venerdì 26 ottobre 2012

Non è un addio

La dichiarazione che Silvio Berlusconi ha diffuso ieri trova nella versione video diffusa oggi alcune piccole differenze che sostanzialmente non ne alterano il contenuto ma vanno a dare forza ad alcune ipotesi che già l’analisi del testo scritto consentiva di formulare. (Non l’ha scritto lui, ovviamente, e Giuliano Ferrara non è riuscito a trattenere la vanità di lasciare la firma in trasparenza, ma questo non ha molta importanza.)
Trattandosi di un testo letto da un gobbo a scorrimento – i movimenti oculari indicano chiaramente che è posto sulla sinistra della telecamera che lo riprende – è evidente una lieve decelerazione della lettura nei passaggi che per unità di segmento testuale contengano tre o più parole di lunghezza superiore alle dieci lettere, con un progressivo rallentamento nella seconda metà del messaggio, che pure ne contiene in minor numero (a ciò è posto il correttivo, comune nel discorso a braccio, della ripetizione dell’elemento che sostiene più subordinate).
Questo dato può essere interpretato in tre soli modi, che però non si escludono a vicenda:
(1) una certa qual premura di arrivare alla fine, come per liberarsi in fretta da un fastidio necessario, sembra rendergli pesante quello che invece intende offrirci come bel gesto: la rinuncia è un atto al quale è costretto, ma si sforza di presentarlo come un passo al quale si deciso per generosità;
(2) una lieve ma sensibile difficoltà nel sostenere l’intensità espressiva impegnata sulla prima parte del messaggio sui contenuti della seconda metà rende debole la soluzione che Silvio Berlusconi offre al suo partito in alternativa alla leadership: rinuncia alla leadership, ma pensa gli spetti di diritto l’esercizio di leader ad honorem;
(3) un progressivo calo della tenuta mnestica lungo l’avanzare della dichiarazione che può anche essere dovuto al fatto che le riletture del testo prima di girare il video non siano state in grado di fissarlo per intero, ma che è altresì compatibile con un’assai travagliata elaborazione materiale della seconda parte del messaggio rispetto alla prima: sul dover rinunciare, e subito, ma come se si trattasse dell’assecondare il corso delle cose, ha lungamente meditato e costruito; sul fatto che le cose prendano il verso giusto, a cominciare dal fatto che lasciare non voglia dire perdere, non ci siamo affatto.
Tutto questo, d’altronde, è esplicito nel testo: non è disposto ad ammettere errori che non siano in qualche misura da leggere come virtù, né che lasciare Palazzo Chigi sia stata una scelta obbligata. A mio parere, non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership, ma solo l’annuncio che la eserciterà in modo obliquo, perciò ancor più spregiudicatamente, se possibile. 

Rimango dell’idea che ho ripetutamente espresso su queste pagine: era necessaria la sua eliminazione fisica, ora è troppo tardi.

giovedì 25 ottobre 2012

Un bicchiere di vino

Mi pare che Nicola Osengo e Leonardo Tondelli abbiano scritto le cose più sennate riguardo la sentenza che ha condannato in primo grado a sei anni gli scienziati della Commissione Grandi Rischi che a pochi giorni dal terremoto del 6 aprile 2009 si riunirono per fare il punto della situazione sullo sciame sismico che si protraeva ormai da mesi. Dai post di Osengo e Tondelli traggo quanto mi pare sia importante aver presente, al netto delle tante cazzate sparate dagli innocentisti e dai colpevolisti.
«Non è una condanna per non aver previsto il terremoto», scrive Osengo, ma è «giuridicamente poco fondata»: «La tesi dell’accusa si basa sulla catena logica della negligenza professionale, che influenza il corso degli eventi, finendo per causare la morte di una persona che altrimenti non sarebbe avvenuta. […] Anche nell’ipotesi che sia provato quel nesso causale, tuttora non è ben chiaro quale sia, secondo la Procura, l’evento specifico che avrebbe “causato” quelle morti. La riunione? La conferenza stampa? L’intervista televisiva di De Bernardinis? Non può essere stato tutto nella stessa misura. All’inizio del processo il PM sembrava indicare in De Bernardinis e nella protezione civile i “cattivi” della vicenda, colpevoli di aver orchestrato una riunione che fin dall’inizio aveva il solo scopo di produrre un messaggio rassicurante culminato in quel tristemente famoso “bicchiere di vino” da bersi per scacciare la paura […] Alla fine del processo il PM è invece arrivato a definire De Bernardinis “vittima” dei sismologi, e della loro analisi superficiale delle possibili conseguenze di un forte terremoto in quell’area. Ora, o la riunione era una “mossa mediatica” (come la definisce Bertolaso nell’intercettazione telefonica del giorno precedente) con un finale già scritto, e allora gli scienziati sono stati almeno in parte presi in giro. O la Protezione Civile era sinceramente aperta all’opinione degli scienziati e ha deciso cosa dire ai cittadini solo dopo averli ascoltati. Le due ipotesi si escludono a vicenda, e il PM le ha di fatto sostenute entrambe. Che un procuratore stiracchi un po’ il suo argomento per sostenere l'accusa fa parte del gioco, ma il compito del giudice è notarlo e decidere di conseguenza. Leggeremo le motivazioni, ma si direbbe che il giudice Marco Billi non lo abbia fatto. La certezza del diritto non esce bene da questa sentenza».
Chiaro, ottimamente argomentato, ineccepibile sul piano logico, solido su quello giuridico. Una sola cosa lascia da pensare: gli scienziati della Commissione Grande Rischi hanno visto stravolte le loro valutazioni nell’invito di De Bernardinis a bere quel bicchiere di vino? Se sì, perché non hanno protestato? Volendo credere nella loro buona fede c’è da ritenere che convenissero con le rassicurazioni di De Bernardinis. Ma non abbiamo detto che i terremoti non si possono prevedere? E allora cosa consentiva loro di avallare le rassicurazioni di De Bernardinis? Sul piano penale non ci sono elementi per condannarli, concordo con Osengo, e mi auguro che in appello siano assolti. Se però «sono stati almeno presi in giro» da Bertolaso e da De Bernardinis, una colpa sul piano morale ce l’hanno: aver lasciato dire.
Forse anche qualcosina in più del lasciar dire. Per esempio, erano passate poche ore dalla scossa del 6 aprile, che aveva avuto magnitudo nell’ordine dei 6,3 Mw, e di lì a qualche giorno sarebbero seguite altre tre scosse di magnitudo quasi simile (5,4 Mw e 5,2 Mw il 9 aprile, 5,1 Mw il 13 aprile): tutte imprevedibili, ovviamente. Allora cosa consentiva ad Enzo Boschi di affermare quanto segue al TgSei?


