giovedì 4 agosto 2011

In questo punto critico

Se questo governo non arriva a fine legislatura, la pur lontana possibilità che Silvio Berlusconi rivinca le prossime elezioni politiche è irrimediabilmente persa, e con essa, per lui e i suoi alleati, per i sodali che hanno goduto della sua protezione, per i ruffiani che hanno affollato la sua corte, per chiunque abbia vissuto delle briciole che cadevano dalla sua tavola, tutto è perso. È comprensibile, dunque, che egli sia disperatamente aggrappato alla Presidenza del Consiglio e che a lui siano disperatamente aggrappati complici e famigli, dipendenti e clienti, troie e quaquaraquà. Per costoro, ovviamente, la questione non si pone.
La questione che riguarda tutti gli altri, anche chi ha votato Silvio Berlusconi nel 2008, è che questo governo è del tutto inadeguato a fronteggiare una crisi che volge alla catastrofe, prima di tutto perché non è capace di prenderne atto con l’indispensabile autocritica che sarebbe la premessa minima alla ricerca di una qualsivoglia soluzione. La negazione dell’evidenza e la distorsione della realtà sono tratti della personalità di Silvio Berlusconi che improntano la sua azione di governo, con una sottovalutazione dei problemi che ha intento ed efficacia di esorcismo e una sopravvalutazione delle proprie energie che arriva ad assumere forme deliranti, fino alla folle convinzione che i problemi si risolvano con l’ottimismo ad oltranza, spudoratamente esibita come filosofia politica e anima del programma.
Nessuno, a tutt’oggi, è stato capace di guarire Silvio Berlusconi da questa sua grave patologia o, in ogni caso, di dissuaderlo dal guardare alle prestazioni economiche del paese con la stessa indulgenza, la stessa esaltata soddisfazione, con la quale prende per credibili le lodi che gli vengono da lacchè e puttane. È un caso clinico senza speranza, un affetto da narcisismo maligno dalle straordinarie doti di impostore e manipolatore, con straordinari mezzi a disposizione per fare dell’impostura e della manipolazione le regole del mondo che è in grado di costruire attorno a lui.
Quando un mondo di questo tipo subisce crepe e le inevitabili infiltrazioni di realtà, il malato reagisce come aggredito dalla più letale delle minacce, e le sue reazioni diventano pericolosissime, per più ritorsive, sempre nel segno della proiezione, assumendo i caratteri allucinatori della legittima difesa. Attorno a un malato del genere, allora, tutto è a rischio, a cominciare da quanto, pur non appartenendogli, sia per tempo andato incontro a quel processo di assimilazione  che è una nota distintiva dei deliri di onnipotenza. In questo caso, parliamo della cosa pubblica, che in numerose occasioni Silvio Berlusconi non ha dato prova di saper più distinguere da quella privata, e che in tali situazioni diventa ciò che un pazzo del suo genere si sente autorizzato a sacrificare pur di difendersi.
Passando dalla psichiatria alla politica, siamo al punto in cui il paese ha in Silvio Berlusconi un pericolo mortale. Quando ancora non eravamo in questo punto critico, erano in molti ad augurarsi la sua morte come una delle possibili soluzioni per sbloccare il quadro politico. È davvero strano che, assai meno che prima, oggi nessuno la consideri come l’ultima rimasta. Forse siamo a tal punto irretiti dalla sua pazzia al punto da considerare anche noi sacrificabile la cosa pubblica alla sopravvivenza di uno, lui. 

