sabato 31 dicembre 2011
Anno che va, anno che viene
Anno che va, anno che viene, anche per chi ha un blog è tempo di bilanci e programmi. Stavolta provo anch’io e prendo spunto da Massimo Mantellini, che scrive: «Tranne poche eccezioni quasi tutti bloggano meno. Il grosso della rarefazione ha avuto origine qualche anno fa con l’adozione diffusa dei social network. Le piccole cose delle nostre vite oggi finiscono altrove: in uno status update, in un tweet, dentro le cascate di tumblr».
Bene, anch’io da qualche tempo bloggo assai meno, ma non ho un tumblr; ho un account su Twitter, ma non ho mai fatto neanche un tweet di prova; avevo una pagina su Facebook che ho aggiornato solo due o tre volte, e che ho chiuso mesi fa. Ciò nonostante bloggo meno, molto meno. Anni fa sono arrivato anche a una dozzina di post al giorno, praticamente postavo tutto ciò che scrivevo, spesso senza neanche rileggere, e non di rado portavo in pagina anche cose scritte molti anni addietro.
Scrivo meno, oggi? Al contrario, scrivo quanto prima. Forse appena un po’ meno di prima, perché da poco mi è nato un figlio e ho riscoperto il gusto di essere padre. Tutto sommato, però, resto il grafomane che sono sempre stato. È che al momento di postare mi faccio vincere da scrupoli che prima non avevo. Rileggo, correggo, mi accorgo che non si tratta della forma, rinuncio.
Il punto di rottura è stato nel marzo del 2010, col cambio della piattaforma. Se oggi rileggo le paginate che postavo sul Cannocchiale, mi rendo conto che qui, su Blogspot, la mia scrittura pubblica ha in gran parte smesso d’essere un diario. Ero più spudorato, adesso l’intimo resta quasi tutto sul cartaceo. Ho ripreso a riempire quadernetti, come ho sempre fatto, fin da ragazzino.
Così è anche per la produzione – diciamo – letteraria: racconti e poesie, che prima postavo senza alcuna riserva, adesso rimangono gelosamente custoditi in faldoni. Intendiamoci, penso che narrare e comporre versi sia lecito a chiunque. Io lo faccio da sempre e penso che non smetterò mai. Penso anche che a chiunque sia lecito rendere pubblico questo genere di produzione, ma, almeno per quanto mi riguarda, ho visto che oltre l’episodica sortita “per vedere l’effetto che fa” cado in imbarazzo.
Quando ancora Internet non esisteva, non mi sono mai azzardato neppure a immaginare la pubblicazione delle mie poesie o dei miei racconti, men che meno di quei lunghi paginoni in forma di saggi brevi, in gran parte incompleti, che mi sono sempre serviti per mettere ordine alle mie letture, e che una volta rendevo pubblici senza farmi alcuno scrupolo di annoiare il lettore. Nel momento in cui ho vinto la mia lunga e fiera resistenza all’acquisto di un pc e all’accesso al web – era l’inizio del 2001 – avevo al mio attivo solo la pubblicazione di lavori scientifici, tutto il resto era chiuso in un migliaio di quadernetti. Ho subito ceduto alla tentazione di pescare qua e là, l’occasione è stato un thread che Piero Welby aveva aperto sul forum di radicali.it, e per un poco ho continuato anche su malvino.ilcannocchiale.it, ma dopo la morte di Piero ho smesso. Può darsi che mi interessasse essere letto solo da lui.
Non so darmi spiegazione, invece, del perché d’un tratto io abbia rinunciato a pubblicare tutto ciò che avesse attinenza alla mia vita privata. Solitamente accade che questo ritrarsi sia dovuto a qualche esperienza traumatica, ma non è il mio caso. Non mi sono mai sentito davvero ferito a morte dalle critiche che ho ricevuto in questi otto anni che Malvino compirà a marzo, anzi, devo dire che il giudizio più benevolo è stato proprio su quanto più mi aveva dato imbarazzo a rendere pubblico.
Posso solo provare a fare una ipotesi, ma seguendo una traccia che mi pare attendibile: pur essendo un medico, non ho quasi mai parlato del mio lavoro, e, pur vivendo a Napoli, ho raramente parlato di questa città. Sarebbero stati due filoni inesauribili, ma da sempre mi è sembrato che dessero spazio solo a una scrittura furba, un po’ ruffiana, fatta per intrattenere. È che odio l’anedottica e l’apologo morale, e a scrivere della mia città o del mio lavoro ci sarei inevitabilmente finito dentro. Non sono poeta, non sono scrittore, non sono saggista, non sono giornalista, non ho mai aspirato ad esserlo. Non ho mai ritenuto che esistesse uno spazio pubblico per la mia scrittura che non fosse quello della polemica. Mi piace giocare a scacchi e fare a botte, diciamo. Diciamo che ultimamente non trovo occasioni stimolanti e quelle vecchie mi sono venute a noia. Così preferisco riempire pagine per me stesso: una Introduzione alla teologia cattolica alla quale pensavo già da anni, il libretto di un’opera buffa in attesa di trovare un musicista che sappia parodiare bene Rossini...
Leonardo Tondelli scrive: «Non mi interessa scrivere per me stesso […] A me interessa produrre cose che gli altri trovino interessanti e leggibili: e più sono gli altri meglio è». A me, invece, interessa moltissimo scrivere per me stesso: ho scritto pagine che non renderei mai pubbliche e che a rileggere mi danno grande soddisfazione, per non parlare della soddisfazione che trovo nello scrivere pagine che già so che non pubblicherò mai. Tuttavia sarebbe disonesto negare il piacere di constatare, quando accade, che quanto rendo pubblico sia trovato interessante e leggibile. È che non tengo molto al numero, peraltro so di non avere una scrittura semplice, né facile, per non parlare dei temi che maggiormente mi interessano, ostici al grande pubblico del web.
