visitare i carcerati. Vedremo costoro sfilare tutti insieme nella marcia di Natale promossa dai radicali, e avremo modo di contarli. Per la giornata le previsioni meteo annunciano pioggia, ma cosa volete possa contare un po’ di pioggia quando è in gioco un’urgenza morale?
Basta questo per essere contrari a un’amnistia, oggi? Non credo. Se si ha l’onestà intellettuale di ammettere che si tratta solo di una misura emergenziale, si può dirla necessaria, basta evitare di immaginarla come soluzione definitiva del problema del sovraffollamento carcerario o, peggio, di prospettarla come tale. Senza una revisione dell’istituto della custodia cautelare, senza l’abrogazione della Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini, le carceri tornerebbero a sovraffollarsi in due o tre anni. E tuttavia il legislatore indugia: per insanabili dissensi tra le parti non è in grado di mettere mano a una riforma della giustizia, per dar conto a un’opinione pubblica che in larga maggioranza è ostile all’idea di un’amnistia neanche prova a discuterne, mentre fatica a prender atto che tenere in carcere tossicodipendenti e clandestini non risolve il problema della dipendenza da sostanze stupefacenti né quello delle grandi migrazioni di massa. D’intanto pende sull’Italia una procedura d’infrazione in sede europea proprio per le condizioni inumane che caratterizzano la detenzione nelle nostre carceri: da ciò, e per ciò, la necessità di un’amnistia, soluzione tampone al pari di ogni altro condono, dunque soluzione odiosa, se si vuole, perché mette in discussione la certezza della pena, ma necessaria – ripeto – per evitare che, per condizione date, la pena sia tortura e venga meno alla funzione di recupero che è contemplata dalla nostra Costituzione.
Come dicevo nel post qui sotto, però, l’Italia è il paese in cui il senso del compassionevole sposa la pratica dell’irresponsabilità, per cui a chi non vuole intendere che un’amnistia è necessaria in questi termini si oppone chi la chiede come soluzione strutturale dell’intero comparto della giustizia, quasi come se, a lasciar fare al cuore, la testa seguirebbe e, con la testa, mani, piedi e il resto. Difficile dire quale tra queste opposte fazioni sia più la più idiota, né in fondo importa più di tanto, perché quando la testa è al traino, e da locomotore sta, com’è in questo caso, lo stomaco irto di peli della plebe forcaiola o il cuore fibrillante dei radicali e di qualche frangia del cattolicesimo militante, ogni questione si fa irrisolvibile in radice, dunque risolvibile come mero braccio di ferro tra due opposte forme di irresponsabilità.
Un lettore particolarmente attento al senso che nel post qui sotto volevo dare a irresponsabilità ha sennatamente rilevato che il termine è da intendere, da un lato, come «comportamento incurante delle conseguenze» e, dall’altro, come «assenza di un qualsiasi meccanismo che faccia pagare per gli errori». In questo caso, chi è contrario a un’amnistia sembra non aver chiaro che, col permanere nello stato di illegalità in cui l’Italia attualmente si trova per la patente violazione dell’art. 27 della Costituzione e dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si arriverebbe in breve, in non più di pochi mesi, a sanzioni pesanti sul piano economico e a un ulteriore danno alla già non esaltante immagine che offriamo del nostro paese in ambito comunitario, e che tali conseguenze sarebbero a carico di tutti, di tasca e di faccia; d’altro canto, chi chiede l’amnistia come se fosse la soluzione definitiva di ogni problema relativo alla giustizia in Italia non tiene in alcun conto di ciò che il saggio di Piraino che citavo in apertura di questo post dimostra in modo irrefutabile, né sembra esser coerente con quella millantata difesa dello stato di diritto che non sta a tutela solo di Caino, ma anche di Abele, e qui la tentazione sarebbe quella di aggiungere soprattutto, giacché la vittima di un reato è parte lesa a causa di un diritto violato.
A ben vedere, dunque, e senza neanche dover vedere troppo oltre, siamo di fronte a due forme di irresponsabilità che sono facce opposte dello stesso moralismo: una ha il grugno arcigno di chi non sa intendere la pena che come ritorsione, l’altra ha il musetto pio di chi non sa intendere la clemenza che come condono. Un po’ più oltre, invece, e mi auguro non sia troppo oltre da dover trovare una qualche difficoltà a vedere, siamo di fronte alla tragicommedia delle buone intenzioni che non risolvono niente, perché in entrambi i casi si pongono a valle del problema. È perfino ovvio che qui si neutralizzino a vicenda.
Se tuttavia la posizione ostile a un’amnistia mostra evidenti i limiti che le impone il pregiudizio moralistico, e neanche mette conto il rimarcarli, una parola va spesa su quelli di chi si ostina a far forte la richiesta di un provvedimento di clemenza sollevando la questione di coscienza, e ciò tanto più paradossalmente se si tiene conto che su questa posizione vediamo confluire post comunisti come Napolitano e sedicenti crociani come Pannella, le cui rispettive scuole di pensiero concordano in un sol punto, e cioè sulla necessaria separazione tra politica e morale. Un po’ più comprensibilmente vediamo confluirvi pure alcuni cattolici, che danno un senso estensivo all’opera di misericordia corporale del visitare i carcerati. Vedremo costoro sfilare tutti insieme nella marcia di Natale promossa dai radicali, e avremo modo di contarli. Per la giornata le previsioni meteo annunciano pioggia, ma cosa volete possa contare un po’ di pioggia quando è in gioco un’urgenza morale?
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