Incorreggibile


 
Tra le tante figuracce rimediate da monsignor Rino Fisichella in questi ultimi anni, quale l’avrà maggiormente amareggiato? Il non riuscire a mettere insieme due verbi e due aggettivi che avessero senso compiuto, quando ad Anno Zero si discuteva degli abusi sessuali ai danni di minori da parte del clero cattolico irlandese? La valanga di sghignazzi piovutagli addosso per la sua arrampicata sugli specchi nel tentativo di giustificare il fatto che a un divorziato risposato come Silvio Berlusconi fosse stata somministrata l’eucaristia o il disprezzo che lo sommerse, quando assolse il ben contestualizzato “porcodio” del barzellettiere di Palazzo Chigi? Niente di tutto questo: conoscendolo il tanto che basta, fu quando si beccò il tremendo cazziatone della Congregazione per la Dottrina della Fede per aver pubblicamente ripreso, su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009, monsignor José Cardoso Sobrinho.
Ricorderete il caso della bambina brasiliana di undici anni che, lungamente stuprata e infine ingravidata dal patrigno (gravidanza gemellare), si era pigliata la scomunica insieme alla madre e ai medici che l’avevano fatta abortire. Bene, ricorderete pure, allora, che Fisichella aveva assunto posizione dottrinariamente scorretta, affermando che “non c’era bisogno di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto [la scomunica latae sententiae] che si attua in maniera automatica” e che, “a causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita della bambina era in serio pericolo per la gravidanza in atto”, lasciando intendere, vai capire quanto intenzionalmente, e con quale implicita inferenza, che l’aborto fosse stato un male minore.
Apriti cielo, la Conferenza episcopale brasiliana pretese che Fisichella fosse smerdato coram populo, e l’ottenne: “La Congregazione per la Dottrina della Fede ribadisce che la dottrina della Chiesa sull’aborto provocato non è cambiata né può cambiare…”, insomma, Sobrinho si era comportato a dovere, e Fisichella a cazzo di cane. Il primo aveva difeso la dottrina, e al diavolo la bambina, il secondo aveva mostrato cedimento alle logiche mondane.
Quando è il mondo che ti fa bersaglio di fumanti palle di letame, puoi sempre atteggiarti a martire, ma quando a dirti che sei deboluccio sui fondamentali, chiamato a pronunciarsi con urgenza, è il Sant’Uffizio, che puoi fare? Tutt’al più puoi arrossire e balbettare che sei stato frainteso, ma ormai il guaio è fatto, ti serva da lezione.
Sua Eccellenza, però, è una testa di cazzo: quando un giornalista gli telefona per chiedergli un parere su un caso che le cronache portano alla ribalta, parla e, senza pensare troppo, cede al piano buonsenso, cercando approvazione. Anche stavolta, sul caso delle gemelle siamesi nate qualche settimana fa al «Sant’Orsola» di Bologna, sull’enorme complessità dei problemi che il caso pone sul piano medico e su quello bioetico, Sua Eccellenza si è lasciato andare: “Se vi fosse una reale possibilità di morte, salvare una delle due sarebbe un atto d’amore e quindi lecito” (Corriere della Sera, 3.8.2011).
In sé, l’affermazione sembrerebbe ragionevole, ma vi risulta che lo sia pure la dottrina morale cattolica? Chi può mai stabilire con certezza una reale possibilità di morte”? E come può essere considerato “atto d’amore” un intervento scientemente finalizzato all’omicidio di un neonato per salvarne un altro? Quante volte dovranno rammentare ancora a Sua Eccellenza che, quando di mezzo c’è un ammazzamento, la logica del male minore non va mai bene? Può darsi che stavolta gliela facciano passare, facendo finta di non aver sentito, ma - ancora una volta - non ci siamo, non ci siamo proprio: quell’affermazione sta bene in bocca ai genitori e ai medici, se non cattolici, ma non in bocca a un vescovo, tanto meno a un vescovo al quale è stato affidato il compito di rievangelizzare l’occidente.

mercoledì 3 agosto 2011

In un punto

Cos’ha detto di nuovo, Silvio Berlusconi? Niente. Il momento è difficile – ha detto – ma la crisi è internazionale, viene da fuori, e comunque noi non stiamo messi così male, basta un pizzico di ottimismo e un po’ più di fiducia in lui, ma da parte di tutti, anche delle opposizioni, così si dà al mondo l’impressione di essere forti, uniti e determinati. Basta col disfattismo – ha detto – sennò ci si tira addosso la sfiga. Qualcosa si farà – ha detto – ma molto è già stato fatto, da lui. Cose già dette cento volte, mentre il debito pubblico non accennava a diminuire e di crescita non si vedeva un accenno.
Ha letto il solito discorso ormai logoro, ambiguo qui, vago lì, sostanzialmente vuoto. Ma in un punto, almeno in un punto – nell’unico in cui ha parlato a braccio, per rispondere a una provocazione che gli giungeva dai banchi delle opposizioni – ci è apparso nudo: è stato quando ha ricordato che ha tre aziende quotate in Borsa e che quindi è avvinto alle sorti del Paese, le sente, le soffre. Spogliandosi dei vestiti inesistenti che servi e ruffiani gli hanno cucito addosso, ci ha mostrato il suo enorme conflitto d’interessi, ormai fatto simbiotico alla crisi di sistema.  

