domenica 19 settembre 2010

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“L’ho fatto, non c’è problema”



Pensavo che la moglie di Bandinelli fosse morta di noia e invece la sua scomparsa dev’essere dovuta ad altra causa. Non sarebbe carino parlarne se non fosse che il nostro caro Angiolo si intrattiene pubblicamente sul decesso, e in questi termini: “Recentemente ho dovuto fare una scelta relativa al destino di vita o di morte di una persona a me molto cara. Ho scelto secondo coscienza e avrei assolutamente impedito che altri prendessero questa decisione che spettava a me. L’ho fatto, non c’è problema” (01:34:53-01:35:17). Troppo poco per aprire un fascicolo in Procura, forse, ma non vorrei che questa fosse l’autodenuncia di un atto di disobbedienza civile, come nella miglior tradizione radicale, e passasse irrilevata. E tuttavia, se è un’autodenuncia, col cazzo che non c’è problema”.

Se è un’autodenuncia Dal corpo del malato al cuore della politica, certo, e nella pannelliana convinzione che nulla è davvero privato per un radicale, ma i Bandinelli hanno scelto uno stile sobrio, senza cedimenti all’esibizionismo dei Coscioni e dei Welby. E tuttavia non è chiaro se si tratti di un’autodenuncia: la scelta posta in atto violava o no le vigenti normative sul fine vita? Se sì, Bandinelli si è autodenunciato. Con adamantina coerenza e cristallina onestà intellettuale, lo ha fatto. Se la morte della signora fosse stata sbrigata alla maniera che consiglia Ferrara – consiglio di famiglia, dottore amico, cento euro alla suora e acqua in bocca – a questo incauto sbracamento scatterebbe il procedimento d’ufficio. Ma si tratta senza dubbio di autodenuncia, come è rilevabile dal pathos bioetico della rivelazione (“persona”,  coscienza”, “destino”, “decisione”): la Procura tenga conto. 

Se non è un’autodenuncia Può darsi che la signora sia morta in ossequio alle leggi vigenti e che Bandinelli non ci abbia dovuto rimettere neanche i cento euro. E allora perché raccontarlo? Perché tutto quel pathos bioetico? Probabilmente per sentirsi un po’ Englaro, sennò quando gli capitava più? In questo caso, possiamo chiudere un occhio: la civetteria dei vedovi è un peccato veniale.

Da Tommaso Moro a Pierluigi Castagnetti


Benedetto XVI ha ragione: “Le questioni di fondo che furono in gioco nel processo contro Tommaso Moro continuano a presentarsi, in termini sempre nuovi, con il mutare delle condizioni sociali” (Discorso in Westminster Hall, 17.9.2010); e dunque si tratta di questioni sulle quali non è superfluo intrattenersi, perché da dieci anni Tommaso Moro è santo patrono dei politici e dei governanti, indicato dalla Chiesa a politici e governanti cattolici come modello da seguire.
Converrà accostarci a questo modello cominciando proprio dalle note biografiche riportate nel Motu proprio del 31 ottobre 2000 che lo eleva a esempio: “Tommaso Moro visse una straordinaria carriera politica nel suo Paese. Nato a Londra nel 1478 da rispettabile famiglia, fu posto, sin da giovane al servizio dell’Arcivescovo di Canterbury, Giovanni Morton, Cancelliere del Regno. Proseguì poi gli studi in legge ad Oxford e a Londra, allargando i suoi interessi ad ampi settori della cultura, della teologia e della letteratura classica. Imparò a fondo il greco ed entrò in rapporto di scambio e di amicizia con importanti protagonisti della cultura rinascimentale, tra cui Erasmo Desiderio da Rotterdam. […] Nel 1504, sotto il re Enrico VII, venne eletto per la prima volta al parlamento. Enrico VIII gli rinnovò il mandato nel 1510, e lo costituì pure rappresentante della Corona nella capitale, aprendogli una carriera di spicco nell’amministrazione pubblica. Nel decennio successivo, il re lo inviò a varie riprese in missioni diplomatiche e commerciali nelle Fiandre e nel territorio dell’odierna Francia. Fatto membro del Consiglio della Corona, giudice presidente di un tribunale importante, vice-tesoriere e cavaliere, divenne nel 1523 portavoce, cioè presidente, della Camera dei Comuni. […] Nel 1529, in un momento di crisi politica ed economica del Paese, fu nominato dal re Cancelliere del regno, primo laico a ricoprire questa carica […] Nel 1532, non volendo dare il proprio appoggio al disegno di Enrico VIII che voleva assumere il controllo sulla Chiesa in Inghilterra, rassegnò le dimissioni”.