Luca Massaro afferma che «il blog, come forma espressiva, si sta avvicinando sempre più a una specie di “prova d’artista”, ovvero a un esercizio di arte estemporanea del pensiero». Ecco, sì, può darsi, basta non contarci troppo.
venerdì 30 dicembre 2011
“Le facciamo chiudere in tre mesi”
“Le facciamo chiudere in tre mesi. Col giro di affari che abbiamo, possiamo chiedere alle case farmaceutiche di darci per tre o quattro mesi forniture in esclusiva o a prezzo agevolato, non possono negarcelo, e poi in fondo conviene pure a loro: le parafarmacie non reggerebbero alla concorrenza, si troverebbero con gli scaffali vuoti o sarebbero costrette a vendere a prezzo pieno dei prodotti che noi potremmo scontare anche del 20%. Nel sacchetto mettiamo pure le pasticche Valda in omaggio per le nonnine e le Zigulì per i bambini... Voglio vedere se poi la gente entrerà più in una parafarmacia... Senza tener conto del fatto che le città sono già sature di farmacie e i parafarmacisti dovrebbero aprire i loro negozietti in periferia: basta mettersi d’accordo coi medici di base che servono quelle aree, dar loro gratuitamente i farmaci salvavita di maggior consumo, trattenendo le fustelle: li distribuirebbero gratuitamente ai pazienti postdatando di qualche mese le prescrizioni, tanto per loro fa poca differenza sugli accrediti... No, li facciamo chiudere in un niente, questi pezzenti...”
Così, più o meno, ieri sera, in una farmacia del Vomero, sarei tentato di dire quale. Senza dubbio figlio di farmacista, re della bottega lasciatagli da papà, più o meno sulla quarantina, abbronzato da troppe lampade o appena rientrato da Cortina. Urlava quasi, nebulizzando qualche schizzetto di saliva per un leggero difetto di pronuncia sulle labiali, rivolto a due avventori che dovevano essere conoscenti o amici e che ascoltavano sorridenti e compiaciuti. Un notaio e un tassista?
Ero entrato a comprare un ciucciotto per mio figlio, avevo l’auto in seconda fila, non potevo intrattenermi.
mercoledì 28 dicembre 2011
A singulti
Certi meccanismi sono venuti a perdere l’efficacia di un tempo, ma continuano ad avere un gran peso nella programmazione delle coscienze, fin dalla prima infanzia, sicché dobbiamo rassegnarci a non pretendere troppo: di fronte alla paura, vedremo ancora per secoli la superstizione prevalere sulla ragione, e l’istinto gregario sulla cooperazione; ancora per secoli, di fronte al pericolo, l’impulso più comune sarà quello di rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza, disponendosi all’obbedienza pur di fuggire la responsabilità; ancora per secoli, come fin qui è stato, buona parte della programmazione consisterà nel fare accettare il programma come “naturale”. Non è affatto strano, dunque, che proprio adesso la democrazia sia oggetto di tante critiche; comprensibile che si parli del suo fallimento, e di quello del liberalismo; “naturale” che la tentazione più forte sia quella dello Stato organico. Durerà per qualche tempo, e non sarà stata l’ultima volta, perché l’umanità procede a singulti. Perché la prossima sia meno dura occorre non disperare, ma nemmeno lasciar tutto alla speranza: anche se guardata con sospetto o, peggio, derisa, la ragione che si oppone alla “natura” va coltivata ancora. Con più impegno, se possibile.
martedì 27 dicembre 2011
L’idea malsana
The Wall Street Journal pubblica un inedito di Christopher Hitchens (The True Spirit of Christmas), dal quale cavo questa perla: «One of my many reasons for not being a Christian is my objection to compulsory love. How much less appealing is the notion of obligatory generosity». Il segno del suo genio era in questa straordinaria capacità di andare al cuore dei problemi in modo semplice e diretto, servendosi di strumenti retorici ineccepibili sul piano logico: qui, esemplarmente, bastano «compulsory love» e «obligatory generosity» per cogliere, con una autofagia, il nucleo psicopatologico del cristianesimo e così rigettarne il messaggio. Non c’è alcun bisogno di argomenti filosofici o teologici: si rigetta l’idea malsana che l’amore possa essere oggetto di comandamento. Meglio dell’opera omnia di Friedrich Nietzsche, e in meno di due righe.
domenica 25 dicembre 2011
Un cane morto
Sul numero di la Lettura che ieri era in allegato al Corriere della Sera, in un piccolo box a pag.4, Corrado Ocone polemizza con Gilberto Corbellini, che “qualche settimana fa, su Il Sole-24 Ore attribuiva a Benedetto Croce una mentalità antiscientifica che a suo dire sarebbe all’origine di tanti nostri ritardi non solo culturali”. Ocone afferma che “Croce non era contro la scienza”, ma contro il positivismo, “cioè la pretesa di assolutizzare il metodo naturalistico”. Bene, bisogna cominciare col dire che a muovere l’accusa a Croce era Armando Massarenti, il cui articolo era in pagina accanto a quello di Corbellini, che neppure citava il filosofo neoidealista.
“Il 6 aprile 1911 – scriveva Massarenti – si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche. Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico. […] Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati”. Fu così che diventammo “un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome”. Io ritengo che questa lettura sia corretta e che basti aver letto Croce per averne conferma.
Per Croce, nella più stretta aderenza al principio idealista, per il quale ciò che è reale è già tutto a priori nella nostra mente, la conoscenza si esaurisce in intuizione e concetto. La scienza? Una pratica creativa, artistica, poetica: “Cosa c’è di strano nell’affermare che la scienza si fonda sopra elementi artistici, quando questi elementi sono stati identificati con le rappresentazioni del reale o del possibile? Non sono l’individuale reale, e quello immaginato o possibile, la materia dalla quale la scienza induce leggi e concetti?” (La storia considerata come scienza). Voilà, la scienza è degradata a trasfigurazione del reale, la cui conoscenza può essere affidata solo alla perfezione dello Spirito: gli strumenti coi quali la scienza affronta il reale non possono essere che “pseudo-concetti”, buoni tutt’al più per “chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni o almeno di indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e di richiamarle” (Logica come scienza del concetto puro).
Non è un caso che di Croce non vengano più ristampate le opere filosofiche: a rileggerle si sente puzza di cane morto. Fosse per quelle, Croce sarebbe stato già dimenticato da tempo: lo ritroveremmo solo in due righe, su qualche dizionario, come un neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa. A salvarlo dall’oblio è stato solo il suo tiepido antifascismo, qualche discorso in Parlamento, qualche pagina ben scritta sul Seicento, il catalogo degli aneddoti smerciato dalle figlie, le citazioni ormai stucchevoli che certi tromboni sfiatati si passano da ormai tre generazioni.
L’ho già scritto tre settimane fa: Benedetto Croce puzza. Quando ci libereremo dei suoi devoti, per fortuna tutti assai attempati e prossimi alla dipartita, potremo cominciare a dare una ripulitina a quel liberalismo, tutto sui generis, al quale legò il suo nome. Fino ad allora saremo costretti a sopportare come liberali, perché crociane, le vacue e pompose fole degli avanzi del neoidealismo patrio.