«L’idea che i terremoti non si possano prevedere come gli acquazzoni – scrive Tondelli – tuttora ci destabilizza […] I sismologi, dal canto loro, si trovano in una situazione senza via d’uscita: in presenza di uno sciame sismico non possono certo escludere l’eventualità di una scossa catastrofica. Al massimo possono ricordare che è un’eventualità statisticamente limitata. Se poi la catastrofe, in barba alle statistiche, si avvera, verranno accusati di avere minimizzato il rischio e condannati per omicidio colposo (è il caso dell’Aquila); se invece non arriva, come nel giugno scorso, qualche cittadino, qualche industriale danneggiato dal panico potrebbe denunciarli per procurato allarme». Questo non è tutto, perché l’Italia è «un Paese che ha un rapporto complicato con la scienza» e «le comunicazioni degli esperti vengano sistematicamente fraintese e distorte».
Ben detto, d’altronde «il verbale della famigerata riunione del 31 marzo 2009 sembra abbastanza chiaro: i membri della Commissione non escludevano “in maniera assoluta” che potesse verificarsi un sisma distruttivo come quello del 1703, e tuttavia lo consideravano improbabile, dal momento che le scosse pur numerose registrate fino a quel momento non avevano nessun carattere precursore. Ma quello è il contenuto tecnico della riunione, quello che non interessa più nessuno. Se tutti i membri della Commissione ieri sono stati condannati per omicidio colposo è per un contenuto mediatico, qualcosa che nel verbale della riunione non c’era – ma che forse c’era sui titoli dei quotidiani locali l’indomani mattina, e senz’altro è rimasto nella memoria collettiva degli aquilani: un invito a dormire tranquilli nelle proprie case. Gli scienziati non scrissero questo, ma forse giornalisti e cittadini volevano sentirselo dire».
Anche qui, ben detto. E tuttavia così torniamo al punto posto prima: se giornalisti e cittadini volevano bere il bicchiere di vino che in effetti De Bernardinis invitò a bere, se quell’invito era l’inappropriata traduzione mediatica di quanto gli esperti avevano detto in quella riunione, perché non uno di quegli esperti protestò? Anche a Tondelli, come a Osengo, questa pare questione irrilevante. 
L’idea che mi son fatto io è che i condannati non siano colpevoli sul piano penale, ma non siano innocenti su quello morale. Meritano di essere assolti in appello, dunque, nella speranza che sappiano meditare sul rapporto tra scienza e potere, trovando il coraggio, quando e se dovesse ripetersi il caso, di contestare la strumentalizzazione del loro lavoro. Anche a costo di perdere i benefici che ne traggono quando è il potere a commissionarlo. 

mercoledì 24 ottobre 2012

L'anabasi («… oma ehc eseap li è ailati’l»)

«Una spiccata capacità a delinquere».

Un giudice dice che Alessandro Sallusti ha «una spiccata capacità a delinquere». Tutti a discutere se abbia ragione o no, nessuno a fargli presente che era più corretto dire «capacità di delinquere».


«Ammazzablog»?

La libertà è imprescindibile dalla responsabilità, ma il web fa fatica a capirlo, d’altronde è giovane e ha tempo.
Occorrono «misure a tutela del soggetto diffamato o del soggetto leso nell’onore e nella reputazione» anche per quanto è pubblicato on line? Da come ci si precipita a solidarizzare con la ragazzina che si suicida perché fatta oggetto di intollerabili molestie da parte di un delinquente al quale aveva dato troppa confidenza, parrebbe di sì: l’onore e la reputazione della ragazzina meritano che sia messo un limite alla libertà del delinquente, anzi, parrebbe meriti perfino che nome e indirizzo del delinquente siano messi a disposizione di chiunque abbia voglia di fare giustizia da solo (e non mi pare di aver letto molti post che biasimassero la cosa).
Da come ci si precipita, invece, a definire «ammazzablog» un articolo approvato in questi giorni alla Commissione Giustizia del Senato, parrebbe di no. Lì c’è scritto che, «fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere ai siti internet e ai motori di ricerca l’eliminazione dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione della presente legge». Può chiederlo, sia chiaro, ma chiederlo non vuol dire ottenerlo. Infatti, «in caso di rifiuto o di omessa cancellazione dei dati», chi si sente diffamato «può chiedere al giudice di ordinare ai siti internet e ai motori di ricerca la rimozione delle immagini e dei dati ovvero inibirne l’ulteriore diffusione». È altrettanto chiaro che il giudice dovrà prima valutare se si tratti o meno di diffamazione, e solo nel caso in cui stabilisca che così è, e il blogger si rifiuti di rimuoverla dal suo blog, scatterebbe la sanzione: «multa da 5.000 a 100.000 euro» e rimozione forzata di quella che una sentenza avrà stabilito allora essere senza dubbio una diffamazione. Sant’Iddio, ci dovrà pur essere qualcuno che lo stabilisca e al quale il presunto diffamatore e il presunto diffamato riconoscano il potere di stabilirlo, o no?
Dove sta l’ammazzamento del blog? A me pare che il blogger rimanga libero, ma sia semplicemente fatto responsabile di ciò che scrive. 