Qui dobbiamo correggere il testo: Enrico VIII non aveva alcuna intenzione di assumere il controllo sulla Chiesa in Inghilterra, ma si ritrovò di fatto ad assumerlo per essersi trovato in disaccordo col Papato su una questione che riteneva vitale per il suo Regno. Non aveva un erede maschio e ne dava colpa alla moglie, Caterina d’Aragona. Deciso a ripudiarla per sposare Anna Bolena, di cui s’era innamorato, cercò di ottenere l’annullamento del matrimonio da papa Clemente VII. Questo favore difficilmente era negato da un papa a un potente, basti pensare all’annullamento del matrimonio tra Giovanni Sforza e Lucrezia Borgia concesso da papa Alessandro VI qualche decina d’anni prima. Qui, però, la moglie da lasciare era cattolica, per di più nipote di Carlo V, stretto alleato del papa, e quella da pigliare era protestante: Clemente VII s’impuntò e rigettò la richiesta che Enrico VIII gli aveva presentato facendola illustrare proprio da Tommaso Moro. Il santo non si rifiuta di andare a Roma a chiedere l’annullamento del matrimonio, che evidentemente ritiene annullabile: ci va e si fa in quattro per convincere il papa, anche se non ci riesce.
Tommaso Moro non cade in disgrazia per aver difeso, insieme al suo papa, contro il suo re, l’indissolubilità del matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona, ma solo perché si viene a creare una incompatibilità tra fedeltà al papa e fedeltà al re, un re che papa Leone X aveva insignito del titolo di defensor fidei.

“Muoio fedele a Dio e al re, ma a Dio innanzitutto”, dice Tommaso Moro, ma Dio è il Papato. E infatti muore perché rifiuta di sottoscrivere un atto del suo re che “contrasta direttamente con le leggi di Dio e della sua Chiesa, in quanto la suprema giurisdizione della Chiesa o di una sua parte non può venire avocata a sé, con nessuna legge, da nessun principe temporale, appartenendo di diritto alla Sede di Roma per quel primato spirituale trasmesso per singolare privilegio a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi di quella Sede, dalla parola stessa di Cristo nostro Salvatore al tempo della Sua presenza su questa terra […] Il Regno d’Inghilterra, non essendo che una piccola parte e un singolo membro del corpo della Chiesa, non può promulgare una legge particolare in contrasto con la legge generale della Chiesa cattolica, l’universale Chiesa di Cristo”.
L’epoca non conosce ancora la separazione tra Stato e Chiesa che sarà conquista posteriore: la giurisdizione della Chiesa è suprema per definizione. Sicché si può convenire col proprio re che l’annullamento del matrimonio sia necessario secondo la logica che guida questi a considerarla una retta soluzione politica, ma non si può più essergli fedele contro la logica che guida il papa a considerare quella soluzione dannosa agli interessi politici del Papato.
Giusta la sua condanna come traditore dello Stato, comprensibile che dal Papato sia elevato a esempio di politico cattolico: un politico cattolico può essere fedele allo Stato solo fino a quando lo Stato non lede il primato che il Papato ritiene di poter vantare. Per il politico cattolico questo primato è pienamente rispettato nell’adesione al magistero morale e sociale della Chiesa: se lo Stato lo recepisce, non c’è incompatibilità tra fedeltà allo Stato e al Papato; in caso contrario, ogni politico cattolico sarebbe tenuto ad affidarsi al suo santo patrono e favorire gli interessi del Papato, contro quelli dello Stato.
Un politico cattolico è traditore dello Stato in potenza, sempre; e lo è in atto quando Stato e Chiesa entrano in attrito. “Noi abbiamo due appartenenze – spiegava un politico cattolico, non molto tempo fa – una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il papa. Per noi è il vicario di Dio in terra” (Pierluigi Castagnetti – Corriere della Sera, 25.3.2009).