La mancia all’infermiera.
Nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby si è riparlato di testamento biologico. C’è chi ha ribadito che l’individuo ha il diritto di metter fine ai propri giorni quando la vita non gli sembri più degna di essere vissuta, di essere aiutato a farlo se non sia in grado di provvedere da solo, di poter disporre per tempo in tal senso; e c’è chi ha ribadito, al contrario, che la vita non appartiene a chi la vive e che dunque non se ne può disporre a proprio piacimento, men che meno chiedendo assistenza al suicidio, che è giusto rimanga reato, e grave. Posizioni diametralmente opposte che sembrerebbero non lasciar spazio ad altre, e dunque fatte apposta per spaccare in due il paese: da un lato, chi ritiene che ciascuno possa liberamente e responsabilmente decidere per sé in un modo, lasciando agli altri la possibilità di una diversa scelta, e, dall’altro, chi ritiene che davanti ad ogni scelta c’è sempre una sola decisione giusta e che quella deve essere imposta a tutti, ovviamente per il loro bene, che poi è sempre il bene comune. È evidente che dietro queste due posizioni ci siano due modi diversi di concepire l’uomo, anch’essi diametralmente opposti, irrimediabilmente destinati a confliggere, come infatti è accaduto sul caso Welby.
Conflitti del genere causano lacerazioni dolorose nel corpo di una società, ma pare siano inevitabili, anzi, pare che il progresso umano non possa farne a meno e che proprio nei suoi esiti trovi forza e vettore. A tentare di evitarli, d’altra parte, non si ottiene altro che dilazionarli, rendendone ancora più violento il corso, quando infine riaffiorano. Il divorzio ci offre un buon esempio, al riguardo. In Italia ci si arrivò con molto ritardo, nel tentativo di non spaccare in due il paese, eppure già da tempo si fronteggiavano due diversi modi di concepire la famiglia: da un lato, c’era chi riteneva che il bene comune riposasse sull’indissolubilità del matrimonio e, dall’altro, c’era chi aveva una diversa idea del bene comune, non incompatibile col bene di ciascuno. Chi era in favore del divorzio non voleva imporlo ad alcuno, chi era contrario voleva negarlo a tutti. Posizioni diametralmente opposte, irrimediabilmente destinate a confliggere, e tuttavia ci fu chi tentò di evitare il conflitto.
Intervistato da Oriana Fallaci nel 1974, Giorgio Amendola spiegò che il Pci avrebbe volentieri evitato quella “guerra interna”. Così anche Massimo D’Alema sul testamento biologico. Nel 2009, in un dibattito pubblico a Marina di Camerota, diceva: “Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione. La mia personale posizione è che in materie come il testamento biologico è meglio non fare nessuna legge”.
Ora, per amor del vero, bisogna dire che questa “terza posizione” ha una sua ragion d’essere. Puoi non amare più tua moglie, ma a che ti serve il divorzio? Puoi avere un’amante. Puoi anche avere dei figli da lei. Saranno “illegittimi” – o “bastardi”, come si diceva prima dell’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento e il conseguente adeguamento del diritto di famiglia – ma, via, la società resterà salda sul principio che il matrimonio è indissolubile. Idem col fine vita. Un cancro ti divora e la morfina ti fa l’effetto dell’acqua fresca? Un occhiolino al dottore compiacente, due soldi all’infermiera e il suicidio assistito è di fatto, ma sia saldo il principio che la vita è sacra e indisponibile. Il trionfo dell’ipocrisia, ma in nome di valori inestimabili. In più, ciascuno fa i cazzi propri e si evitano “guerre interne”. Basta che l’adulterio sia gestito in modo discreto, basta che del suicidio assistito non si sappia: in fondo, i paladini dei valori inestimabili si accontentano di poco, basta non scandalizzarli troppo. Guai, però, a pretendere che una legge consenta a ciascuno di vivere e morire nel rispetto dei propri valori: questo è lo scandalo più grosso, non lo tollerano.
“Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione” è posizione deboluccia che ha bisogno di un argomento nobile per reggere. Così, come per il divorzio nel Pci ci fu chi disse che si trattava di un “lusso borghese” e che la classe operaia non sapeva che farsene, nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby capita di leggere su l’Unità: “Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire”. Si potrebbe, chessò, far decidere alla persona cara e poi rispettare le sue decisioni, se davvero ci è cara. Troppo?
Non è questo, il problema: è che, “anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto”. Molto bello, ma si deve pur morire?
Macché. “Non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui”. E una legge sul testamento biologico non è rendere giustizia a chi vuol morire, e in modo degno? Forse, ma “un tratto che caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire”.
Ma se quelle esili spalle decidono di prendere su se stesse la libera e responsabile decisione di morire, sociologi e filosofi hanno qualcosa da ridire? Sì, pare l’abbiano: “Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori»”. Non è del tutto chiaro come questo debba convincerci che una legge sul testamento biologico sia inutile, ma la cosa non rimane senza sviluppo: “I due casi [Welby e Englaro] hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge. Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini…”.
Ok, c’è da mettere un puntello nobile alla soluzione ipocrita di D’Alema, ma qui si esagera. Parliamo del ddl Calabrò e, sì, nel caso diventasse legge, lo Stato sottrarrebbe al singolo uomo eccetera eccetera. Ma una legge che al singolo uomo concedesse il diritto di cimentarsi eccetera eccetera, in cosa sarebbe oppressiva? C’è una bella differenza, mi pare, tra una legge che sancisca l’indissolubilità del matrimonio ed una che consenta di scioglierlo: la prima è oppressiva, perché impedisce di divorziare a chi voglia, ma la seconda no, perché non costringe alcuno a divorziare, se non voglia.
Differenza che pare faccia difficoltà ad esser colta: una legge sul testamento biologico – fatta la voluta confusione: qualsiasi legge sul testamento biologico – è inutile, perché “l’umanità dell’uomo [è] garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge”. Da non credere. Una eventuale norma che riconosca all’individuo il diritto di autodeterminazione è “l’impero della legge”. “L’umanità dell’uomo”, invece, sta nella mancia all’infermiera.
sabato 24 dicembre 2011
[...]