Faccio un esempio. L’8 luglio 2008, dal palco del No Cav Day in Piazza Navona, Sabina Guzzanti urlò: «Io non sono moralista, non me ne frega niente della vita sessuale di Berlusconi, ma tu non puoi mettere alle Pari Opportunità una che sta lì perché ti ha succhiato l’uccello!», frase che, due settimane fa, un tribunale ha giudicato diffamatoria ai danni dell’onorevole Mara Carfagna. Non essendoci prove di quanto Sabina Guzzanti affermò in quella occasione, possiamo ritenere giusta la sentenza? Io penso di sì. Si trattava di una vox populi che non sapremo mai se causa o effetto di quanto Clarín e Nouvel Observateur avevano scritto, alcune settimane prima, circa l’esistenza della registrazione di una telefonata nel corso della quale Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini si sarebbero reciprocamente interrogate per sapere come soddisfare al meglio Silvio Berlusconi. Anche se quel nastro esistesse – ma ad oggi nessuno è stato in grado di dimostrarne l’esistenza, tanto meno di renderne pubblico il contenuto – non dimostrerebbe quanto affermato da Sabina Guzzanti (una poltrona da ministro in cambio di uno o più pompini) e la sua rimarrebbe diffamazione.
Bene, ora immaginiamo che Sabina Guzzanti avesse scritto quella frase sul suo blog e fosse in vigore l’articolo approvato l’altrieri alla Commissione Giustizia del Senato: si arriverebbe comunque a stabilire in un tribunale che quanto affermato è diffamazione. Se il post che contiene quella frase fosse rimosso, Sabina Guzzanti non sarebbe soggetta ad alcuna sanzione e le andrebbe addirittura meglio di come le è andata.
Perché si urla tanto all’«ammazzablog», allora? Io penso che sia dovuto al comma 6 dell’articolo: «Se il fatto è commesso da una persona esercente una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione, ferme restando le sanzioni amministrative applicabili, il fatto costituisce illecito disciplinare. Di tale violazione il giudice informa l’ordine professionale di appartenenza per i conseguenti provvedimenti disciplinari». A mobilitare il web contro l’articolo «ammazzablog» sono, in queste ore, per lo più blogger che hanno anche la tessera di giornalista.

Prevedo e affronto un’obiezione a quanto detto: se passa quell’articolo, il blogger sarà intimidito e non sarà più libero di scrivere ciò che vuole. Vero, se non ha prove che la Carfagna sia diventata ministro per un pompino, non potrà scriverlo. O dovrà cancellarlo dopo averlo scritto. A me sembra giusto. Per meglio dire, non mi sembra giusto che la Carfagna si debba suicidare per dimostrare il contrario.
In più, con la confusa normativa vigente sul tema, a rifiutarsi di cancellare ciò che ha scritto, il blogger dovrebbe sostenere le spese di un avvocato, se chiamato in giudizio: qui, invece, il giudice deciderà senza sentire le parti, e dunque, per sapere se io ho diffamato o no la persona che va a chiedergli giustizia del torto che le avrei fatto, non ci sarà bisogno del braccio di ferro che la vulgata vuole vinto da chi ha più soldi.

lunedì 22 ottobre 2012

«Lei è antidemocratico come la camorra»

Ho ricevuto molte critiche, e anche qualche rimprovero, per non essermi unito al coro pressoché unanime di quanti hanno solidarizzato con don Maurizio Patriciello, ma non ho ricevuto neanche una risposta convincente alla questione che ponevo: il reverendo parlava a nome di tutti i cittadini di Caivano – ho scritto – ma a quale titolo? Quando gli è stata conferita questa delega – ho chiesto – e con quale procedura? Sono domande che ripropongo, avendo ben presente i rischi che corro. Nell’immaginario collettivo, infatti, la figura del prete che combatte la criminalità organizzata ha ormai da tempo conquistato tanta stima e tanto affetto da essere diventata intoccabile.
L’ho sperimentato alcuni anni fa, quando posi la stessa questione per don Fortunato Di Noto, il prete che da anni setaccia il web a caccia di pedofili: chiesi a quale titolo avesse acquisito tale licenza, e come l’avesse maturato, e a chi fosse tenuto a render conto del proprio operato. Anche in quella occasione nessuno seppe darmi una risposta, ma ricevetti severe critiche per aver avanzato l’ipotesi che la nobile crociata di don Di Noto potesse essere effetto di una sublimazione. Non si fa alcuna offesa al chirurgo nel dirgli che probabilmente la sua bravura è il risultato della sublimazione delle sue pulsioni sadiche, d’altronde presenti in ciascuno di noi, ma ipotizzare che la stessa cosa potesse valere per don Di Noto fu considerata un’odiosa insinuazione.
La questione che ponevo rimase inevasa e a tutt’oggi ignoro chi lo abbia investito del titolo di cacciatore di pedofili on line, e chi ne controlli le attività e i metodi. Suppongo sia andata com’è per don Patriciello: meriti acquisiti sul campo, non soggetti ad alcun vaglio, maturati grazie al favore di un’opinione pubblica che, sui piatti della bilancia, mette di qua don Di Noto e don Patriciello e di là un prete pedofilo o un sacerdote che va a dare l’eucaristia a un boss mafioso del suo covo di latitante, e voilà i primi due diventano dei santi al di sopra di ogni critica, sicché anche il solo chiedersi a che titolo don Patriciello rappresenti gli interessi dei caivanesi, o don Di Noto quelli dei genitori di minori potenziali vittime di orchi internettiani, è offesa.
Si parva licet, siamo all’accusa che fu mossa a Leonardo Sciascia quando sollevò dubbi sulle prerogative e i metodi dei «professionisti dell’antimafia» che l’onda della simpatia popolare aveva ormai promosso a santi: lo scrittore fu linciato, ci fu perfino chi insinuò che volesse fare un favore a Cosa Nostra. Sia, correrò il rischio che qualcuno insinui che ho legami coi casalesi.