sabato 18 settembre 2010

venerdì 17 settembre 2010

Due birre


Può capitare che due si perdano di vista, ma può capitare che uno dei due si rifaccia vivo. Tra atei è tutto abbastanza semplice. “Ciao, ti ricordi?”, fa uno; e l’altro: “Ma certo, come no, dove ti eri andato a ficcare?”; e si finisce a chiacchierare da qualche parte, bevendo una birra.
 Tra buoni cristiani è maledettamente più complicato. A quello che si rifà vivo tocca lamentarsi di essere stato abbandonato e all’altro spetta una roba del genere: “Noi non siamo  dimenticati, mai, da Colui che ci fa in ogni momento. E solo ricordandolo posso avere misericordia di questa memoria bucata, di questa trascuratezza, di questo limite, di questa finitezza degli altri e soprattutto e inesorabilmente mia. Perdonami, e perdonaci”. Insomma, la birra finisce per farsi calda.


Santi a perdere


Benedetto XVI, capo della chiesa cattolica, rammenta a Elisabetta II, capo della chiesa anglicana, che “i monarchi d’Inghilterra e Scozia erano cristiani sin dai primissimi tempi ed includono straordinari santi come Edoardo il Confessore (1002-1066) e Margherita di Scozia (1045-1093)” e, con un salto di otto secoli, arriva a John Henry Newman (1801-1890), santo a momenti. Tommaso Moro, Giovanni Fischer, Giovanni Houghton, Roberto Lawrance, Agostino Webster, Riccardo Reynolds, Giovanni Stone, Davide Gonson, Giovanni Ireland, solo per citare i più eccellenti: di santi cattolici, per lo più martiri, morti in terra inglese per restare fedeli al papa, opponendosi allo scisma anglicano, se ne contano 324. Citarne solo uno sarebbe maleducazione e al momento Benedetto XVI si rivela educatissimo: nei primi 6 dei 15 discorsi programmati in terra anglicana non se ne trova uno.

Aggiornamento Tommaso Moro era proprio impossibile non nominarlo, e ha trovato modo di citarlo: “Vorrei ricordare la figura di san Tommaso Moro, il grande studioso e statista inglese, ammirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al sovrano, di cui era 'buon servitore', poiché aveva scelto di servire Dio per primo”. Ne dovremo parlare in un post a parte.

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Tra gli scriventi





Poi, ecco, “riforme coraggiose e profonde”



“Due anni fa – scriveva Walter Veltroni (Corriere della Sera, 24.8.2010) – quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio”. Sappiamo come è andata: non bastarono per vincere. Veltroni teneva a precisare: “Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese”. Senza dubbio, ma quel milione e mezzo scelse il centrodestra.
Perché il Pd perse? Le ragioni di una sconfitta sono sempre molto numerose, almeno quanto quelle di una vittoria, anzi, le une e le altre talvolta coincidono: in questi casi l’umano conato all’assoluto osa parlare di fattori oggettivi. Bene, dovendo cedere al conato, diremmo che quella di Veltroni, di andare alle urne da soli, contro un avversario che avrebbe fatto il pienone di alleatucoli attivi e passivi, oggettivamente non fu una grande idea.
Bella o no che fosse sul piano morale e su quello estetico, la scelta di Veltroni non sfavorì il centrodestra e – oggettivamente – azzerò ogni residua speranza dei suoi oppositori, eccezion fatta per un Pd che fosse destinato a pigliare più voti di Pdl e Lega insieme. Era un azzardo, insomma. E Veltroni perse, per sé e per il suo partito.
Sarà stata pure una sconfitta buona e bella, ma Veltroni era partito per vincere. Sacrosanta la libertà di azzardo, ma poi vogliamo onorare di debiti di gioco? Hai perso: a casa. Avrai tempo per pensare, leggere, scrivere, convincere i posteri che non è stato giusto tu abbia perso, ma intanto hai perso: sbaracca. Figurarsi, Veltroni non sbaracca. In vista di elezioni (e quando e se) si dichiarava contrario ad “una santa alleanza contro Berlusconi”: il Pd deve correre da solo (lo appoggi chi voglia, Veltroni dice che non rifiuterà l’appoggio).
Ci sono maggiori probabilità di vittoria, stavolta?