Ho già detto dell’effetto deprimente che il Natale ha sul mio umore, qui aggiungerei soltanto che la mazzata definitiva me la dà ogni volta l’immancabile cuoricino zuccheroso che il 23 dicembre, canonico come uno zampirone a Ferragosto, rifrigge il solito «ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale, ci scommetto dal freddo che fa». Deve averci pensato almeno dal 21, deve aver smaniato tutto il 22, non vedeva l’ora che arrivasse il 23.
venerdì 23 dicembre 2011
A che serve l’art. 18
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori tutela solo i dipendenti di aziende che abbiano “più di quindici prestatori di lavoro”. In Italia sono meno del 20% del totale. Perché il restante 80% non meriti analoga tutela – sacra, a quanto si dice – bisognerebbe chiederlo a chi ha scritto quel testo, ma questo non ci è possibile: lo Statuto dei Lavoratori è vecchio più di quarant’anni e i suoi autori sono tutti passati a miglior vita. Possiamo solo fare delle ipotesi, che però parrebbero confortate da elementi di qualche peso (Gino Giugni, Lo Statuto dei Lavoratori: commento alla legge 20 maggio 1970, n.300, Giuffrè 1971).
Parrebbe che si sia voluto avere un occhio di riguardo per le aziende di piccole dimensioni, perché queste avrebbero potuto subire un serio danno nel sobbarcarsi gli oneri che l’art. 18 impone alle aziende di grandi dimensioni, e la ricaduta sarebbe andata in ogni caso a carico dei dipendenti, con la perdita del loro posto di lavoro in caso di fallimento dell’impresa. Questo parrebbe il motivo per cui l’obbligo di ritirare “il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo” e di “reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro” tocca solo “al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro”. Se così è, la tutela garantita a certi lavoratori, e ad altri no, troverebbe un compenso indiretto in favore questi ultimi proprio nell’occhio di riguardo che lo Statuto dei Lavoratori ha nei confronti dei loro datori di lavoro. A quest’occhio di riguardo per le aziende di piccole dimensioni si preferì sacrificare la formale parità di diritti tra lavoratore e lavoratore, ma in cambio di una parità sostanziale, che aveva sempre come fine ultimo la difesa degli interessi del lavoratore, ma ponendola in stretta correlazione alla posizione dell’impresa sul mercato: il posto di lavoro era difeso comunque, ma indirettamente, risparmiando l’azienda di piccole dimensioni dall’oneroso obbligo che l’art. 18 imponeva all’impresa con più di quindici dipendenti.
Un calcolo saggio, ma che in sé aveva desacralizzava il principio dell’inamovibilità del dipendente e così rendeva l’art. 18 attaccabile alla critica di chi oggi, e non da oggi, lo considera non adeguato a tempi in cui le grandi aziende corrono sul mercato gli stessi pericoli che una volta minacciavano solo le piccole aziende.
Delle due, una: o leviamo dall’art. 18 quella ingiusta discriminante tra imprese con più o meno di quindici dipendenti, che in ogni caso è da ritenersi inadeguata ai tempi, e proclamiamo sacra l’inamobilità del dipendente (toccherebbe ai sindacati, penso, raccogliere le firme per un referendum del genere, di segno esattamente opposto a quello che fu abortito nel 2003); oppure ci decidiamo una buona volta a prendere atto che l’art. 18 non serve a nulla.
“L’Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente” (Benedetto XVI, 22.12.2011)
Qualcuno, per piacere, ragguagli Zia Pina sulle condizioni in cui si trovava l’Europa quando il cristianesimo era al suo apice e le dica che inzuppare il suo biscotto nelle paure e nelle sofferenze dei poveri di spirito è da vera troia.
mercoledì 21 dicembre 2011
Le conseguenze dell’amore
“In quei momenti non hai molto tempo per riflettere,
prendi una decisione in una frazione di secondo,
e non stai a pensare che le conseguenze di quella scelta
te le porterai appresso tutta la vita. In casa scese il silenzio.
Dal pronto soccorso fu trasferito, intubato, in rianimazione.
Io andai in ospedale all’alba, non sapendo che cosa sperare.
Appena arrivata l’infermiera mi disse che Piero si era svegliato
e il mio primo pensiero fu: «Oddio, chissà adesso che cosa mi dirà.
Non ho rispettato il nostro patto, sarà arrabbiato»”
Mina Welby, MicroMega (II/2009)
“Per quello che riguarda il funerale religioso, Piero mi ha detto:
«Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare».
Quindi, anche per la famiglia, che sicuramente dà un valore
alla forma religiosa, vogliamo fare un funerale religioso”
Mina Welby, Conferenza stampa (22.12.2006)
Piergiorgio Welby fu tracheotomizzato, intubato e attaccato a una macchina in nome di quell’amore che vanta la pretesa di poter decidere per chi si ama, oltre la volontà di chi si ama o addirittura contro. Si spese per le conseguenze di questo amore, che in Italia inizia ad asfissiarti da neonato, quando ti battezzano profittando della tua incoscienza, e che non smette di asfissiarti dopo morto, quando decidono di farti un funerale religioso anche se non sei credente, dopo averti dolcemente estorto un matrimonio in chiesa, perché lei è cattolica e ci tiene tanto, o ci tengono tanto i tuoi, o i suoi, o entrambi. «Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare», tanto lo avete fatto anche quando ero vivo.
lunedì 19 dicembre 2011
Chinarsi dinanzi alla sentenza
Anche quando si tratta del massimo previsto dalla legge, la pena comminata per un omicidio – non ha importanza se doloso, colposo o preterintenzionale – è considerata quasi sempre troppo mite dai parenti delle vittime, e questo è naturale, tutt’al più può porsi la questione del perché la legge non riesca mai ad adeguare le sanzioni alle aspettative di chi chiede giustizia per la perdita di un padre, di un figlio, di un fratello. Sono esagerate queste aspettative o è il legislatore che non riesce mai a mettersi nei panni di chi ha subìto la perdita?
Forse la questione è posta male, lo dimostra il fatto che la pena – la stessa pena – è invece considerata quasi sempre troppo severa dai parenti di chi è condannato per quello stesso omicidio. Probabilmente al legislatore tocca rimanere nei propri panni, e in quelli decidere; al giudice, caso per caso, tocca stabilire quale sia la pena giusta tra il minimo e il massimo stabiliti dalla legge; ai parenti della vittima e a quelli dell’omicida tocca chinarsi dinanzi alla sentenza. Facile a dirsi, più difficile a ottenersi. Lo dimostra il caso che di recente ha visto per protagonista Giovanni Scattone, riconosciuto colpevole dell’omicidio di Marta Russo con una sentenza definitiva.
