mercoledì 1 giugno 2011

L'espugnettatore


Viatico per gli esasperati e gli spazientiti


Iniziamo col deludere chi pensa che si arriverà al bagno di sangue. Spiace dirlo agli esasperati che sognano ad occhi aperti di poter essere risarciti in questo solo modo di quanto hanno subìto dal regime: Berlusconi e i suoi gerarchi non finiranno appesi a testa in giù, anche la gogna che farà da succedaneo del massacro sarà relativamente mite, e durerà meno del Carnevale di Rio. Al massimo potrà scapparci il gesto isolato di qualche psicolabile che, lungi dal dare il via ai torbidi, fermerà il passo ad altri malintenzionati. Avete sentito, ieri, Tonino Di Pietro? Non che avesse piena comprensione di cosa voglia dire pietas, ma a Ballarò diceva che, sì, lui provava una gran pietas per Berlusconi. In parole povere, anche lui ha perso la spinta propulsiva di 17 anni fa.
Con forze in campo così logore non si fa nessuna decente guerra civile, tutt’al più qualche linciaggio estemporaneo, sporco, tecnicamente abominevole. E dunque toglietevi dalla testa di vedere la Minetti rapata a zero legata su una sedia a L’Infedele, non sta né in cielo né in terra. La Santanchè vulcanizzata? Oziose fantasie. Ferrara impalato? Si spezza il palo.

Spiace poi dover dare un duro colpo anche a quelli esasperati appena un po’ meno: Berlusconi non andrà mai in galera e non sarà mai costretto a fuggire all’estero. I suoi sapranno riciclarsi e comunque non patiranno la fame: come gli Usa fecero con le migliori intelligenze della Germania nazista, la Chiesa assorbirà il meglio del blocco sociale clericofascista andato a pezzi, e gli scarti saranno ricompattati.
Quando e se il regime dovesse precipitare – più probabile vada sublimando – non si sentirà un botto, ma il rumore di un vestito che cade perché chi c’era dentro è scomparso. Sì, so bene che questo sarà frustrante, ma anche a volersene fare più esasperati saremmo a quanto nel primo capoverso, per giunta oltre tempo massimo per una decente guerra civile. Tutt’al più avremmo – non avremo, dico avremmo – un rosario di vendette personali. Si potrebbe anche fare, ma in fondo siamo tutti parenti, amici e conoscenti. Per dire: se Capezzone mi viene a chiedere un euro, come faccio a dirgli no?

Veniamo a quelli esasperati ancora meno, diciamo: i vivamente spazientiti. Diciamo che anche all’opposizione – dico di più: anche in pensione – Berlusconi ha tanto denaro da potersi permettere più di uno sfizio. Potrebbe addirittura avere uno scarto di stile e provare gusto a permetterselo senza metterci la firma: una sorta di milizia personale, coperta, qualcosa tra una lobby diffusa e una setta piramidale.
Gli spazientiti abbiano pazienza e non si ubriachino di festeggiamenti, peraltro troppo anticipati. Valga in generale la presa d’atto che questo paese non ha l’indole per dare ai fatti il senso delle parole, né alle parole il peso del loro significato. Si recita, recitano tutti, anche il disagio più vero e il malessere più acuto stanno addosso a chi li sente come un tatuaggio da cancellare. Per quanto il risultato sia di gran lunga inferiore, si preferisce sempre coprirlo che scorticarsi.