Le cose, oggi, sono un po’ più chiare: «In quella riunione – dichiara don Patriciello – volevo raccontare di aver accompagnato un giornalista a fare foto a Succivo, nel casertano, dove da anni c’è amianto ormai sbriciolato e ora si sono aggiunte lastre di eternit. Il giorno dopo sono andato dal Prefetto di Caserta, Carmela Pagano, senza appuntamento e non mi hanno fatto entrare. Ma io ho insistito, sono rimasto lì mezza giornata, e alla fine mi ha ricevuto. Ha tentato di tranquillizzarmi: “È tutto sotto controllo”» (la Repubblica, 22.10.2012).
Ora, non so come la vedete voi, ma a me pare che pretendere di essere ricevuti da un Prefetto senza neanche aver preso un appuntamento, e insistere fino ad ottenerlo, non sia del tutto ordinario. Come non è ordinario il fatto che alla fine il Prefetto abbia ceduto. Il fatto, poi, che, denunciato il presunto illecito, don Patriciello si sia sentito in diritto di mettere in discussione quanto gli era stato detto dal Prefetto, be’, a me pare sia scostumatezza maggiore del chiamarla, di lì a qualche giorno, «signora».
D’altra parte, l’incidente che ha procurato tanta pubblicità al parroco di Caivano – egli stesso lo rileva dicendosene assai soddisfatto – nasce dall’esagerata reazione del Prefetto di Napoli a quel «signora» che arrivava in coda alla petulanza del sacerdote. Molto probabile che il dottor Andrea De Martino sia arrivato a quella riunione con un pregiudizio ostile e che la sua esagerata reazione lo abbia rivelato per intero, ma parliamoci chiaramante, si tratta del pregiudizio al quale questo post ha fin qui cercato di dare un fondamento: don Patriciello si sente investito di una missione suppletiva a quella del sacerdozio, pretende di incarnarla, e guai a chi si azzarda a rammentargli che non è un politico, non è un tecnico, ma un arruffapopolo. Animato, sì, da buone intenzioni. Che però non sono sufficienti a dargli deleghe. Potrà farsi portavoce delle anime dei cattolici di Caivano, ma se vuole interpretare altro ruolo è necessario vi si candidi e raccolga consenso in forme e in modi che lo legittimino dinanzi alle istituzioni dello Stato.    
Tutto normale, invece, per chi vede incarnato in lui, e a pieno diritto, la crociata della quale s’è messo a capo, ma questo è dovuto a tutti? Per don Patriciello, sì. Ed è facile intuire da chi si senta elevato agli onori degli altari laici: da quanti gli sono subito corsi in soccorso, addirittura chiedendo le dimissioni del Prefetto di Napoli. Questo spiega perché il parroco di Caivano sia uscito dalla riunione immortalata dal video girato da un suo supporter ammantandosi delle vesti della vittima, e profondendosi in scuse, giustificando quella che non ha fatto alcuna fatica ad ammettere potesse costituire un’involontaria offesa. Poi, sondato l’effetto suscitato, arriva a dire in faccia a dottor Andrea De Martino: «Lei è antidemocratico come la camorra» (napoli.repubblica.it, 22.10.2012). Pensatela come volete, a me costui non piace proprio. 

domenica 21 ottobre 2012

[...]

Non è chiaro a quale titolo,  l’altrieri, don Maurizio Patriciello parlasse a nome dei cittadini di Caivano, cattolici e no, credenti o meno, ma non c’è troppo da stupirsi che in Italia un prete senta la vocazione di arruffapopolo nella convinzione che aprire vertenze con lo Stato sia una extension della cura delle anime.
Non è chiaro nemmeno chi lo avesse delegato a rappresentare i cittadini di Caivano, tanto meno è chiaro con quale procedura, ma neanche di questo c’è troppo da stupirsi, perché questo è un paese in cui si chiude volentieri un occhio su questo capitolato di regole, tuttal più ci si appassiona a quelle che dettano chi possa o no concorrere a un posto di messo comunale.
È chiaro, invece, che quella che don Patriciello si ostinava a chiamare «signora» nella sua predica al Palazzo del Governo, a Napoli, fosse un Prefetto della Repubblica Italiana, un rappresentante di quello Stato che ogni anno assicura alla Chiesa Cattolica Italiana il necessario per dar da mangiare ai suoi preti, che, sarà solo un caso, sono quasi tutti in sovrappeso.
Non capisco, dunque, il donde di tanta indignazione al fatto che don Patriciello sia stato richiamato al rispetto delle istituzioni. Provo, invece, a immaginare quali reazioni avrebbe provocato un Silvio Berlusconi che nello stesso giorno avesse dato della «signora» a un pm della Procura di Milano:  l’intenzione offensiva sarebbe stata manifesta e il video, che avrebbe avuto diffusione altrettanto virale, avrebbe avuto tutt’altro genere di commenti.