Il Sole-24 Ore, 31.7.2011



Sui test che nel 1988 datarono il telo della Sacra Sindone tra il 1260 e il 1390 vengono posti dubbi da parte di chi è convinto che quello sia proprio il sudario in cui fu avvolto Gesù di Nazareth (Gv 19, 14), e forse il Mandylion di Edessa di cui Evagrio Scolastico parlò per primo nel 594, la Sydonie che Robert de Clary afferma di aver visto a Costantinopoli nel 1204. Hanno dalla loro il no che la Chiesa oppone ad ulteriori prelievi dal lenzuolo, ma non solo, perché per retrodatare quello che è senza dubbio un falso posso tornare utili anche “documenti medievali usati scorrettamente”, come ha fatto Barbara Frale, firma di Avvenire e de L’Osservatore Romano. Puntuale, fino ad essere spietata, la contestazione di Andrea Nicolotti.

[si ringrazia R.P. per la segnalazione]

Oscurami questo


(1)
Premessa maggiore L’omeopatia non ha basi scientifiche e gli effetti dei preparati omeopatici sono equivalenti a quelli di un placebo.
Premessa minore Boiron è leader mondiale nel settore dell’omeopatia.
Conclusione Boiron vende prodotti che non hanno altro effetto che quello placebo.


(2)
Premessa maggiore Samuele (blogzero.it) ha scritto quanto alla Conclusione in (1) e Boiron gli ha fatto oscurare il blog.
Premessa minore Questa è cosa ingiusta e odiosa.
Conclusione Passa parola e fai sapere in giro chi è Samuele e chi è Boiron.


(3)
Premessa maggiore Può darsi che per la Conclusione in (2), e soprattutto per la Conclusione in (1), Boiron faccia oscurare anche questo blog.
Premessa minore Quanti cazzi di blog potrà fare oscurare, ’sto Boiron?
Conclusione Fanculo a Boiron e all’omeopatia, fanculo anche al bloggare se bisogna rinunciare alla logica più elementare.

Emendare la Legge Ossicini

Non c’è bisogno di avere una laurea in medicina per esercitare la professione di psicoanalista, almeno così sosteneva Sigmund Freud, che fin dall’inizio pose la psicoanalisi di là dalle comuni pratiche neuropsichiatriche e demarcò un distinguo tra approccio psicologico e psicoanalitico. Dettò le severe regole per l’esercizio della professione di psicoanalista, questo sì, ma non lo precluse affatto a chi venisse da una formazione di tipo umanistico: non riteneva indispensabili gli studi e i titoli del frenologo, si poteva diventare un buon psicoanalista anche avendo una laurea in Lettere.
Ora, l’art. 35 della legge n. 56 del 18.2.1989 (Legge Ossicini) recita che l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali, o iscritti all’ordine degli psicologi o medici iscritti all’ordine dei medici e degli odontoiatri, laureati da almeno cinque anni, dichiarino sotto la propria responsabilità di aver acquisita una specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il curriculum formativo con l’indicazione delle sedi, dei tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando la preminenza e la continuità dell’esercizio della professione psicoterapeutica”. È abbastanza per vietare l’esercizio della professione di psicoanalista a chi non corrisponda a questo identikit? Solo se sovrapponiamo la figura dello psicoanalista a quella dello psicoterapeuta. Ma questa sovrapposizione è corretta? Secondo Freud – ancora – non lo è.
Basta leggere ciò che scrive, nel 1926, in Die Frage der Laienanalyse (in italiano, a pagg. 345-423 del X volume delle sue Opere, per Boringhieri Bollati [1967, 1989]), e soprattutto nel Proscritto, che è dell’anno successivo, dove rivela che “l’occasione per scrivere questo libretto e il punto di partenza della discussione ivi contenuta fu una denunzia di ciarlataneria a carico del dottor Theodor Reik (un nostro collega non medico) fatta pervenire alle superiori autorità viennesi”.
Presumibilmente a Vienna vigeva qualche legge analoga a quella che in Italia reca come prima firma quella di Adriano Ossicini, grazie alla quale nasceva, 22 anni fa, l’ennesimo Ordine professionale, quello degli psicologi. Freud ci informa che l’accusa al dottor Reik “è caduta, dopo che sono state prese tutte le necessarie informazioni preliminari, e sono stati raccolti i pareri qualificati di vari esperti”. Il problema è che gli effetti terapeutici, quando possibili, sono solo secondari alla pratica psicoanalitica, che la psicoanalisi rimane attività di ricerca, ben al di qua, dunque, di quanto è posto nei fini della psicoterapia: nella psicoanalisi, insomma, non vi è dichiarata finalità “clinica”e allora non si capisce perché lo psicoanalista dovrebbe possedere i requisiti richiesti alla Legge Ossicini.
È da recepire e da appoggiare, dunque, la richiesta di quanti la vorrebbero emendare, escludendo gli psicoanalisti e le loro associazioni e scuole dall’ambito di applicazione della norma che li vorrebbe iscritti ad un apposito albo. I promotori dell’iniziativa tengono a sottolineare che la psicoanalisi ha per oggetto la descrizione generale dell’apparato psichico, non soltanto delle sue manifestazioni patologiche, e che mira, in tutti i suoi successivi e molteplici sviluppi, a svelare l’importanza dell’inconscio nel comportamento umano, avendo come finalità la conoscenza di sé: la psicoanalisi non è una psicoterapia, anche se l’attività psicoanalitica può avere effetti terapeutici.
E basta prendere atto dello statuto che Freud ha dato alla psicoanalisi per non poter respingere questa istanza.