Se una risposta c’è, sta dentro al documento che Veltroni ha diffuso ieri, trovando a sottoscriverlo Fioroni e Gentiloni. “La crisi politica del centrodestra è arrivata ad un punto di non ritorno”: la sua è “una crisi strategica”. “Si va concludendo un ciclo storico”, siamo al “fallimento del berlusconismo”. Insomma, stavolta si vince facile: Berlusconi non si rialza più.
Non lo si è già pensato, in passato? La sinistra ha creduto che Berlusconi fosse un uomo finito, irreparabilmente fottuto per sua stessa mano, fin da quella volta che appoggiò Fini contro Rutelli per il Campidoglio, quando dai fori cadenti dell’arco costituzionale s’udì: “Berlusconi ha chiuso con la politica. Prim’ancora di aprire, se ne aveva intenzione”. L’atipia non poteva durare troppo a lungo – si è sempre detto – e lo si è detto fin dai suoi primi passi nella politica, e dunque perché fare una legge sul conflitto di interessi?
Le spallate per accelerare la caduta non sono mai mancate – la conquista del potere non è sport da signorine – ma sempre più fiacche, sicché è prevalso l’uso dello scansarsi – come signorine non adatte allo sport – sicuri che più di tanto non avrebbe potuto osare, l’atipico, sul piano morale e su quello estetico: era agli sgoccioli, si è detto fin dal suo primo sgocciolare.
E ci ha sommerso.

Un blocco sociale come quello coagulatosi intorno a Berlusconi non sparisce nell’idrovora: l’uscita di scena di Berlusconi non estingue il berlusconismo e non impedisce – anzi, è probabile solleciti – una sua mutazione al frusto o al torpido. Ma Veltroni consiglia l’azzardo: è la volta che Berlusconi perde – sostiene – e la sua uscita di scena risolve tutto. La rete di convenienze materiali e l’edificio culturale che le rappresentano – puf, spariscono. Un sano maggioritario si avvia verso un compiuto sistema bipolare, i cattivi sono tutti morti, lieto fine, titoli di coda.
La trama rimane aperta, ci si può cavare un seguito: l’Italia è a pezzi (tutto il primo tempo e buona metà del secondo, per un totale di quattro quinti del documento, tutti in descrizione del paesaggio); poi, ecco, “riforme coraggiose e profonde”. Pare che il regista non tenga conto dei costi e non abbia la minima idea di come procurarsi i mezzi per realizzare questa pellicola. Sa solo cosa non vuole nel suo film: che il buono non vinca sul cattivo usando le sue stesse armi, perché le armi del cattivo sono cattive di conseguenza, e gli scoppiano in mano.
No al neo-frontismo, dunque, ma questo già s’era detto nel 2008, e Veltroni perse. Perse contro un centrodestra coalizzato in fronte. Ora, invece, c’è bisogno di “un partito grande del riformismo, un partito a vocazione maggioritaria, capace di competere per il primato nel Paese e di attrarre e organizzare attorno alla sua proposta le migliori energie intellettuali e morali, sociali e civili”, e modestamente il Pd lo nacque.
D’altra parte, “la vocazione maggioritaria del Pd non è, non è mai stata, culto dell’autosufficienza, ma lo sforzo di pensare se stesso, la propria identità e la propria politica, non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea, in una visione più ampia dell’interesse generale e in una sintesi di governo, che sia in grado di dare adeguate risposte ai grandi problemi del presente e del futuro”.
Bello, eh? Non suona a meraviglia? Bene, è tratto dal Manifesto del Pd di Veltroni, quello del 2008. Non convinse, e Veltroni perse.