venerdì 19 ottobre 2012

Sulla cosiddetta rottamazione / 1

Sulla cosiddetta rottamazione ho letto un bel po’ di sciocchezze in questi ultimi giorni. In primo luogo, che sarebbe un termine violento, addirittura «fascistoide», comunque poco rispettoso della dignità dei cosiddetti rottamandi, perché «si rottamano le cose, non le persone», ecc. Cazzate. La politica vive di metafore violente, perché è guerra che si serve di armi non cruente, ma sempre guerra è, sicché le immagini che ne riproducono l’impiego e l’effetto non possono fare a meno del gergo militare, eventualmente di quello sportivo, perché anche l’agone atletico è sublimazione della pratica bellica. Ora, è vero, possiamo andar fieri del fatto che i conflitti tra opposti interessi, e tra le opposte fazioni che ne sono il portato, abbiano trovato modo, lungo la storia, di consumarsi senza spargimento di sangue, ma pretendere che siano svuotati della loro sostanza, perdano la tensione che è propria dei conflitti, e al punto da riuscire a fare a meno delle immagini che ne rappresentano la topica, beh, mi pare sia pretender troppo. E tuttavia l’ipocrisia s’è fatta colma quando nel lamentare la durezza del termine s’è cimentato anche chi ha sempre fatto sfoggio di ben più truce idioletto.
Un’altra corbelleria che ho visto raccogliere molto consenso in questi ultimi giorni è quella che dà corpo all’opinione che i rottamandi si dovrebbero rottamare da soli. Sarebbe questione di buon gusto, pare. A me, invece, pare una stronzata, perché anche se spogliassimo un professionista della politica di tutti i privilegi di cui solitamente gode in qualità di parlamentare o dirigente di partito o amministratore della cosa pubblica – ammesso sia possibile, voglio dire – dalla carica che riveste, dal ruolo che interpreta, dalla funzione che svolge non riusciremmo mai a strappare l’elemento di gratificazione psicologica, assai forte in alcuni individui, che è dato dal rappresentare, per meriti individuali, un’entità sovraindividuale che il professionista della politica intende, a torto o a ragione, come proiettato del suo universo. Rinunciare a questa gratificazione significa rinunciare ad una considerazione di se stessi che spesso è stata lungamente coltivata, nutrita di vittorie e sconfitte, entusiasmi e delusioni che quasi sempre finiscono per embricarsi col vissuto personale del politico professionista: tanto più difficile rinunciare a questa gratificazione, se a vantaggio di chi non si stima o addirittura di chi si disprezza, perché di là dai benefici materiali ai quali il rottamando è chiamato a rinunciare – non voglio ignorarne il peso nella resistenza alla rottamazione, e tuttavia qui sto prendendo in considerazione l’ipotesi, tutta virtuale, che sia nullo – col rottamarsi o il farsi rottamare è in gioco un ridimensionamento della propria immagine. Difficile da farsi, tanto meno di buon grado, soprattutto se in mancanza di una gratificazione che si sia venuta a prospettare come più allettante.
Relativamente a questi due primi punti, insomma, direi che è lecito da parte di Renzi la volontà di rinnovare la classe dirigente che il Pd ha ereditato dalla Dc e dal Pci. È altresì lecito, da parte sua, ma anche di chiunque altro, l’uso del termine rottamare. Per il poco che conta, a me non piace: penso abbia l’innaturalità di certi tic retorici del gergo aziendale, sicché a «rottamare» finisco per preferire un assai più ruvido «far fuori».
Un’altra cazzata che ha tenuto banco in questi ultimi giorni, poi, è che la volontà di rottamare l’attuale classe dirigente del Pd abbia trovato un efficace strumento nella petulanza di Renzi, come se insistere nel chiedere a qualcuno di andare a casa – abbiamo visto rinunciando a cosa – basti ad ottenerlo. Fosse così, parte del merito del passo indietro fatto da Veltroni e da D’Alema, fatta la necessaria distinzione del perché e del come sono giunti alla stessa decisione di non ricandidarsi al Parlamento, spetterebbe anche a quanti, con Renzi, hanno cominciato a chiederlo da un lustro e più. Così non è, perché anche Renzi non è che l’epifenomeno di quel noto processo osmotico che non tollera il vuoto e lo riempie di qualsiasi cosa, non importa quanto rarefatta o densa: la forza che spinge Renzi non gli è dietro ma davanti, Renzi non avanza per pulsione ma per trazione, non si fa largo ma lo trova.
In altri termini, Renzi va ad occupare parte dello spazio che è lasciato libero anche a Grillo dal collasso della massa flottante sullo zoccolo duro dei consensi al Pd. Ma Renzi ormai può crescere ancora solo spostando a destra il baricentro del Pd, però causando in questo modo una inevitabile scissione del partito: così non avrà «rottamato» la «vecchia» classe dirigente del partito, ma il partito. Tenuto conto del fallimento del progetto che portò democristiani e comunisti ad inverare l’ibrida chimera di Moro e Berlinguer, non ne sarebbe che il momento catalitico, ma non sarebbe quello che ha voluto o almeno ha fin qui dichiarato di volere.
Vorrei segnalare un’ultima cazzata, prima di tentare una spiegazione del perché tutte abbiamo così facilmente acquisito credito: Renzi sarebbe un democristiano. Oppure: sarebbe un liberista. Penso siano attribuzioni più che arrischiate: Renzi è un populista, è l’altra faccia del populismo di Grillo. Prima era un tuttuno in Berlusconi: poi il nastro di Moebius si è rotto e si è ricomposto in due facce, luna becera e laltra piaciona. Grillo e Renzi insieme fanno il Berlusconi che fino a ieri incarnava un blocco sociale in fieri. L’operazione non è riuscita.