Gesto nobile, e irragionevole

Sono stati ritirati dai punti vendita della Norvegia i due videogiochi citati da Anders Breivik nel suo 2083 - A European Declation of Independence, e cioè World of Warcraft e Call of Duty - Modern Warfare. L’iniziativa non è delle autorità locali, ma dei responsabili della distribuzione dei due prodotti sul territorio norvegese, in segno di rispetto per le famiglie delle vittime della strage del 22 luglio. In tutta evidenza si tratta di un gesto simbolico, perché chi in Norvegia è già in possesso dei due videogiochi potrà continuare ad usarli e chi volesse acquistarli potrà comunque farlo, via internet.
Il problema è un altro: non è affatto vero – come si continua a dire – che Breivik si sia ispirato a quei due videogiochi. Per quanto riguarda World of Warcraft, al “templare” che voglia imitarlo suggerisce di addurlo a scusa per dare spiegazione a parenti, amici e conoscenti dell’isolamento necessario alla preparazione di un attentato terroristico (pagg. 841-842); confessa di averlo usato come svago nelle pause del lavoro di scrittura, per stare lontano dal web, nel timore di lasciarsi inavvertitamente scappare qualcosa circa i suoi propositi (pag. 1.380); dice di voler provare l’ultima edizione del videogioco (World of Warcraft - Cataclysm), uscita lo scorso dicembre (pagg. 1.424-1.425). In quanto a Call of Duty - Modern Warfare, viene citato tra i suoi passatempi (pag. 1.398 e pag. 1.408) e ipotizza di usare un fan club del videogioco come copertura di una cellula terroristica (pagg. 1.282-1.283).
In nessun punto delle 1.518 pagine, insomma, i due videogiochi sono dichiarati fonte di ispirazione dell’azione terroristica: la decisione di chi li ha fin qui distribuiti in Norvegia potrà pure sembrare nobile, ma non è ragionevole e, per tener fede alla volontà che i norvegesi hanno espresso dopo l’attentato terroristico, sarebbe stato meglio non porre alcuna misura restrittiva sulla distribuzione dei due videogiochi. D’altra parte, sembrerebbero nobili analoghe iniziative in relazione ad altri interessi dichiarati da Breivik, come la musica classica e l’araldica?




[...]