martedì 31 maggio 2011

il Giornale, 31.5.2011



Via Antonio Oscar Mendoza


Le dimensioni della vittoria di Luigi De Magistris hanno stupito tutti. Poteva vincere, ma il risultato è andato ben al di là della più rosea aspettativa dei suoi fan, e senza dubbio oltre ogni sua speranza. Autorevoli commentatori hanno già a caldo stilato l’elenco di tutte le possibili ragioni di un così ampio successo, ma a mio parere i conti non tornano se non si aggiunge la morte di Antonio Oscar Mendoza, il crocierista deceduto venerdì sera, dopo 9 giorni di coma, per gli esiti del trauma cranico riportato in seguito allo scippo subìto appena sbarcato a Napoli, lo scorso 18 maggio. Mentre ancora Silvio Berlusconi replicava il suo solito sketch in Piazza Plebiscito, peraltro mezza vuota, la notizia della morte di Mendoza è caduta sulla città come un micidiale ceffone. Pena, indignazione, rabbia impotente e muta, ma soprattutto un immenso scuorno, e Napoli si è finalmente sentita colpevole, umiliata dalla sua stessa rassegnazione, così spesso stanca, non di rado cinica.
I problemi che attendono una soluzione da Luigi De Magistris sono enormi, forse irrisolvibili, e tuttavia dovrà iniziare da qualcosa. Il gesto simbolico di intitolare una via o una piazza ad Antonio Oscar Mendoza costa il resto di niente, ci si mette due minuti e non dovrebbe incontrare il no dell’opposizione. La realtà di una città disperata non verrebbe neanche scalfita, ma si inizierebbe come si deve.

Signori giacobini, v’imploro

“Abbiamo perso. Servono nervi saldi. L’unica strada è andare avanti. Ho sentito Bossi che è d’accordo. Dobbiamo fare con il Pdl un ragionamento. Per radicarci di più sul territorio. I milanesi devono pregare il buon Dio. A Napoli si pentiranno moltissimo”


C’è tutto il campionario del pazzo assediato dalla realtà. Perciò, signori giacobini, v’imploro: non lo appendete a testa in giù, è malato, ha bisogno di cure. Sfogate piuttosto i vostri bassi istinti rivoluzionari su quelle carogne che, dopo averlo portato a questo punto a suon di adulazioni e applausi, ancora lo assecondano nella pazzia.

lunedì 30 maggio 2011

domenica 29 maggio 2011

Ucci ucci

Gli Angelucci querelano L’Espresso per un articolo di Lirio Abbate (Angelucci connection – 22/LVII, pagg. 68-72), che in fondo si limita ad aggiornare la pagina che Wikipedia dedicava ad Antonio Angelucci (ora oscurataa seguito di minaccia di azioni legali”). Disponibile solo a pagamento sul sito del settimanale, generosamente offerto a gratis dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.


Un anno, un mese e una settimana dopo


“Qui a Malta vivete in una società che è segnata dalla fede e dai valori cristiani. Dovreste essere orgogliosi che il vostro Paese promuova la stabilità della vita di famiglia dicendo no al divorzio. Vi esorto a mantenere questa coraggiosa testimonianza alla santità della vita e alla centralità del matrimonio e della vita famigliare per una società sana”


“La Valletta - Malta dice «sì» al divorzio. Il referendum per la sua legalizzazione è passato con una netta maggioranza del 54% dei voti”

Preferisco credere

“Io me lo ricordo, il 93-94. […] Tanta gente […] ci credeva veramente, specie a Milano: non tanto nella rivoluzione liberale – non glien’è mai fregato niente a nessuno – quanto nell’efficientismo come valore, nella sburocratizzazione dello Stato, nella modernizzazione di una classe politica decrepita” (Piovono rane, 26.5.2011).

Preferisco credere che Alessandro Gilioli abbia dei vuoti di memoria, sennò devo sospettare che nell’essere strasicuro della sconfitta di Letizia Moratti voglia fin d’ora riporre il diritto dei vincitori, quello di riscrivere la storia, concedendo ai vinti al massimo la buona fede dei fessi.
Occorre dire, infatti, che la “gioiosa macchina da guerra” contro la quale Silvio Berlusconi scese in campo non rappresentava un momento di modernizzazione della classe politica, non aveva nel suo programma la sburocratizzazione dello Stato e soprattutto era segnata da un forte pregiudizio (culturale prim’ancora che politico) su ogni genere di efficientismo: il Polo delle Libertà le era alternativo, almeno a chiacchiere. Perciò mi sembra assai poco corretto dire che della rivoluzione liberale “non glien’è mai fregato niente a nessuno”: è come dire che, quando cadrà Silvio Berlusconi, avrà vinto Achille Occhetto.
Il consenso che Silvio Berlusconi intercettò nel 1994 non si spiega solo con “i riciclati del Psi o della vecchia Dc che si buttavano come cani sull’osso” e con chi fu illuso dal “mito del «se farà con l’Italia quello che ha fatto con il Milan finalmente qualcosa vinceremo anche noi»”: dal basso saliva l’idea di un progetto alternativo a quello cattocomunista, l’unico che Tangentopoli aveva lasciato in piedi sullo scenario politico, e almeno quest’idea aveva i caratteri dell’istanza liberaldemocratica. Silvio Berlusconi la conquistò, la stuprò e le fece partorire un mostriciattolo clericofascista.
Non lo votarono soltanto gli orfani del Caf e chi volle credere nelle sue taumaturgiche doti di uomo del fare: lo votarono anche quelli che erano terrorizzati all’idea di un paese come sarebbe piaciuto a Moro e a Berlinguer, ed erano elettori sinceramente liberali.