[...] 

mercoledì 17 ottobre 2012

Una semplice regoletta

Una legge che preveda il carcere per chi diffama è incivile, ma ogni legge dev’essere rispettata fino a quando non viene cambiata: giusto che Alessandro Sallusti vada in galera, giusto che si discuta di cambiare la legge.
Tuttavia c’è il rischio che, abolendo il carcere come pena per chi diffama, il legislatore possa ritenere necessario un severo inasprimento delle già pesanti sanzioni pecuniarie, consentendo a chi dispone dei mezzi per sostenere una battaglia giudiziaria di vedere enormemente incrementata la sua capacità di intimidire chi non ne dispone.
È evidente che siano necessarie garanzie in favore della libertà di espressione. Penso che a scoraggiare il ricorso alla querela temeraria a scopo intimidatorio possa bastare una semplice regoletta: tu mi quereli perché ritieni che io ti abbia diffamato e stabilisci quale somma ti risarcirebbe del danno, poi, se in giudizio non risulta che io ti abbia diffamato, quella somma la devi tu a me.

martedì 16 ottobre 2012

1971-2012


Nel 1971 era così, adesso pare sia di nuovo in agonia, come lo era nel 2008, quando per evitarne la vendita arrivarono gli aiuti di stato, grazie a un governo che faceva vanto di fede nel libero mercato. Mi sto ancora chiedendo perché fosse indispensabile avere una compagnia aerea di bandiera, ho cominciato nel 2008 e non ho smesso più, ma nessuno mi ha saputo dare una risposta. Cosa andrò a perdere quando Alitalia sarà venduta? Quanto continuerò a perdere per non perderla?  

«Basta personalismi»


Prima di venirlo a scrivere qui, come faccio sempre quando temo di cadere nell’ovvio, sono andato a controllare se qualcun altro lavesse già fatto notare, setacciando decine di post e centinaia di tweet a commento del paginone che ieri su l’Unità dava voce a quei 700 tizi che smaniavano dalla voglia di far sapere che «per noi D’Alema è punto di riferimento»: niente, pare che nessuno abbia fatto caso al fatto che il titolo del paginone era «basta personalismi».
C’era scritto anche «basta divisioni», è vero, e un paginone così, in questo momento, tutto può ambire ad essere tranne che un tentativo di evitare altre spaccature in un partito che peraltro è ormai da tempo un groviglio di cordate e lobby che non perdono occasione per scambiarsi rasoiate. E però in quel «basta divisioni» mi pare che il paradosso non sia tanto evidente quanto in quel «basta personalismi» messo a cappello del «bisogno di esperienze e solidità istituzionale e politica che personalità come D’Alema apporterebbero alla sfida di governo che ci attende come centrosinistra».
Ecco, ci avessero messo anche due «slurp», i famigli di Baffino, e avrebbero potuto aggiungere anche un bel «no al clientelismo».

domenica 14 ottobre 2012

Consigli a gratis

La scorsa settimana ho consigliato ai radicali (Butto un’idea, ci faccio un pensierinoMalvino, 4.10.2012) di restituire quanto rimane loro in cassa dei fondi che la Regione Lazio ha erogato al gruppo consiliare della Lista Pannella per il 2010 e per il 2011 (dovrebbero essere rimasti poco più di 270.000 euro degli oltre 580.000 euro incassati, se nulla è entrato per il 2012): «darli via in banconote da 50 euro, restituirli alla gente come nel 1997», ho scritto, «con le elezioni politiche a un tiro di schioppo, sarebbe un solido investimento». Bene, la stessa idea è venuta pure ad Alessandro Capriccioli, che ieri l’ha proposta al Comitato nazionale di Radicali italiani, di cui è membro. Non si è sentita volare una mosca, come se non fosse neanche il caso parlarne. Un altro consiglio, stavolta ad Alessandro Capriccioli: non insistere, per il tuo bene non insistere.

[...]


Su la testa non è malaccio e in filigrana mostra addirittura una sinistra intellettualmente onesta, cosa che da tempo sembrava contraddizione in termini. Insomma, se vi considerate di sinistra, se il Pd di Bersani e di Renzi, e più ancora il Pd di Bindi, di Fioroni e di Castagnetti, ormai vi dà la nausea, se considerate Vendola un velleitario, se raziocinio e buon busto vi tengono lontani da Di Pietro e Grillo, se Pannella no perché non siete masochisti, vi consiglio di aderire. (L’avrei fatto anch’io, ma ho già completato la mia collezione di delusioni.) 