martedì 2 agosto 2011

Turiddu Ambrogio


Mi sono limitato a segnalare solo un passaggio dell’articolo di Magdi Allam apparso su il Giornale domenica 24 luglio (La strage in Norvegia – Il razzismo è l’altra faccia del multiculturalismo), e senza alcun commento. Pare, invece, che abbia ricevuto una valanga di accese criti­che e anche qualche violenta mi­naccia”, sicché “ho dovuto de­nunciare alle competenti autori­tà – informa chi lo firmava – i messaggi che incitavano apertamente ad odiarmi, a di­sprezzarmi, a radiarmi dalla so­cietà civile, qualificandomi co­me talebano, razzista, fascista, nazista, sentenziando la mia condanna all’ergastolo sbatten­domi in galera e lanciando la chiave nell’oceano, perché sa­rei il peggior nemico dell’Italia e dell’Europa, il sommo tradito­re di tutto, degli arabi e dei mu­sulmani, ma anche degli italia­ni e dei cristiani, un rinnegato che immeritatamente è riuscito a spac­ciarsi per giornali­sta e poi per politi­co, ma che in re­altà è so­lo un ignoran­te e un fa­natico” (il Giornale, 1.8.2011). Stupisco nell’apprenderlo, perché l’articolo era semplicemente cretino. Davvero in così tanti l’hanno ritenuto razzista? Cretini pure loro.
Quell’articolo andava letto in controluce, senza badare troppo alla sconclusionata tesi che tentava di dimostrare (“multiculturalismo e razzismo sono di fatto due facce della stessa medaglia”), considerando solo il vizio psicologico di fondo: era l’apologo del siciliano andato a vivere a Milano che, dopo essersi liberato a gran fatica del suo pesante accento palermitano, si lamenta in perfetto dialetto milanese dei troppi siciliani in giro, senza dubbio tutti mafiosi.
Così va letto pure l’articolo di ieri: sempre in perfetto milanese, il tizio tiene a precisare che rispetta i siciliani, ma ha tutto il diritto di muovere rilievi critici alla sicilianità. E poi: la mafia non è cosa siciliana?
Sì, ma lui? Non è la prova vivente che non tutti i siciliani sono mafiosi e che l’integrazione passa attraverso la tolleranza e il rispetto delle differenze? Non si chiamava Turiddu, forse, e adesso si chiama Turiddu Ambrogio?


Tornano comodi ad ogni 2 agosto

Il 2 agosto del 1980 avevo compiuto da poco 23 anni. Di lì a un mese mi sarei iscritto all’ultimo anno di Medicina e Chirurgia e, intenzionato a laurearmi entro il luglio successivo, preparavo già la tesi, in attesa di dare gli ultimi quattro esami. Avevo lasciato la mia stanza di fuorisede a Napoli ed ero tornato a casa, a Ischia, dai miei. Mi svegliavo presto, studiavo fino a mezzogiorno e poi mi concedevo una pausa, salivo sulla mia scassatissima Vespa e andavo in spiaggia. Quel 2 agosto lo ricordo bene.
Ero appena arrivato allo stabilimento balneare de La Cava dell’Isola, a Forio, che al bar vidi un capannello di bagnanti piuttosto agitati. Era da poco arrivata la notizia della strage di Bologna e Berti (non ne ricordo il nome), un romagnolo sulla settantina, habitué di quella spiaggia, patetica macchietta di fascista, aveva rivendicato il “botto”, anche con una certa fierezza: si discuteva concitatamente e di lì a poco Berti si sarebbe preso qualche meritato ceffone.
Era da escludere, ovviamente, che avesse a che fare anche lontanamente con la strage e la rivendicazione dei Nar (poi smentita) sarebbe arrivata solo nel tardo pomeriggio: perché non aveva esitato dichiararla “bomba fascista”? Semplice: a quei tempi un attentato dinamitardo era fascista, per definizione. Com’era, per definizione, anarchico alla fine dell’Ottocento, e islamista oggi. Berti era l’altra faccia del luogo comune: di qua, l’orrore, lo sdegno, la rabbia e il dolore per una carneficina che non poteva non essere opera dei fascisti e, di là, Berti, altrettanto sicuro, col petto in fuori, “onore ai camerati che hanno fatto piangere Bologna, la rossa”.
Avremmo dovuto aspettare un quarto di secolo perché il luogo comune rivelasse qualche incongruenza, lasciando spazio a un’ipotesi, che è ancora troppo presto per poter considerare men che un depistaggio tardivo, ma che con sempre più forza va a erodere la verità di una sentenza che fa acqua da più di un buco. Il 19 dicembre del 2003, sul Corriere della Sera, il senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della commissione stragi, affermava: “Rimane non verosimile, non credibile, la ricostruzione del fine politico della strage di Bologna che è sempre stato accostato, quasi fosse un remake, a quello della bomba di Piazza Fontana. Ovvero: la destra radicale, in un ambiguo rapporto con gli apparati di sicurezza, semina il terrore affinché questo generi smarrimento e una richiesta d’ordine che poi porti a uno spostamento a destra dell’asse politico del Paese piuttosto che a un vero e proprio golpe. Questo movente non ha alcun senso nel 1980”.
Ha senso, invece, ma solo oggi, l’ipotesi che l’esplosivo fosse solo in transito sul territorio italiano, e che il corriere fosse palestinese: il carico sarebbe stato fatto esplodere da agenti della Cia o del Mossad, al fine di sabotare il patto da lungo tempo stretto tra i palestinesi e l’Italia dopo la strage di Fiumicino (libertà d’azione su tutta la penisola in cambio di nessun attentato). Numerosi elementi sono venuti a rendere attendibile questa ipotesi, che però è difficile da far digerire a filopalestinesi e filoisraeliani, cioè praticamente a tutti.
Morto Berti, che non può continuare a rivendicarla come strage fascista, il luogo comune regge sull’ormai consolidata idea che quella bomba fu messa dai Nar. D’altronde, le figure di Mambro e Fioravanti hanno tutti i requisiti per soddisfare un tal genere di trama. In assenza di un’altra verità, tornano comodi ad ogni 2 agosto.