venerdì 27 maggio 2011

Gaudeamus

Non sono del tutto convinto che sia certa la vittoria di Giuliano Pisapia, ancor meno che sia certa quella di Luigi De Magistris, ma mi auguro di essere smentito e anzi voglio unirmi ai prematuri festeggiamenti di chi ritiene che ormai sia cosa fatta e che il centrodestra sia già uscito sconfitto dai ballottaggi di Milano e di Napoli.
Gaudeamus igitur, ma siamo proprio certi che adesso la Lega molli Silvio Berlusconi, il governo cada e il Pdl imploda? Siamo proprio sicuri che questo accada nel giro di qualche settimana, al massimo entro qualche mese, se non di botto? Qui ho qualche dubbio e ritengo che siano un po’ troppo sopravvalutati, in entrambi gli schieramenti, gli effetti che deriverebbero sul quadro politico generale da una sconfitta di Letizia Moratti e di Gianni Lettieri: si spera e si dispera più del dovuto.
Silvio Berlusconi non mollerà. È probabile che davvero, come di tanto in tanto manda a dirci, sia tentato dall’idea di abbandonare la politica, ma non lo farà, se non costretto dagli eventi, e dopo aver opposto strenua resistenza.
La Lega non può permettersi di perdere di colpo ciò che solo Silvio Berlusconi ha potuto e ancora può darle, tanto più e tanto meglio se si tratta di un Silvio Berlusconi ulteriormente indebolito: è in un punto del suo ciclo vitale dove stare all’opposizione le farebbe perdere più consensi di quanti potrebbe perderne per sostenere questo governo.
Le opposizioni – semplicemente – non hanno un programma comune, non costituiscono ancora un’alternativa, chissà se ci riusciranno mai e quanto durevole potrà mai rivelarsi.
Lunedì 30 maggio, in ogni caso, anche nel beneaugurato caso che il centrodestra perdesse le sfide di Milano e Napoli, si apre una stagione durissima, incertissima, forse dolorosissima. Gaudeamus igitur?




giovedì 26 maggio 2011

32 minuti di Porta a porta


Troppi partiti, troppe liste civiche, la scheda era un lenzuolone talmente pieno di simboli che il povero elettore ha fatto fatica a trovare quello del Pdl. Col pragmatismo che lo contraddistingue, poco manca che butti lì l’idea di stamparli di dimensioni differenti, in proporzione al numero dei voti raccolti all’elezione precedente, un bel Pidiellone al centro.
Questo spiegherebbe il calo del suo partito, ma il calo delle preferenze a 28.000? Sul simbolo della lista c’era scritto il suo nome e quindi l’elettore avrà pensato che bastasse sbarrarlo per esprimere la preferenza in suo favore. Ma sul simbolo della lista non c’era il suo nome, quando ne prese 53.000? In generale, poi, com’è che le cose sono andate tanto male?
Colpa delle tv, tutte schierate contro di lui. Qui la balla è così grossa che perfino Bruno Vespa si vede costretto a fargli notare, giusto per darsi un tono da giornalista, che 5 emittenti su 7 sono state multate per averlo favorito. Non fa una piega: gli hanno chiesto un’intervista e non si è sentito di negarla, gli sembrava scortesia. Sì, ma la multa inflitta dall’Agcom? Garantisce che non sarà pagata, deve far pacchetto con la moratoria sugli immobili abusivi da abbattere e col condono delle multe per infrazioni al codice stradale (liberticida non meno di quello civile e di quello penale).