Appunto

Un anno fa ho scritto: «Se Dio c’è, se si è incarnato in Cristo, se la Chiesa è il Cristo vivente, se i preti ne sono i ministri e il laicato cattolico è il popolo di Dio, tutti i traffici della Compagnia delle Opere sono in regime di apostolato e la sua rete, già da tempo multinazionale, qualcosa in più di una lobby e poco meno di una mafia, non è altro che una falange della mano di Dio nel campo della politica e degli affari. Voglio dire che non c’è alcuna rottura tra la predicazione di don Luigi Giussani e l’impero economico dai mille tentacoli al quale i suoi ragazzi hanno dato vita: la piovra potrà avere un brutto aspetto, ma è proprio quella pensata dal pretino di Desio ne All’origine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1992). Lì non si entrava nel dettaglio, ma c’era già tutto, anche l’incoraggiamento a non temere più di tanto la magistratura inquirente. A Dio, con un giro di affari di oltre 80 miliardi di euro, gli fai un baffo».
Sull’ultimo numero di Micromega (7/2012) lo trovo scritto meglio: «La presenza di Cristo risorto è nella concretezza di un corpo ecclesiale, quindi è solo “il metodo della compagnia” che permette di far toccare Cristo e di appartenere a Lui. […] Appartenere [a Comunione e liberazione] assume un profilo esistenziale molto marcato, coinvolge affetti, casa, lavoro, politica. I ciellini si sposano tra ciellini, lavorano coi ciellini, e in politica votano i ciellini […] Creano un mondo autosufficiente, in cui è facile entrare e difficile uscire, che garantisce ai suoi abitanti di essere nel vero, offrendo un apparato concettuale ben definito da cui attingere risposte ai quesiti della vita e un’organizzazione che accompagna dalla culla alla bara. È per questo impianto, voluto dal fondatore, e non tanto per lo stile bruto di molti dei suoi capi, che il movimento si è meritato il giudizio di “integralismo”. […] Esaltazione del carisma, del linguaggio, delle idee del leader, con […] insistenza sul “noi”».
L’occasione per parlare della Compagnia delle Opere mi era offerta l’anno scorso da Marco Pannella, per il quale «don Giussani si rivolterebbe nella tomba a sapere cosa è diventata Comunione e liberazione»: il brano che ho tratto da Micromega (Giovanni Colombo, Dal vento del Concilio alla tabula rasa – pagg. 25-36) mi pare dia ottima spiegazione del fatto che solo considerando benevolmente il modello settario di Cl si può ritenere che Roberto Formigoni ne sia un momento di degenerazione. Perché, allora, i ciellini muovono miliardi e i radicali hanno le pezze al culo? Perché i primi hanno dalla loro uno Spirito Santo più efficace, una Pentecoste meglio militarizzata. Sembra niente, ma fa la differenza.

venerdì 12 ottobre 2012

«Camminando su un tappeto formato da milioni di farfalle di mille colori diversi»

L’alterata facoltà di percepire attendibili dati sensoriali su noi stessi e su quanto ci circonda, pressoché costantemente associata all’impossibilità di elaborarli in una rappresentazione che regga all’evidenza dei fatti, è un elemento di comune riscontro in svariate condizioni patologiche del sistema nervoso centrale, transitorie o permanenti, che trovano causa in un ampio ventaglio di noxae (traumatiche, tossiche, degenerative, ecc.). È per questo che prestiamo poca fede a chi torna da un trip lisergico raccontandoci di aver sorvolato Atlantide in sella a uno pterodattilo, neanche gli chiediamo se per caso abbia realizzato un reportage fotografico, ed è per la stessa ragione che all’alcolizzato cronico che nel suo delirium tremens urla di essere assalito da insetti a frotte corriamo in soccorso con le benzodiazepine invece che con l’insetticida. Quando invece un tizio esce dal suo coma e ci racconta di essere stato in una specie di paradiso che peraltro non è mai lo stesso da coma a coma – mai che un comatoso raccontasse di esser stato in purgatorio o all’inferno – porgiamo l’orecchio con grande interesse. Poco importa cosa l’abbia fatto andare in coma e a quale trattamento farmacologico sia stato sottoposto mentre era in paradiso, vogliamo sapere se ha visto gli angeli, se davvero hanno le ali piumate come si dice. Se poi il tizio è uno che prima di entrare in coma non credeva nell’aldilà, le sue visioni acquistano valore di testimonianza documentale: per essere solide, le ragioni dell’ateismo devono resistere alla prova della meningite purulenta, sennò vuol dire che Dio esiste!
Questo è quanto pare dimostrare il caso del dottor Eben Alexander, 58 anni, neurochirurgo, sette giorni in coma per una meningite da Escherichia coli, che al risveglio ha raccontato di essere stato «in un mondo di nuvole bianche e rosa stagliate contro un cielo blu scuro come la notte», «popolato di esseri trasparenti e scintillanti», che, «cantando», «lasciavano dietro di sé una scia altrettanto lucente». Lì il dottore dice che, «camminando su un tappeto formato da milioni di farfalle di mille colori diversi», ha «incontrato una ragazza bionda con gli occhi blu», che, senza parlare, gli inviava messaggi che gli «entravano dentro come un dolce vento». Poi dice di aver visto una «grande sfera luminosa»… Insomma, tutta una roba tra la Divina Commedia e un b-movie di fantascienza. Poco importa in quali condizioni fosse il cervello del tizio durante il coma, molto di più che ora affermi che  «quanto [gl]i è capitato è reale quanto e più dei fatti più importanti della [su]a vita». Per accaparrarsi l’esclusiva c’è da attendersi aspra contesa tra Voyager e l’Anno della Fede.    