Non ha troppa importanza ricostruire nel dettaglio la vicenda e le tappe giudiziarie che hanno portato Scattone a scontare una pena di sei anni di detenzione per omicidio colposo (il massimo della pena per tale reato è di sette), basti dire che nessun pm si è mai azzardato a formulare un’ipotesi accusatoria più grave. Potremmo eventualmente aggiungere che, a detta di molti osservatori non a digiuno di materia penale, a carico dell’imputato fossero più gli indizi che le prove, e che Scattone si è sempre dichiarato innocente del reato chi cui era accusato e per il quale è stato poi condannato, ma si tratta di considerazioni tutto sommato irrilevanti: abbiamo il dovere di tener conto unicamente della verità processuale e di ritenerla coincidente con quella storica, prendere atto che Scattone è stato riconosciuto colpevole, ma anche di tener conto che ha scontato la pena ed è tornato un libero cittadino, nella pienezza dei suoi diritti.
Parimenti irrilevanti, dunque, dobbiamo ritenere le lamentele, anche abbastanza vivaci, che sono state prontamente raccolte e rilanciate dai media in seguito a un incarico di supplenza concesso a Scattone, oggi insegnante di scuola media superiore, presso il liceo frequentato a suo tempo da Marta Russo. Basti solo riportare le ragioni che le hanno sollevate, così come motivate dal rappresentante di un movimento giovanile di estrema destra che si è distinto tra i più attivi sostenitori della protesta: “Secondo noi lui ha diritto di lavorare perché comunque ha scontato la pena e ha pagato il suo debito con la giustizia, quello che troviamo aberrante è che venga proposto come modello di educatore una persona che ha sparato nel mucchio di alcuni studenti universitari per provare una pistola”. Posizione in tutto coincidente a quella di Tiziana Russo, sorella della vittima: “Ognuno ha diritto di ricostruirsi una vita, ma ritengo che un uomo che ha afferrato una pistola, ci ha giocato, l’ha puntata sul vialetto di un’università piena di gente e ha poi ucciso una studentessa non può insegnare a dei ragazzi. Può fare altri lavori, non il professore di un liceo”.
Se è irrilevante che Scattone si sia sempre dichiarato innocente e che l’accusa non abbia mai prodotto elementi di prova certa, sono irrilevanti anche queste proteste: se ci tocca accettare la sentenza e la verità che in essa è contenuta, ci tocca anche il rispetto del dispositivo che restituisce al condannato i suoi pieni diritti dopo che ha scontato la pena. Ovviamente non possiamo pretendere che Tiziana Russo taccia, ma, ad evitare che la sua protesta corra il rischio di essere fraintesa come un’odiosa pretesa di pena suppletiva, sarebbe più proficuo che ella si spendesse perché ciò che chiede diventi legge dello Stato in ogni caso analogo al suo. Non ci risulta che l’abbia mai fatto prima che a Scattone fosse dato l’incarico presso il liceo frequentato dalla sorella, epppure questi ha insegnato in almeno altri dieci istituti romani dopo essere uscito dal carcere.
venerdì 16 dicembre 2011
mercoledì 14 dicembre 2011
martedì 13 dicembre 2011
Volendo
«La literatura no habla de la realidad, habla de la
literatura: y no se puede fingir que esto no se sabe»
Due pagine dell’ultimo numero della Domenica de Il Sole-24 Ore sono dedicate alle confessioni di «scrittori, attori, politici [che] raccontano il gesto di cui più si vergognano, anche dopo molti anni», e che finiranno in un volume a cura di Augusto Bianchi Rizzi, edito da Tropea, dal titolo Il Bene e il Male, nel quale troveranno spazio anche gli «inconfessabili misfatti» dei lettori, invitati a partecipare.
Senza entrare nel merito dei contributi pubblicati dal giornale – dico solo che sembravano un campo di mammole – l’iniziativa mi pare balorda fin nella premessa, perché il misfatto davvero inconfessabile è appunto davvero inconfessabile: ciò che si confessa è per lo più la confettura letteraria dell’inconfessabile, per giunta questo accade solo quando ciò che si confessa abbia realmente attinenza al gesto del quale maggiormente ci si vergogna, perché spesso quello non è neanche sfiorato, se non è addirittura irrecuperabile, perché rimosso. Al contrario, ciò di cui più ci si vergogna può avere sì stretta attinenza al misfatto che si confessa, ma non esserne affatto la conseguenza… Ma forse sarà meglio che mi spieghi con un esempio.
Quando ho saputo che a *** restava poco da vivere perché un cancro gli aveva mangiato il fegato e disseminato metastasi dappertutto, non ho saputo fare a meno di telefonargli. Quando ha sentito la mia voce, ha detto: “Che piacere sentirti”. Io gli ho risposto: “A me, invece, fa piacere sapere che stai morendo, e fartelo sapere”, e ho riattaccato.
Non starò qui a spiegare perché lo odiassi tanto, mi pare irrilevante, siete autorizzati a immaginarvi quello che volete. Dico solo che il gesto di cui più mi vergogno non è quella telefonata, per la semplice ragione che in realtà non c’è mai stata: mi vergogno di aver desiderato farla, di non esserci riuscito, ma di averne spesso fatta una confessione, mentendo, quando c’era da confessare l’inconfessabile.
Siamo complicati, via, difficilmente siamo davvero cattivi. E non per bontà, ma proprio per mancanza di cattiveria. Volendo, possiamo vergognarci di questo.
Le pentite
La cronaca ci ha offerto di recente due storie che in apparenza avevano in comune il solo fatto che le protagoniste fossero ragazze minorenni. La prima, incinta, si è infine convinta fosse meglio abortire, ma solo dopo avere per un po’ insistito nel voler portare avanti la gravidanza contro il parere dei genitori, che la ritenevano immatura per diventare madre e si erano rivolti a un giudice per costringerla a piegarsi al loro consiglio, ignari che in casi come questi è indispensabile la volontà della gravida, anche se minore. La seconda, dopo aver perso la verginità, è stata presa dalla paura di doverne dar conto ai propri genitori, ai quali aveva promesso di mantenersi illibata fino all’altare, e ha pensato bene di inventarsi uno stupro di gruppo, per poi confessare di aver mentito, raccontando com’erano davvero andate le cose.