domenica 31 luglio 2011

In verità



Troppo preso dai lavori di un interessantissimo congresso internazionale di microchirurgia vascolare (vedi foto), non posso intrattenermi troppo sulle tante inesattezze scritte da Giuliano Ferrara nell’editoriale che oggi apre il Giornale, sicché mi limito a segnalarne una sola, la prima in ordine di apparizione: agli atti dei procedimenti istruiti da Giancarlo Capaldo – scrive il nostro – vi sono “le dubbie inchieste sulla ricostruzione dell’Aquila” (il Giornale, 31.7.2011). Sarebbe più corretto dire: “le inchieste sulla dubbia ricostruzione dell’Aquila”. Mai ricostruita, in verità.

venerdì 29 luglio 2011

Fede, garanzia di senno



Un contributo interessante alla comprensione di cosa possa aver scatenato quella bestia di Anders Breivik ci viene da padre Aldo Trento, il quale, come tanti, propende per la follia, ma non fa fatica a concedere che possa trattarsi di una “follia che può avere come origine anche un cristianesimo ridotto a ideologia”, in pratica quel cristianesimo tutto culturale, senza fede in Dio, com’è dei nostri atei devoti. La cosa strana è che questa ipotesi, peraltro abbastanza convincente, sia esposta proprio sulle pagine de Il Foglio, punta di lancia di un cristianesimo tutto ideologico, che, a detta di Giuliano Ferrara non potremmo non dir nostro senza tradire le nostre radici, e del quale dovremmo farci forti, come sola valida difesa alla minaccia di un islam aggressivo per sua intrinseca natura, anche se non abbiamo fede in Dio, veluti si Deus daretur.
Si può anche essere d’accordo con padre Trento, anzi direi che la sua ipotesi può essere senz’altro accolta, perché è onesta, non depista ed evita di incorrere nei patetici tentativi di prendere le distanze da Breivik nei quali abbiamo visto affannarsi Magdi Allam, Massimo Introvigne e lo stesso giornale di Giuliano Ferrara. Neonazista? Massone? Cristiano, sì, ma luterano, dunque non cattolico, cioè non vero cristiano? Niente di tutto questo, padre Trento non ci prova nemmeno a fare lo stronzo, anzi dice che “la tragedia accaduta in Norvegia interpella la responsabilità che abbiamo come cristiani dentro il mondo”.
Molto bene, tanto di cappello.

Confesso che la lettera di padre Trento a Il Foglio mi ha molto colpito, anche perché, di quella follia che può avere come origine anche un cristianesimo ridotto a ideologia”, lui non parla per sentito dire. Confessa: “Mi stava mangiando il cervello, convinto com’ero che Cristo non fosse sufficiente per liberare l’uomo dalla sua follia”. Ho preso informazioni: si muoveva tra Lotta Continua e Potere Operaio. Condivido il giudizio che ne dà padre Trento: pazzi.
Mistero è come possa essersi trovato fra quei pazzi, figlio com’è di genitori cristianissimi, quanto di più lontano possibile dalla follia: “Ricordo con commozione che sopra il letto dei miei genitori era appeso il quadro della Sacra Famiglia e, ai due lati, vi era un’acquasantiera con l’acqua benedetta che serviva per fare il segno della croce prima di dormire o prima di esprimersi fisicamente il grande amore che essi vivevano”.

