«Correggere
una costituzione
non
è impresa minore
del
costruirla la prima volta»
Aristotele,
Politica IV, 1 (1289 a 5)
«La
costituzione di un paese
non è un atto del suo governo,
ma del
popolo che costituisce il governo»
Thomas Paine, I diritti
dell’uomo (1791)
I. Al
referendum che si terrà il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati
a esprimersi su una riforma che modifica più di un terzo degli
articoli della Costituzione ai titoli I, II, III, V, VI della sua
Parte II.
Già qui mi pare si ponga un problema non irrilevante,
quello relativo alla libertà del voto, di fatto negata su ciascuno
dei tanti articoli toccati dalla riforma, per lasciare all’elettore
solo la possibilità di esprimere un parere complessivo su un
pacchetto quanto mai disomogeneo nei suoi contenuti, con ciò
disattendendo all’indicazione
più volte espressa dalla Consulta circa la necessità che ogni
progetto di legge debba rispettare i caratteri di omogeneità e
autonomia riguardo ai contenuti e quello di coerenza riguardo alla
loro sistematicità. Non c’è
da stupirsene, perché ad approvare questa riforma è stato un
Parlamento eletto con una legge elettorale poi riconosciuta
incostituzionale, e della quale avrà voluto dimostrarsi all’altezza.
Al dubbio sulla legittimità giuridica, se non morale, che un tale
Parlamento potesse metter mano a una riforma costituzionale si è
soliti opporre il fatto che la Consulta non ha dichiarato illegittimi
gli atti legislativi licenziati dalle Camere elette con una legge
elettorale che pure dichiarava incostituzionale, ma si dimentica che
il principio sul quale si reggeva quella che al buon senso suona come
una contraddizione era quello della prorogatio
che la Costituzione concede al Parlamento solo al fine di riempire il
vuoto che a seguito di nuove elezioni si crea in attesa che vengano
convocate le nuove Camere (art. 61) oppure, e perciò espressamente chiamate a
supplenza, per la conversione in legge di decreti prossimi a
scadenza (art. 77): una prorogatio, dunque, finalizzata esclusivamente al disbrigo di affari correnti, non per darsi tempi e compiti
da Assemblea Costituente.
Ma così – si obietta – si sarebbe
andati alle elezioni con il proporzionale del cosiddetto Consultellum. Bene, anzi benissimo,
quale altro sistema avrebbe potuto rappresentare al meglio tutto il
Paese in Parlamento al fine di dare un segno di condivisione ad una
nuova legge elettorale e ad una revisione della Carta della quale i
partiti politici si facessero esplicitamente promotori col loro programma
elettorale? O è da ritenersi più corretto che, sul piano politico,
questa riforma sia nata per l’iniziativa
di un partito che non la
contemplava nel programma col quale chiedeva voti agli elettori e
che, sul piano istituzionale, sia stata promossa da un governo che non si è risparmiato in colpi di mano in Commissione e in Aula per farla approvare in via definitiva da soli 361 deputati su un totale di 630?
Si
risponde fosse una riforma non più prorogabile, e dunque non importa
troppo come si sia arrivati alla sua approvazione, l’importante è
che al più presto venga meno il bicameralismo perfetto, che
d’altronde non piaceva nemmeno a Piero Calamandrei, del quale
probabilmente si ignora quanto scrisse sulla necessità che un
governo si tenga fuori dal processo di revisione costituzionale:
«Quando
l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i
banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve
rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che
questo scaturisca interamente dalla libera determinazione
dell’assemblea sovrana»
(Come
nasce la nuova Costituzione,
1947).
Date queste premesse, la riforma sulla quale gli italiani sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre non si sarebbe dovuta neppure scrivere. Per votare no, potrebbe bastare anche solo questo.
II. Laddove non si considerassero valide le ragioni fin qui esposte, basta rammentare i passi salienti che hanno segnato il suo iter parlamentare, a cominciare dall’impulso datole da Giorgio Napolitano come condicio sine qua non dell’accettare la sua rielezione al Quirinale, che non è esagerato definire una vera e propria mostruosità istituzionale, forse il punto più basso nella storia dell’istituto della Presidenza della Repubblica, peraltro già ampiamente stravolto nel settennato che si era appena chiuso: il Capo dello Stato prendeva un’iniziativa che andava ben al di là delle prerogative assegnategli dalla Carta, sulla quale poneva una vera e propria questione di fiducia al Parlamento, arrogandosi il diritto di poter chiedere al governo di cui avrebbe nominato il Presidente del Consiglio un impegno vincolante in tal senso, per poi spendersi giorno dopo giorno, quasi sempre in forma assai irrituale, come dominus dell’iter parlamentare.
È il pressing del Quirinale a fare degli esecutivi di Enrico Letta, prima, e di Matteo Renzi, poi, dei governi di scopo, e lo scopo è fissato da Giorgio Napolitano. Il cosiddetto cronoprogramma di Enrico Letta trova perplessità in seno al suo stesso governo con gli interventi critici di Emma Bonino e di Andrea Orlando, che tuttavia non trovano voce in capitolo: «Non ho intenzione di tirare a campare – dichiara Letta – e tra diciotto mesi tirerò una riga: se sulla riforma non c’è nulla, ce ne andiamo tutti a casa». Ma c’è chi scalpita per prenderne il posto, perché non corre abbastanza: «È un incapace», dice Matteo Renzi, intercettato a colloquio telefonico con Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, e dopo il noto #enricostaisereno va a chiederne la testa alla Direzione del Pd, che gliela concede.
Ora Napolitano può contare su uno che i cronoprogrammi se li mangia: pronta rimozione dei parlamentari del Pd che avevano espresso qualche riserva nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; rimozione del relatore di minoranza, Roberto Calderoli, con una motivazione (il patto del Nazareno si è esaurito) che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a chiunque sappia che le procedure di revisione costituzionale non possono essere alterate per congiunture di natura politica; su iniziativa del senatore Roberto Cociancich, una ventina d’anni prima capo-scout di Matteo Renzi, passa un emendamento che annulla il voto segreto su tutte le votazioni che il governo riteneva a rischio; pur di non rivedere il testo della riforma, che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, passa nella stesura definitiva della modifica dell’art. 57 la patente contraddizione tra il comma 2 (i membri del nuovo Senato saranno eletti dai Consigli Regionali) e il comma 5 (tale elezione dovrà avvenire in conformità alle scelte degli elettori).
Approvata in via definitiva a tempo di record, ma senza ottenere i voti dei due terzi delle Camere, la riforma si avvia giocoforza al vaglio referendario previsto dall’art. 138 della Costituzione, che Renzi si sente in diritto di spacciare come gentile concessione del suo governo con una motivazione che ha dell’incredibile («l’avremmo indetto comunque»), ma sulla quale è probabile ritiene offesa che si abbia qualche dubbio. In fondo, via, si tratta di un uomo di parola.
Ma sarà il caso di passare al merito della riforma.
[segue]