Da questa breve sintesi delle due vicende ho volutamente tenuto fuori l’elemento che pure si è voluto intravvedere come comune a entrambi i casi, e sul quale si è maggiormente discusso, e cioè quello della xenofobia: nel primo caso, infatti, la ragazza era rimasta incinta di un ragazzo albanese e si è detto che in realtà questa fosse la vera ragione che muoveva i suoi genitori a chiederle di abortire; nel secondo caso, invece, la ragazza ha mosso la falsa accusa di stupro ad alcuni esponenti di una comunità di nomadi, provocando come reazione di solidarietà in suo favore una spedizione punitiva al loro accampamento.
In entrambi i casi sembra aver vinto ancora una volta il pregiudizio xenofobico, ma non possiamo averne prova certa. Non sappiamo, infatti, se l’aborto ci sarebbe stato comunque, chiunque fosse stato a ingravidare la ragazza. Né sappiamo se una spedizione punitiva avrebbe comunque preso di mira la comunità di appartenenza dei presunti stupratori, indipendentemente dall’etnia. Direi che l’elemento xenofobico può aver avuto rilevanza, ma solo nel potenziarne un altro, che mi pare sia in entrambi i casi quello che ha dato impronta e senso agli eventi. Parlo del dovere che famiglia e società si danno nel decidere per il meglio della sessualità e della riproduttività di una donna, quando è minore, ma non solo, perché il corpo della donna non appartiene mai del tutto alla donna, ma è sempre, in qualche misura, un bene comune, alla difesa del quale è chiamato chiunque se ne dichiari responsabile, oltre ad esserlo, quando realmente lo è, per legge.
In entrambi i casi si trattava di ragazze minorenni, in entrambi i casi i genitori avevano pieno diritto di dirsi responsabili delle figlie, in entrambi i casi la loro responsabilità prendeva diritto sul loro futuro di donne maggiorenni, in entrambi i casi le figlie hanno dapprima rifiutato e poi accettato quanto era stato deciso per loro. Piegandosi ad abortire, nel primo caso, e cercando di negare la propria responsabilità nella decisione di perdere la verginità, nel secondo, siamo dinanzi alla stessa resipiscenza: siamo dinanzi a due donne che, sebbene minorenni, potevano rivendicare il diritto di autodeterminazione, ma si sono limitate a rifiutare il ruolo che per loro era stato deciso come migliore, per poi farlo proprio. Per entrambe è possibile pentirsi anche di questo, ancora una volta. L’unica cosa che non è mai negata a una donna è il pentimento.
lunedì 12 dicembre 2011
[...]
Dopo il forte richiamo di Benedetto XVI ad una “economia solidale”, oggi, già immagino la folla di quanti si recheranno allo Ior, domani, per chiedere il mutuo che è stato negato loro da tante altre banche. Ci vorranno le guardie svizzere per evitare la calca.
Disse la vacca al mulo
«Cacciato con l’editto di Sofia, “Il Fatto” di Enzo Biagi venne sostituito con una striscia satirica a cura di Massimo Lopez e Tullio Solenghi, si chiamava “Max & Tux”. I due andarono in onda per 38 puntate nel 2002, poi furono chiusi per ascolti indecenti: media del 20,6 per cento di share e 5,676 milioni di telespettatori. Vediamo il confronto impietoso con Ferrara. Il direttore del Foglio ha chiuso le prime 46 puntate fra marzo e maggio con il 18,21% di share e 4,714 milioni di telespettatori, adesso registra una media del 15,45% di share e 4 milioni di telespettatori. Facciamo una piccola sottrazione, ed ecco che si scopre il fallimento: “Qui Radio Londra” va peggio di “Max & Tux” di 5 punti di share e segna -1,6 milioni di italiani»
Il Fatto Quotidiano, 8.10.2011
«Ho saputo che Santoro è passato dal 12 al 5 per cento degli ascolti, che è sempre un risultato di spicco in un sistema di trasmissione alternativo, ma insomma siamo in discesa»
Il Foglio, 12.12.2011
C’è modo e modo di mistificare
C’è modo e modo di mistificare, qualcuno è addirittura affascinante, ma ce n’è uno che è particolarmente squallido, ed è quello che ci è offerto in esempio da Marina Valensise (Il Foglio, 10.12.2011) e da Alessandro Zaccuri (Avvenire, 11.12.2011), riguardo Jacques Lacan.
«Era ateo – scrisse Élisabeth Roudinesco nella sua biografia, pubblicata in Francia nel 1993 da Libraire Arthème Fayard e in Italia nel 1995 da Raffaello Cortina Editore – anche se, per spacconeria, un giorno aveva sognato un funerale cattolico in grande stile» (pagg. 437-438). L’affermazione non fu contestata dalla figlia dello psicoanalista, che pure avrebbe potuto risentirsene perché si dava dello spaccone al padre e che invece oggi ne contesta un’altra della stessa Roudinesco, contenuta in un suo volume di recente pubblicazione: «Sebbene avesse espresso il desiderio di finire i suoi giorni in Italia, a Roma o a Venezia, e avesse auspicato dei funerali cattolici, Lacan fu sepolto senza cerimonia e nell’intimità al cimitero di Guitrancourt» (Lacan, envers et contre tout – Editions du Soleil, 2011). «Papà – dice Judith Lacan – è stato sepolto secondo le sue volontà», e porta la Roudinesco in tribunale.
Che Lacan non fosse credente è fuori discussione per la figlia e per la biografa, che concordano sul fatto che l’interesse occasionalmente mostrato dallo psicoanalista per i topoi della tradizione cristiana fosse di là da ogni approccio fideistico, più o meno analogo a quello mostrato da Carl Gustav Jung per quelli della mitologia pagana: la questione sta tutta nel capire se le volontà di Lacan siano state rispettate o meno, se Lacan sia stato sepolto dove desiderava.
«Mio padre – dice Judith Lacan – aveva perso la fede a diciassette anni e non ha mai cambiato atteggiamento». Dal canto suo, la Roudinesco dice che, a trent’anni dalla sua morte, quella di Lacan è da considerare come «une aventure intellectuelle qui tint une place importante dans notre modernité, et dont l’héritage reste fécond quoi qu’on en dise : liberté de parole et de moeurs, essor de toutes les émancipations - les femmes, les minorités, les homosexuels -, espoir de changer la vie, la famille, la folie, l’école, le désir, refus de la norme, plaisir de la transgression. Suscitant la jalousie des clercs qui ne cessent de l’insulter, Lacan se situa pourtant à contre-courant de ces espérances, tel un libertin lucide et désabusé».