Contro la legge



Su un piatto della bilancia metto lo sdegno che si è sollevato nel paese per il modo in cui dei poliziotti hanno reso esecutivo il provvedimento di un tribunale che affidava un minore in via esclusiva ad uno dei suoi genitori – parlo del video andato in onda a Chi l’ha visto due giorni fa – e sull’altro metto quello che si sollevò nel paese alla diffusione delle immagini che documentavano il massacro che dei poliziotti avevano compiuto all’Istituto Diaz di Genova nel 2001: e ancora una volta mi sento straniero in patria, un’Italia che ragiona con lo stomaco, metà del quale è delicatissimo, mentre l’altra metà è coperta da un pelo irto e fitto. Lì avemmo un’orgia di abusi, ossa e denti rotti, sangue a schizzi e a grumi, ma il paese si spaccò in due, perché ci fu chi corse in soccorso dei poliziotti, tant’è che per riconoscerne la responsabilità ci sono voluti anni, più di un lustro. Qui, invece, la condanna è pronta, unanime, vivace, i quotidiani sparano il «fattaccio» in prima pagina, il capo della polizia annuncia un’indagine interna, il governo è chiamato a relazionare in parlamento e nessuno spiega in quale altro modo si potesse procedere per dare esecuzione a ciò che un tribunale aveva disposto. Perché, è vero, non è mai bello strappare un ragazzino a un genitore per darlo all’altro, ma le ragioni per le quali può essere necessario sono contemplate da leggi dello stato.
Ecco, forse è questo il punto: questo è il paese dove il sentimentalismo ha sempre la meglio sulla legge. Qui le passioni, gli umori, le simpatie e le antipatie pretendono ed ottengono ragione – contro la legge.

giovedì 11 ottobre 2012

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Il «neodegasperismo renziano»

La complessità di ciò che accade – tutto ciò che accade in un dato contesto e in un dato arco di tempo – ci spinge a cercare una legge che la regga, una formula che la racchiuda o almeno un’immagine che la semplifichi al meglio. Se ci riusciamo, ci pare di aver trovato la chiave del milieu, che non di rado ci illudiamo possa servirci da passepartout. Karl Popper l’ha spiegato molto bene in Miseria dello storicismo (1957), nel tentativo di dissuaderci dall’errore di pigiare i fatti in archetipi preconfezionati, peggio ancora se prefissati in modelli ciclici, peggio che mai se preconfigurati su vettori escatologici, in teorie del tutto che nella storia vedono un disegno, nel suo muoversi la cinetica di un organismo animato da una realtà trascendente, cosa sacra se non divina: l’effetto – dice – è talvolta comico, l’esito – avverte – è molto spesso tragico.
Ahinoi, l’Italia è il luogo in cui questo miserabile vizio di leggere la storia come un ripetersi di scene sempre uguali, entro le quali sempre nuovi attori si avvicendano nell’interpretare sempre le stesse dramatis personae, è considerato esercizio di memoria. Così accade che a qualcuno salti in testa di vedere in Matteo Renzi una specie di Alcide De Gasperi. Di più: di vedere negli scazzi che stanno facendo guazzabuglio nella pancia del Pd una «guerra di religione», un «conflitto a bassa intensità tra due modi di intendere la presenza dell’universo cattolico all’interno del centrosinistra», tra neodossettiani e neodegasperiani. Ancora di più: si ha la spudoratezza di proporre un’analogia tra i dispettucci e gli sgarbi che si scambiano due dei candidati alla guida del centrosinistra alle primarie e la faida che da cinquant’anni va consumandosi nella base cattolica tra quanti chiedono che sia finalmente liberato lo «spirito» del Concilio Vaticano II e quanti premono, con miglior fortuna, perché quello «spirito» sia condannato come lettura eretica di un testo che germinò troppo ambiguo e degenerò in criptoprotestantesimo.
Al netto della spocchia nel proporre questo gioco di società come una lettura intelligentosa della mediocre attualità politica italiana, siamo a un livello non più alto delle discussioni che negli anni ’80 consumavano i rotocalchi su questioni del tipo «chi è la nuova Mina», «chi è il nuovo Pelè». Non c’è da stupirsi che a proporre il gioco sia Il Foglio, non c’è da stupirsi che prendere la parola sia, tra gli altri, Mario Adinolfi. Per il quale, sì, «il neodegasperismo renziano è uno spazio vincente per i nuovi dem».
Con lui la miseria dello storicismo arriva a farsi miserrima: «Non credo – dice – che il conflitto in atto tra le diverse generazioni dei democratici d’ispirazione cristiana sia a bassa intensità». Non ci vede la tragedia che ritorna in farsa, ci vede proprio un altro Dossetti e un altro De Gasperi. Da come si struscia addosso a Renzi, «che ho avuto la fortuna di vedere crescere nel movimento dei giovani Popolari negli anni Novanta di cui sono stato presidente nazionale e lui leader fiorentino», si capisce che lui è un degasperiano da sempre. D’altronde, a chi era saltato il link? Pensi ad Adinolfi, ti viene subito in mente De Gasperi, no? Così con Renzi, che «è un degasperiano nel respiro e nella visione politica», anzi, è «nipote di De Gasperi», mentre gli altri, «i vari Marini e Castagnetti, Bindi e Letta» sono «i dossettiani», «“figurine” trasformate in foglia di fico utilizzate per coprire la matrice sostanzialmente socialista del Pd».
Non si capisce più un cazzo, eh? Avete ragione, non si capisce più un cazzo, tutto è andato gambe allaria, sottosopra. 

lunedì 8 ottobre 2012

«Prima era un libertino, poi sulla via di Damasco…»

A Otto e mezzo (La7, 8.10.2012), per sostenere la liceità del cambiare idea, Pierferdinando Casini piglia a esempio san Paolo, il quale – dice – «prima era un libertino, poi sulla via di Damasco…».
Saulo di Tarso, un libertino? Ma vogliamo scherzare? Prima della folgorazione era un ebreo tra i più zelanti, obbedientissimo alle leggi mosaiche, irreprensibile in quanto a costumi, tutto tranne un libertino.
Avrà fatto confusione con sant’Agostino? Passi, ma come ce la infila nelle Confessioni dell’Ipponate, la via di Damasco, ‘sto politico cattolico dei miei stivali?