Che il Pd possa pigliare più voti di Pdl e Lega insieme: lo stesso azzardo, lo stesso uomo, e nel Pd c’è pure chi gli presta ascolto. Non è proprio questa la prova che il Pd da solo può solo perdere?

mercoledì 15 settembre 2010

A che cosa serve il Papa



L’idea di bruciare copie del Corano alletterebbe anche Langone, se non fosse che il Papa non vuole, e allora Langone si trattiene, così non mette in pericolo la vita di altri cristiani in Asia. Ha bisogno che il Papa glielo vieti, sennò  fanculo ai cristiani in Asia – chi lo tiene? Non servisse ad altro, il Papa serve almeno da bromuro.

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Vespa corregge Padellaro: Gaucci è stato fidanzato (e non marito) della Tulliani. E lo fa con un tal sussiego da sacerdote dell’informazione ultracorretta che il povero Padellaro rimane un poco imbarazzato, deglutisce, cerca di minimizzare, tenta di sorvolare. Ma Vespa, senza pietà, infierisce: mani dietro la schiena, un trequarti anteriore sinistro in camera, fa due o tre lenti passi allontanandosi dalla poltrona di Padellaro, ma continuandolo a fissare col ciglio altero e l’occhio obliquo.
Più eccitante del documentario in cui il cobra ipnotizza il topolino e se lo pappa ancora vivo tutto intero.

martedì 14 settembre 2010

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Tutti contenti alla notizia che il kemalismo vada in soffitta e che la società turca sia finalmente libera dal giogo dell’esercito e della magistratura che, con la scusa di far da garanti alla laicità dello stato, hanno penalizzato il ruolo pubblico della fede e sottratto diritti ai credenti. Adesso tocca ai turchi dimostrare che fosse una scusa.   

C'è di nuovo vita nel Pd



Pensavate che il Pd fosse morto? Sbagliato. Dalle schermaglie che dalemiani e veltroniani hanno ripreso ad ingaggiare su tutto – giustizia, economia, sistema elettorale, alleanze, primarie, ecc. – si capisce che nel partito c’è fermento, per lo meno non c’è più apatia, e le idee ricominciano a fiorire. Non ne vedi due uguali, ma fioriscono.
Naturalmente ci sono gli incontentabili ai quali non basta che il Pd ridia segni di vitalità e prenderebbero che non fossero solo di conflittualità interna. Diciamolo subito: sono i critici della dialettica interna, sono quelli subito pronti a pigliare le difese di Gianfranco Fini ma che vorrebbero un Pd monolito come il Pdl. Democratici a chiacchiere, non capiscono che la dialettica tra Veltroni e D’Alema è il più prezioso contributo della sinistra ad un partito di centrosinistra. Che non si esaurisce nei reciproci dispettucci quotidiani dei fidelizzati all’uno e all’altro, ma da qualche tempo ha i connotati di una vera e propria terza componente, a volte a lato e a volte sopra il vivacissimo dialogo tra la virile socialdemocrazia dalemiana e la soffice liberaldemocrazia veltroniana, più spesso sotto.
Questa terza componente non sta parata a falange, e già questo dà il senso della novità: si possono mettere in circolazione idee senza arroccarsi in una fondazioni o aprire una tv, c’è il web, la voglia di emergere, la faccia pulita, l’animo carino, via la posa cinica e cazzuta e il sarcasmo a fil di baffetto, via l’irenismo flaccido e inconcludente che mi cola di qua e di là. Questi Marino, questi Renzi, questi Civati – li guardi, li senti e capisci che sono di un’altra razza – capisci che il Pd è rinato, ma rinnovato.

“Io non sono tanto affezionato alle formule”, dice Civati (Libero, 14.9.2010), ma non ci rinuncia: “un’alleanza con Vendola e Di Pietro per verificare la possibilità poi di estenderla”. “Aberrante” è “il concetto di fare un’alleanza contro Berlusconi” per farlo cadere, “ammesso che cada”, ma c’è un’alternativa: “se cade, fare un’alleanza che vada oltre Berlusconi”. È l’uovo di Colombo: si leva all’alleanza il grosso della fatica, lasciandolo a Berlusconi, e ci si concentra sul come evitare che, dopo esser caduto, si rialzi per l’ennesima volta.
Per fare questo occorre innanzitutto “rottamare il gruppo dirigente”. Quando? “Quando sarà il momento”. Prima o poi D’Alema a casa dunque? Macché, “Berlusconi ha tenuto insieme Fini e Bossi, noi riusciremo a tenere insieme Renzi e D’Alema”. Ma allora chi ha da esser rottamato, Bersani? No, Bersani va bene, solo che deve svecchiare lo stile, per esempio rinunciare ai suoi “proverbi” («il tortello a misura di bocca», «le bambole da pettinare»…): non sono “proverbi”, ma a Civati non piacciono.
Uno ascolta le brillanti idee dei giovani emergenti e finisce per preferisce gli opachi rancori dei vecchi sommersi.