Milano e Napoli sono grandi aziende, hanno bisogno di un sindaco che s’intenda di gestione aziendale. Non vuole esagerare, è evidente, e infatti non chiude il sillogismo, ma lo lascia all’intelligenza degli elettori: solo un imprenditore può fare il sindaco, il governatore, il premier. Infatti, chi vota De Magistris, uno che non ha mai gestito neanche un chiosco di sfogliatelle, non ha cervello. Chi vota Pisapia non ne ha di più, e quel poco dev’essere cervello di frocio, di drogato, di brigatista o di musulmano. Votare quei due è una follia pura, se ne vuole un esempio? Ciò che il governo ha promesso a Napoli, se sarà eletto Lettieri, non le sarà dato, se vince De Magistris. Dimostrata la follia di votare contro la sua indicazione.
La sofisticata argomentazione avrà stancato troppo il telespettatore, peraltro è poco applicabile a Milano, che al governo le promesse può estorcerle, dunque stacchiamo un attimino dal ballottaggio e passiamo a parlare dei massimi sistemi nazionali, che è meglio.

Forse non troppo meglio. Il fisco, per esempio. Siamo davanti al fortunato inventore della formula “meno tasse per tutti”, che dunque ha il tema in pugno e potrà finalmente dirci come, quando, con quali coperture. Saranno dettagli, perché gli basta ripetere che lo farà.
Anche qui a Vespa scappa un’obiezione (avrà pippato e si sente ardimentoso:) “Scusi, presidente, ma lei è stato eletto per farlo e finora non l’ha fatto” (non così letteralmente, molto più sofficemente, come a sottintendere: quale mala sorte le si è messa di traverso, presidente?). E qui lui s’incazza un poco, come a dire: “Ma che cazzo volete? Meno tasse non si può, son cose che si promettono per prometterle, come quando per troppo idealismo ti scappa un ti amo con una puttana”.

Vespa si morde la lingua, capisce di aver sollevato una contestazione scostumata. Per riparare, passa al caso Ruby, con l’intenzione di offrire: “Ma poi, presidente, come cazzo le è venuto di chiamare in Questura e fare concussione di persona? Non poteva farla fare a un dipendente?” (non così letteralmente, molto più complice, come a sottintendere: lei è una affascinante testa di cazzo, presidente, sarà mica che l’ha fatto in buona fede, per fare una buona azione, per coltivare buone relazioni diplomatiche con Mubarak?).
Cross pennellatissimo, arriva il bomber e spara – più o meno – che nessuno gli può impedire di essere spontaneo e generoso. Doppio palo interno: vale come goal anche se ritorna in campo.

Qui cambio canale, sennò sfondo il televisore.


 

mercoledì 25 maggio 2011

«Bouche de la loi»

“I magistrati non sono un partito, non sono un potere autonomo, non sono eletti. Governano la giustizia, la amministrano in nome del popolo solo se e in quanto si comportano come «bocche della legge», questo diceva il grande giurista democratico Piero Calamandrei”
Qui Radio Londra, 24.5.2011


L’art. 104 della Costituzione recita: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Più che implicito, dunque, che essa stessa rappresenti un “potere”, quello giudiziario, che è “altro” da quello legislativo e da quello esecutivo, secondo la classica tripartizione. “Potere”, quindi, e “autonomo”. Questa è la prima delle puttanate dette da Giuliano Ferrara, ieri sera, ma la seconda non è da meno.
Non sono riuscito a trovare in alcun punto dell’opera di Piero Calamandrei un riferimento al giudice come mera «bocca della legge», ma non dubito possa esservi. Il fatto è che non potrà esservi che come evocazione della celebre espressione «bouche de la loi» coniata da Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748). Poco male che Calamandrei si prenda un merito di Montesquieu grazie all’ignoranza di Ferrara, la questione è un’altra: l’idea di un giudice come mera «bocca della legge» nasce come pilastro della monarchia costituzionale e verrà subito sostenuta con forza dai giacobini.
Prima, con l’Ancien Régime, il giudice era un funzionario alle dipendenze del re e amministrava la legge scritta dal re, ma con la monarchia costituzionale il re non può più promulgare norme in contrasto con la costituzione data e, con l’avvento della monarchia parlamentare, il re diventa solo un garante della costituzione oltre che dell’unità nazionale, mentre il potere legislativo passa all’assemblea degli eletti. In questo passaggio del potere legislativo dal re al parlamento, i giacobini – al pari di Ferrara – pensavano a un giudice che da mero funzionario del re diventasse mero funzionario della classe degli eletti dal popolo. Questa visione giacobina di cosa debba essere un giudice non gli concede autonomia di potere e qui torna alla mente la bella pagina di Barbara Spinelli (la Repubblica, 9.3.2011) che rimanda al mittente l’accusa di giacobinismo che molti populisti del centrodestra rivolgono ai loro oppositori, con l’acuto rilievo di una radice giacobina nel berlusconismo. Sta nel voler mettere le procure sotto la tutela di un potere legislativo che ormai Berlusconi ha asservito a quello esecutivo. Dovremmo lasciarglielo fare sorbendoci intanto le sgangherate lezioni di diritto costituzionale dei suoi servi?