Ricco di suo

Prima di ieri, con Giulio Tremonti ad Uno Mattina, fu nel 1992, con Francesco De Lorenzo al Maurizio Costanzo Show, che ci fu offerto a garanzia: “Non ho bisogno di rubare agli italiani perché sono ricco di mio”. Ci sembrò convincente, e nel Teatro Parioli non volò una mosca, ma poi fu condannato a 5 anni e dispari per associazione a delinquere e corruzione finalizzata al finanziamento illecito del suo partito (tangenti per circa 4 miliardi delle vecchie lire). Lì capimmo che a “mi tradisci?” non si risponde “e dove troverei il tempo?”, perché è risposta che non dà alcuna garanzia.

Corrispondenze

Caro Luigi,
ti scrivo in privato su questa questione, correndo il rischio di risultarti noioso, per due ragioni: la prima è per ragioni di stima, non quella generica che si mette in questo tipo di email, ma proprio quella stima che mi fa allarmato, ora, nel saperti su posizioni così diverse dalle mie – tu, persona con cui sono d’accordo pressoché sempre. La seconda è un altro paio di persone, in questi giorni, mi hanno chiesto un parere (a quanto pare, fra mangiapreti, abbiamo un gruppo d’ascolto del tuo blog): ma Malvino come la pensa? Perché usa quella parola? Così, invece di fare ipotesi su quello che pensi, te lo chiedo direttamente.
Ti contesto l’uso della parola islamofobia. Tu sei cristianofobo? Ha ragione Ratzinger, che la usa ogni due per tre? No, direi. Sei una persona che non condivide una precisa ideologia – non lo devo spiegare a te: ogni religione, al di fuori della propria rivelazione, è un’ideologia – e come tale la critica. Non esistono marxistofobi o fascistofobi: esistono persone che, a torto o ragione, non condividono il bacino di pensieri (per quanto ampio) che è convogliato in quella definizione. La parola islamofobia, a mio modo di vedere, è fasulla: una corruzione, squisitamente clericale, del linguaggio. Per questo non capisco che significato possa avere per qualcuno che la pensa come te. Essa associa al razzismo la legittima critica a un sistema di pensiero fondato su prove insufficienti. Una persona che critica un’etnia è razzista, una persona che critica un’idea non può esserlo. È cattolicofobo criticare il cattolicesimo? Non stiamo introiettando il linguaggio del dogmatismo e della tutela di esso?
Se non sbaglio – vado a memoria, potrei ricordare male – l’hai cominciata a usare, o a usare con più frequenza, di recente: c’è qualcosa che ti ha fatto cambiare idea e che potrebbe fare cambiare idea a me?
Ciao,
Giovanni


 
Caro Giovanni,
le fobie sono paure irrazionali e dunque riguardano la patologia umana, il punto in cui la logica va a farsi fottere e l’uomo diventa preda della bestia che si porta dentro. Dell’islam, come del cristianesimo, io ho una paura motivata e - mi pare - correttamente argomentata, dunque non sono né islamofobo, come parecchi cristiani, né cristianofobo, come molti musulmani. Se uso il termine “islamofobico” così frequentemente dalla strage di Oslo ad oggi è proprio per un motivo squisitamente polemico nei confronti di chi ha usato tanto spesso il termine “cristianofobo” negli ultimi tempi. E contesto l’affermazione che mi pare anche tu hai fatto di recente e sulla quale ci siamo intrattenuti nei commenti ad un mio post: il Corano non è intrinsecamente e inemendabilmente violento, o lo è anche la Bibbia.
Tranquillizza chi ti chiede di me: Malvino è quello di sempre, non si converte all’islam pur di polemizzare meglio contro il cristianesimo, perché da quella posizione la polemica sarebbe assai meno efficace di quello che pensa sia com’è. Ma non venite a dirmi che i primi due monoteismi sono carini e il terzo è venuto male, sennò vi mando affettuosamente a cagare.
Ti abbraccio e non ti chiedo se posso pubblicare questo scambio privato: lo pubblico comunque, così ti risparmio di riferire a quelli che, invece di venire a chiedere spiegazioni a me, le vengono a chiedere a te.
Luigi

Questione non irrilevante


via Vulvia


[...]