Stanti così le cose, che senso ha riprendere il contenzioso sorto tra Judith Lacan ed Élisabeth Roudinesco per scrivere: «Altro che primato della psicoanalisi: il guru francese dell’inconscio rivalutò Cristo e l’incarnazione», e sotto un titolo che recita: «La religione di Lacan» (Marina Valensise)? Che senso ha scrivere che «in Francia fa discutere la possibile conversione del pensatore dei Seminari» sicché «temi come l’“Altro” e il “reale” assumono nuova consistenza teologica» (Alessandro Zaccuri)? In un così sfacciato esercizio di stravolgimento dei fatti non è riconoscibile altro movente che la mistificazione, per l’ennesimo tentativo di conversione post mortem. Ho detto squallido, ma mi correggo: direi schifoso.
domenica 11 dicembre 2011
Un tecnodemocristiano
“Peggio di Berlusconi, nessuno? Peggio del berlusconismo, niente? Posso essere d’accordo – dicevo – però abbiate il senso delle proporzioni e non cadete nell’errore di pensare che Monti sia migliore di quello che è”. Lo dicevo il 21 novembre, quando non erano ancora noti i punti della finanziaria di questo governo cosiddetto tecnico, voluto da quasi tutti, da quasi tutti salutato come la migliore soluzione per uscire dal marasma, non importa se un pochino di qua o un pochino di là dal dettato costituzionale. In fondo, Monti tornava comodo pure a Bossi e a Di Pietro.
Un figlio nato da pochi giorni mi sollevava dall’onere dell’interminabile pippone nel quale solitamente mi attorciglio quando devo argomentare una tesi impopolare, e in quel momento – sembra una vita fa, ma sono passate solo due o tre settimane – Monti sembrava un eroe venuto a liberarci da una odiosa dittatura: sollevare dubbi sulla sua persona, e dunque su quanto era ragionevole aspettarsi da un governo a sua guida, sarebbe stato imperdonabile.
È che a me Monti non è mai piaciuto, diffido delle larghissime intese necessitate da pulsioni emergenziali, sono contrario per principio ai governi cosiddetti tecnici e mi era bastato un niente – Ornaghi e Riccardi nella lista dei ministri – per convincermi che il rimedio trovato all’interminabile agonia della XVI legislatura fosse nient’altro che il tenerla in vita artificialmente, per fare una riforma delle pensioni che il governo Berlusconi non avrebbe mai potuto fare per il veto della Lega, né avrebbe mai potuto fare un governo della XVII legislatura, se di centrosinistra, salvo rimangiarsi le promesse agli elettori o l’istantanea perdita di pezzi della Santa Alleanza antiberlusconiana.
Quello che ci chiedeva l’Europa era ragionevole: adeguare il sistema pensionistico alla aumentata aspettativa di vita media. E tuttavia non bastava una riforma delle pensioni, perché solo il 25% del deficit è imputabile a quelle. Si doveva mirare sul serio al pareggio di bilancio, ridurre la spesa nel pubblico, privatizzare il possibile, liberalizzare le professioni. E poi c’era da stimolare la famosa crescita, e poi tutto doveva essere fatto in nome della famosa equità.
Non poteva farlo alcun governo politico, né di centrodestra, né di centrosinistra, perché alla politica italiana, in ormai cronica crisi di leadership, da tempo non restava che la followship di questo o quel pezzo di società italiana. Strategie alla giornata per tutti, navigazione a vista nella nebbia di previsioni tutte fosche, una bussola ormai impazzita per i troppi fulmini caduti sull’Europa, impossibile toccare i privilegi dei notai o dei tassisti, dei preti e dei deputati. Ci voleva un governo cosiddetto tecnico, ma per constatare che non ne era capace. Non era un eroe, il Monti, era un tecnodemocristiano.
Un figlio nato da pochi giorni mi sollevava dall’onere dell’interminabile pippone nel quale solitamente mi attorciglio quando devo argomentare una tesi impopolare, e in quel momento – sembra una vita fa, ma sono passate solo due o tre settimane – Monti sembrava un eroe venuto a liberarci da una odiosa dittatura: sollevare dubbi sulla sua persona, e dunque su quanto era ragionevole aspettarsi da un governo a sua guida, sarebbe stato imperdonabile.
È che a me Monti non è mai piaciuto, diffido delle larghissime intese necessitate da pulsioni emergenziali, sono contrario per principio ai governi cosiddetti tecnici e mi era bastato un niente – Ornaghi e Riccardi nella lista dei ministri – per convincermi che il rimedio trovato all’interminabile agonia della XVI legislatura fosse nient’altro che il tenerla in vita artificialmente, per fare una riforma delle pensioni che il governo Berlusconi non avrebbe mai potuto fare per il veto della Lega, né avrebbe mai potuto fare un governo della XVII legislatura, se di centrosinistra, salvo rimangiarsi le promesse agli elettori o l’istantanea perdita di pezzi della Santa Alleanza antiberlusconiana.
Quello che ci chiedeva l’Europa era ragionevole: adeguare il sistema pensionistico alla aumentata aspettativa di vita media. E tuttavia non bastava una riforma delle pensioni, perché solo il 25% del deficit è imputabile a quelle. Si doveva mirare sul serio al pareggio di bilancio, ridurre la spesa nel pubblico, privatizzare il possibile, liberalizzare le professioni. E poi c’era da stimolare la famosa crescita, e poi tutto doveva essere fatto in nome della famosa equità.
Non poteva farlo alcun governo politico, né di centrodestra, né di centrosinistra, perché alla politica italiana, in ormai cronica crisi di leadership, da tempo non restava che la followship di questo o quel pezzo di società italiana. Strategie alla giornata per tutti, navigazione a vista nella nebbia di previsioni tutte fosche, una bussola ormai impazzita per i troppi fulmini caduti sull’Europa, impossibile toccare i privilegi dei notai o dei tassisti, dei preti e dei deputati. Ci voleva un governo cosiddetto tecnico, ma per constatare che non ne era capace. Non era un eroe, il Monti, era un tecnodemocristiano.