martedì 24 maggio 2011

Gnazio



Ignazio La Russa lamenta azioni di disturbo che militanti di sinistra starebbero arrecando alle manifestazioni in favore di Letizia Moratti e dice: “Faccio politica da quando avevo dieci anni e non ho mai visto i nostri fare altrettanto” (Ballarò - Raitre, 24.5.2011).
I nostri, chi? Non quelli coi quali ha fatto politica dai dieci ai trent’anni. È da un corteo nel quale sfilava in testa ai suoi che fu lanciata la bomba che uccise un poliziotto di 22 anni, Antonio Marino, che insieme ai suoi colleghi cercava di evitare l’aggressione neofascista a una sede del Movimento studentesco.  

Cacca di pipistrello




Bob Dylan ha 70 anni, ma almeno da 15 anni lo evito. Lo seguivo fin da Like a Rolling Stone, quando mio zio (chitarra solista) provava cover su cover in uno scantinato insieme a quattro suoi amici (era il 1966-67, avevo una decina d’anni e loro erano i Pepitas, incisero pure due o tre 45 giri).
Ogni tanto, molto raramente, ascolto ancora qualche sua vecchia ballata, cantata mille volte da ragazzo (sempre in un inglese molto approssimativo), come devo dire che non mi dispiacque affatto quella sua svolta elettrica dopo l’incidente stradale (si nasce Woody Guthrie, si può morire Iggy Pop), né penso gli abbia fatto male lo sprofondo nella fede, anzi, mi sembrò subito – e oggi confermo – che con quel suo cristianesimo da strada avesse preso una piega stralunata assai interessante.
La sua voce riuscì a rendermi piacevole anche quella rilettura nevrastenica delle sue canzoni più note che irritò mezzo mondo tra gli ’80 e i ’90, ma poi, nel 1997, arrivò il ricovero per quella pericardite da Histoplasma capsulatum, microrganismo che abbonda nella cacca di pipistrello, e lì, anche se Robert Zimmerman se la cavò, Bob Dylan ci lasciò le penne.
Sembrava ormai il cadavere del folk singer e del blues man, quando ancora mezzo imbottito di itraconazolo agitava le frange spioventi dalla giacca da cow boy, impalato davanti a un Giovanni Palo II più assente che assorto. Lì – rammento – spensi la tv e dissi: “Riposa in pace, Liberace”.

“Aiuto, Santità!”

Santità, se volesse raccogliere la supplica che Giuliano Ferrara le rivolgeva ieri sera e dire una parolina sul ballottaggio di Milano... Beh, veda lei, il ragazzone ci spera.

[...]