Delle promesse fatte a Pontida, per tener buona la sua base, Bossi ha potuto mantenere solo quella dei ministeri al nord, e anche quella pare mantenuta solo formalmente, con tre targhe in ottone e tre scrivanie. E intanto Equitalia non si tocca, le missioni militari all’estero vengono rifinanziate, i costi della politica sono ben lunghi dall’essere ridimensionati, del Senato federale neanche si parla. Ora, con l’intervento del Quirinale che mette in discussione pure le succursali padane dei dicasteri, peraltro con argomenti ai quali neanche Bossi riesce a opporre valide obiezioni, la base della Lega ha due sole alternative: fare a pezzi il suo profeta o, dopo il tanto mugugnare che aveva preceduto il raduno di Pontida, pigliarselo in culo e far finta che va tutto bene. Ma il profeta è intoccabile e far finta costerebbe troppo, sicché le alternative dovranno essere ridimensionate: un finto braccio di ferro con Napolitano, per accettare infine un compromesso che in ogni caso risulterà umiliante per la Lega, o sacrificare il poveretto al quale è venuta l’idea dei ministeri al nord.

Appunti


1. Quando fu premiata con l’Annie Taylor Award, nel 2005, Oriana Fallaci tenne molto a ringraziare Robert Spencer e Daniel Pipes: “Questo premio appartiene a loro quanto a me”. Atto dovuto, perché la sua islamofobia era in gran parte debitrice delle tesi sostenute dai due, a quei tempi assai in voga. La stessa cosa possiamo dire per Anders Breivik, che nella sua European Declarion of Independence riporta pagine e pagine dei due.
La prosa di Oriana Fallaci e quella di Anders Breivik sono incomparabili, ma in comune hanno un tratto, che è quello di dare una risposta urgente all’urgenza posta loro dalle condivise tesi di Spencer e di Pipes. La risposta di Oriana Fallaci fu nel grido d’allarme, nell’invettiva rabbiosa e nell’appello all’orgoglio identitario, quella di Anders Breivik è stato il folle progetto di una nuova crociata (stavolta non c’era da liberare Gerusalemme, ma l’Europa). In entrambi la croce è un simbolo di storia e di cultura, il talismano indispensabile in battaglia (“in hoc signo vinces”). Non ha importanza sapere se monsignor Rino Fisichella ce la conti giusta sulla conversione in extremis della Fallaci, non ha importanza sapere fino a punto Breivik sia ecumenico nell’auspicio che il protestantesimo venga riassorbito dal cattolicesimo. Sappiamo solo che Oriana Fallaci non ha fatto in tempo a potersi dire delusa della retromarcia fatta da Benedetto XVI dopo la lectio di Ratisbona, che poi è quanto Anders Breivik rimprovera all’attuale pontefice. A Giovanni Paolo II rimprovera il bacio al Corano, sul quale anche la Fallaci ebbe a ridire: il suo avvicinamento alla Chiesa è nel punto di rottura che Ratisbona segna tra i due pontificati, la sua simpatia per papa Ratzinger nasce nel prefigurare la lectio di Ratisbona, che è di tre giorni antecedente alla sua morte, e non fa in tempo a trovare la delusione di Breivik.
Chi si è azzardato a definire papista la Fallaci, non può azzardarsi a definire Breivik  “antipapista”, che poi è un altro depistaggio, come il definirlo neonazista e massone. A Breivik starebbe bene un papa che benedica una crociata anti-islamica, ciò che la Fallaci intravvide a torto in Benedetto XVI.
2. Mario Borghezio ha dichiarato che, “al netto del richiamo alla violenza”, ritiene “condivisibili” le posizioni espresse da Breivik, che sono quelle di Spencer e di Pipes, le stesse della Fallaci, che pure in certi punti della sua ultima produzione incita alla crociata. Dai due illustri neocon americani al “voldedig psikopat” norvegese c’è un gradiente dall’islamofobia sul quale troviamo prima Borghezio e poi la Fallaci. Qualcuno ha intenzione di censurare i libri della Fallaci? Se si vuole censurare Borghezio, è indispensabile. Ma come si fa a censurare i libri della Fallaci? Impossibile. Tanto vale non censurare Borghezio.
3. Come al solito, Il Foglio brilla in furbizia: la consegna è al silenzio sul “cretino apocalittico”, che poi vuol dire evitare di dover concedere che le sue posizioni sono “condivisibili, al netto del richiamo alla violenza”. O rimangiarsi tutto ciò che è stato mandato in pagina dal 2004 in poi, compreso l’entusiasmo per un Benedetto XVI che a Ratisbona sembrava sottoscrivere le tesi di Spencer e di Pipes. Il gesto commesso da Breivik sporca tutto: ignorarlo.