Un Pd liberistoide


Non so se ve ne siete accorti, ma qualcuno, stando a quanto accadeva nel Pd, “negli ultimi anni ha considerato la sinistra un succedaneo delle politiche liberiste” (il Riformista, 14.9.2010). Pizzicato, il bastardo? No? Vabbe’, certamente non vi sarà sfuggito tutto il liberismo che è circolato nel Pd negli ultimi anni, anche se succedaneo... Vi è sfuggito? Il partito è stato infestato dal liberismo negli ultimi anni e non si trattava neanche di un succedaneo di qualità: se non ve ne siete accorti, di politica non capite un cazzo, lasciate perdere l’analisi di Matteo Orfini e prenotate una visita dall’oculista. Il partito era tutto liberistoide negli ultimi anni: colpa dei veltroniani, dice il dalemiano.

Anche se di politica non capite un cazzo, vediamo se vedete almeno questo: pur di continuare a farsi dispetti, Veltroni e D’Alema non risparmiano l’acume dei loro, e qua e là cominciare a lampeggiare le spie luminose di chi va in riserva.

Equipollenza, si parva licet



Si parva licet, vorrei pormi lo stesso problema morale che ultimamente s’è posto Vito Mancuso, e pormelo pubblicamente, come ha fatto lui: continuare o no a tenere la mia rubrichina su Giornalettismo, sempre più zeppo di offerte pubblicitarie di Pellegrinaggi in Terrasanta e di Medagliette della Madonna, ultimamente pure con un bel «Leggi Famiglia Cristiana» in homepage.
Mi pare che siano rispettate tutte le proporzioni: a Mancuso la prima pagina de la Repubblica, a me il mio blog; per Mancuso la Mondadori, per me Giornalettismo; in Mancuso il dilemma sulla liceità morale del pubblicare per una casa editrice in odore di immoralità, in me il sospetto di rimediare una figura di merda.
Fatta l’equipollenza e posto il problema, io mi risolvo diversamente da Mancuso: lui lascia la Mondadori, io per il momento continuo a mandare le mie cagatine a Giornalettismo.

A tutto c’è un limite, naturalmente. Se la Mondadori quintuplicava il compenso a Mancuso, chissà. Se Giornalettismo arriva a pubblicare la réclame di un dvd su Padre Pio, chissà.

Sarabanda




«Saldo e testardo, seppe resistere alle carezze e moine dei cardinali romani e ai loro tentativi di convertirlo al cattolicesimo». Poi, sì, a Igor Strawinsky non piaceva: gli rinfacciava di sviluppare poco i soggetti cromatici e di abusare troppo dello stile. Tanto basta perché il titolista scelga Un gigante di stile e di noia (Il Foglio, 11.9.2010) per un ritratto di Georg Friedrich Händel, neanche poi tanto malvagio, a firma di Mario Bortolotto. Più di Händel dovrebbe lagnarsene Bortolotto.