“We have a lot of things that made sense once, or never made sense, that are clogging up the work” (Timothy Gowers – The Observer, 22.5.2011).

lunedì 23 maggio 2011

Sproposito nello sproposito


Goffredo Bettini lavorerebbe al progetto di un “partito unico a sinistra” che metta insieme “Pd, Sel e un pezzo dell’Idv”, così rivela Maria Teresa Meli (Corriere della Sera, 23.5.2011). Se questo corrispondesse al vero, ci troveremmo di fronte a uno sproposito nello sproposito, quello di un tizio che s’è molto speso per un Pd che rinunciasse ad ogni forma di alleanza tattica e strategica con altre formazioni politiche, e riuscendoci, per poi annunciare che non si sarebbe mai più interessato di politica quando il partito da lui portato a uno splendido isolamento ha mostrato tutti i suoi limiti, ma che ora cambia idea, ritira la decisione di ritirarsi e torna a spendersi per un nuovo progetto politico, che è l’esatto contrario di quello che pensava fosse l’unico vincente.
Ci vuole una grande fiducia in se stessi per sentirsi indispensabili in ogni stagione, ma ci vuole una gran faccia tosta per pensare di poterlo essere con due progetti opposti. La cosa triste, ma largamente prevedibile, è che non sarà mandato a cagare.


Pascolate lontano dai coglioni di Sua Eminenza

La vicenda che ha per protagonista don Riccardo Seppia lascia tanto sgomenti e inorriditi che pure gli anticlericali più agguerriti hanno finora avuto qualche reticenza nel farne uso strumentale e la parodia di uno spot della Cei che inviti a destinare l’8permille a don Seppia, cocainomane, sieropositivo e pedofilo, su YouTube ancora non s’è vista.
Per i reati che gli vengono contestati sarà un giudice a decidere, ma don Seppia ammette di averne commessi (uso, detenzione e cessione di stupefacenti), rigettando solo l’accusa di abuso su minore. Si dichiara gay e non nega di aver avuto una vita sessuale molto attiva, probabilmente senza farsi molti scrupoli nel contagiare i suoi partner (e qui ci sarebbero gli estremi per altri due o tre reati, però mai a danno di minori), ma dice che, quando al telefono offriva droga in cambio di bambini, scherzava.
Un bel gomitolo giudiziario, insomma, e tuttavia ho come la sensazione che Bruno Vespa non vorrà dedicare troppa attenzione alla vicenda di don Seppia, sicché finiremo per continuare ad avere idee confuse sul caso. Spendeva 300 euro al giorno, don Seppia, ma dove li prendeva? Il cardinal Bagnasco ha assicurato che nessuno fosse al corrente della condotta del prete, né di quella peccaminosa, né di quella criminale, e non ha fatto in tempo a dichiararlo ufficialmente che dai parrocchiani arrivano smentite: era noto fosse omosessuale e violasse i voti, pare che i suoi superiori fossero stati messi a conoscenza di sue molestie sessuali a danno di minori.

Chi mente? Boh. Di certo resta solo che finora don Riccardo Seppia non è stato né spretato perché indegno del ministero, né scomunicato per aver gravemente offeso il sacramento del sacerdozio. Sospeso dal ruolo di parroco, questo sì, ma è anche vero che da una cella del carcere di Marassi sarebbe stato difficile dir messa e tenere le lesioni di catechismo.
Ecco, allora, che sull’intrico della vicenda converrà astenerci da ogni commento, perché ogni impressione corre il rischio di essere ingiusta illazione. Di sicuro c’è solo il fatto che don Seppia resta per la Chiesa un alter Christus, nonostante tutto. Nessun seminarista potrebbe illudersi di diventare prete ammettendo anche la metà della metà di quanto don Seppia ammette, ma i sacramenti officiati da un prete, indegno quanto egli stesso ammette di essere, restano validi: era un tramite di merda tra Dio e i fedeli, ma pur sempre un tramite.
I genitori dei bambini battezzati da don Seppia, e che ora chiedono siano ribattezzati (*), sono cattolici stupidissimi, e chiedo scusa per il pleonasmo. In quell’untore drogato – pedofilo o no – c’era Cristo: almeno allora, quando tutti erano all’oscuro dei suoi dopomessa, Cristo c’era. A non volercelo vedere si fa offesa alla dottrina cattolica e a diritto ecclesiastico: a quei genitori non resta che ripassare il Catechismo e il Codice di Diritto Canonico. Così si renderanno conto che non possono nemmeno sbattezzare i figli, per poi farli ribattezzare: sarebbe insulto al sacramento, il loro. Via, pascolate lontano dai coglioni di Sua Eminenza.


 

[...]