lunedì 13 settembre 2010

L'Italia nel Mondo e il Mondo in Italia



Alla riapertura delle aule scolastiche si constata che in molte classi, soprattutto elementari e medie inferiori, la maggioranza degli alunni è prole di immigrati. Dalla scuola pubblica, al momento, i loro padri non pretendono troppo: fa nulla che gli spiegate solo Virgilio, Dante e Manzoni – mugugnano il pizzaiolo egiziano, il muratore marocchino e il ristoratore giapponese (13 figli in 3) – sbrighiamoci con questa integrazione, ci sarà tempo per spiegarvi l’epopea di Gilgamesh, la cosmologia di Ibn-Rushd e la poetica di Shiki Masaoka.
Nel leggere la notizia, non so come, m’è tornato in mente un ricordo d’infanzia, ai tempi in cui ogni bambino perbene non poteva fare a meno del prestigioso status symbol della tessera d’iscrizione alla benemerita Società Dante Alighieri. Quel gruzzoletto di monetine alla signora maestra, tolto quanto andato in prescrizione, dimostrava che tu amavi davvero la lingua italiana, al punto da finanziare lo sforzo di diffonderla in tutto il mondo: diventavi un piccolo azionista della lingua, ti spettava un occhio di riguardo.
Non possiamo più esportarla – ho pensato – ma adesso li costringiamo ad importarla in loco: una vittoria della grande civiltà italica, comunque. Fatti per conquistare il mondo, la signora maestra ce lo diceva.

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“Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”


Troviamo la conscientia in molti autori precristiani e già ha il significato di tribunale interno all’individuo: come con pietas e con caritas, i cristiani si sono limitati ad appropriarsi del termine e a riformarlo. Nella conscientia precristiana il giudice del tribunale interno condensa in sé il patrimonio di norme che regolano il sociale in senso lato e, dunque, c’è una conscientia di padre e una di figlio, una conscientia di padrone e una di servo, e al suo cospetto l’imputato è chiamato a rispondere in quanto padre o figlio, padrone o servo; nella conscientia cristiana, giudice e imputato sono entrambi “a immagine di Dio” e lo statuto morale è inscritto nella triangolazione col trascendente che sta prima e sopra del sociale.
La cum-scientia precristiana dà agli individui una consapevolezza che è nella loro storia ed essi sono cum-scientes in essa e per essa; quando Dio irrompe in essa, facendosi Uomo, il cum- che le era intraneo si fa estraneo ad essa: la promessa dell’eternità pone ogni scire e ogni cum-scire nell’inamovibile del rivelato.
In Quintiliano, per esempio, la coscienza vale quanto il parere di un’assemblea (conscientia mille testes); col cristianesimo, invece, Dio basta e avanza come testimone. Cosa è accaduto all’individuo? Quello che è già accaduto all’assemblea: l’ecclesia (un altro termine di cui i cristiani si sono appropriati, riformandolo da corpo sociale a corpo mistico, da società a chiesa) non ha più norma umana, ma divina. La legge sta sopra l’individuo, come prima, ma adesso il patto che la fonda non sta più nella consuetudine fatta sacra in forza di un vincolo che impegna l’uomo all’uomo: è il sacro che si fa consuetudine, e il vincolo che impegna l’uomo all’uomo è in forza della fondazione trascendente della legge. Così per l’anima: quella precristiana è mero spirito vitale, ma col cristianesimo viene da Dio e a Dio va, salvo a perdersi (e tuttavia in eterno).
Ecco perché bisogna fare molta attenzione quando i cristiani parlano di coscienza e di libertà di coscienza. Se la loro libertà è possibile solo nella loro verità, l’unica possibile libertà di coscienza sta nell’obbedienza alla verità della legge divina, rivelata alla chiesa e tramandata da essa: ogni altra libertà è falsa. In questo corpo mistico c’è un capo, vicario di Cristo, che alla legge dà una dimensione magisteriale, sicché per un cattolico come si deve la libertà di coscienza non può portare lontano da ciò che ordina il papa.

Poco più di quarant’anni fa, Joseph Ratzinger scriveva: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica” (Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134 –Herder and Herder, 1967-1969). Franca è l’eco della celeberrima frase di John Henry Newman: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo, brinderò, se volete, al papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al papa” [Lettera a William Ewart Gladstone]. Ma le richieste dell’autorità ecclesiastica possono essere disattese, se rettamente ispirate alla verità? E chi può dire quando non lo siano?
Vent’anni dopo, intrattenendosi sulla dottrina della coscienza in Newman, che vent’anni dopo avrebbe fatto santo, Ratzinger rispondeva a queste domande: “Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del papa: la libertà di coscienza non si identifica affatto col diritto di «dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili» [Lettera al Duca di Norfolk]. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del papa. Infatti la sua forza viene dalla rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e «la sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e dellacoscienza» [ibidem]. […] Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”. Lo sapevamo, ma è bello sentirselo ripetere.