sabato 10 dicembre 2011
giovedì 8 dicembre 2011
E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi
A un’Italia che è soffocata dal debito pubblico, stremata dalla crisi economica, dissanguata dai tagli alla spesa sociale, massacrata dalle tasse, la Chiesa costa più di 6 miliardi di euro ogni anno, anzi, secondo l’analisi più accurata, dettagliata e aggiornata che abbiamo a disposizione (qui), ne costa 6.086.565.703. Roba che va ai poveri, si dice, ma basta scorrere le voci di entrata per capire che non è così: ai poveri va solo il 20% dell’8xmille (la Cei rendeva noto qualche mese fa che, dei 1.067.032.535 euro incassati nel 2010, 450.000.000 erano destinati alle esigenze di culto, 357.000.000 al sostentamento del clero, 30.000 venivano accantonati e solo 230.000.000 spesi in “interventi caritativi”), in pratica meno del 4% degli oltre 6 miliardi complessivi, due soldi spesi per riempire un pentolone di minestra dal quale la Chiesa versa due mestoli di carità, pretendendo che le valgano una buona reputazione. Checché Mario Tarquini starnazzi e ristarnazzi dalla prima pagina di Avvenire, questo è il “non profit” al quale lo Stato dovrebbe un occhio di riguardo. Può risparmiarsi tutto quel “qua-qua”, questo governo non toglierà un centesimo alla Chiesa. E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi, perché non è possibile provare che, se non avessero leccato il culo ai preti per una vita intera, Ornaghi e Riccardi non sarebbero ministri.
mercoledì 7 dicembre 2011
Eppure un crocifisso
Un’idea del perché non manchi mai un crocifisso nel covo di un boss, io ce l’ho, ma quale sia non ha importanza, rinuncio a esprimerla, anzi, vorrei far mia la spiegazione, anche la meno convincente, di un chierico autorevole, un Fisichella o un Ravasi, oppure, in loro vece, di un vibratile Rondoni, di un ardente Socci, di un sottilissimo Pera, uno di quelli, insomma, che a un crocifisso appeso su un muro sono sempre capaci di dare il giusto significato, quasi sempre con grande generosità di aggettivi e avverbi. Il fatto è che, in occasioni come queste, non vola mai una mosca. Eppure un crocifisso sempre un crocifisso è, o no?
Carissimo
Quando non è pagato in nero (solitamente nella misura del 30-50%, come emerge dai casi che arrivano all’attenzione della Guardia di Finanza), in Italia il costo del fitto di un immobile ad uso abitativo è in media più alto che nel resto d’Europa di un 15-25%. Sarà che, a parità di categoria, le case italiane sono tutte più belle di quelle europee o che in Italia il mercato delle case in affitto è drogato, ma 50 metri quadrati al centro di Roma, di Venezia o di Milano costano al mese almeno il doppio di quanto costano al centro di Berlino, di Amsterdam o Madrid, il 60-80% in più di quanto costano al centro di Parigi, il 15-30% in più di quanto costano nei migliori quartieri di Londra, e la proporzione si mantiene tale anche quando l’immobile non è ubicato in zone centrali, ma in centri con più bassa densità abitativa o in provincia. Fitti più alti che in Italia li troviamo solo fuori dalla Comunità europea (Tokio, Singapore, Montecarlo, ecc.).
La ragione sta nel fatto che l’edilizia pubblica non ha mai avuto in Italia uno sviluppo analogo a quelli di altri paesi europei, dove gli immobili di proprietà pubblica dati in affitto a privati sono il doppio (Olanda e Francia) o addirittura il triplo (Germania e Spagna) di quel 18,9% che in Italia abbiamo sul totale. Il 74% degli italiani vive in case di proprietà e ogni 100 nuclei familiari abbiamo 136 case. La corsa alla casa di proprietà è stata, insieme, causa ed effetto delle scarse energie impegnate nell’edilizia pubblica rispetto agli paesi europei, da sempre, fino al sostanziale disimpegno, dagli anni ’80 ad oggi. D’altro canto, col vertiginoso aumento del prezzo di un affitto, diventava conveniente l’acquisto di una casa con l’accensione di un mutuo: quante volte abbiamo sentito dire “con quello che pago di affitto accendo un mutuo e almeno mi ritrovo una casa di proprietà”? Calcolo ragionevole, se non fosse che la rata mensile di un mutuo è in media del 30-80% più alta del costo dell’affitto di un immobile di pari qualità, e impegna per alcuni decenni.
Non è iniziato negli ultimi decenni, ma col fascismo. Già nell’Italia post-giolittiana si era avuto un decisivo indebolimento del credito fondiario in favore del credito immobiliare urbano, grazie alla massiccio inurbamento avutosi dopo la Prima guerra mondiale. Da gran calmieratore delle tensioni che sarebbero state inevitabili nello snodarsi di tale processo, il fascismo si fece attivo propugnatore dell’ideale di una casa di proprietà come bene vitale per la famiglia, oltre che di enorme vantaggio per la società come garanzia di stabilità dei modelli di relazione: le sanguinose lotte popolari per la casa diventarono presto un ricordo del passato creando un circolo virtuoso tra impresa edile, banca e privato, col passaggio dall’affitto alla vendita tramite mutuo. È il modello che sarà adottato in pieno nel secondo dopoguerra, con l’azione dei governi a guida democristiana che sosterranno il blocco di potere bancario-assicurativo e immobiliare-edilizio per costruire l’archetipo del cittadino ed elettore proprietario della casa in cui vive, come più solida garanzia di uno stabile assetto culturale e politico attorno ai valori della conservazione. La casa di proprietà diventava possibile, ma al costo di un adeguamento all’unico standard di vita che la rendeva tale e che imponeva pure un certo modo di concepire la famiglia e le relazioni tra generazioni, il lavoro e il profitto, il credito e il debito. In altri termini, la casa diventava un bene accessibile praticamente a tutti, ma a patto di starci dentro da fedeli esecutori di un mandato culturale e politico.
La casa di proprietà, che prima del fascismo era prerogativa dell’11% degli italiani, lo divenne nella misura del 26% del 1938, del 40% del 1960, del 50% del 1970, fino all’odierno 74%. Quando Silvio Berlusconi vantava la solidità del nostro sistema citando appunto questo famoso 74% di possessori di case, dimenticava di dire che oltre il 90% di essi ha più di 50 anni, che in oltre il 20% dei casi si tratta di abitazioni sulle quali è ancora acceso un mutuo, che più del 65% dei casi si tratta di abitazioni più vecchie di 40 anni. Un valore complessivo che per il solo settore residenziale ammonta al 400% del Pil, ma che per un quarto è in mano al solo 10% dei proprietari. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di abitazioni dal valore sovrastimato per un mercato che da tempo ha perso ogni regola, basti pensare al fatto la grandezza media di una casa è di 62 metri quadrati (52 in città, poco meno di 80 fuori dalle aree urbane a più alta densità), con un prezzo medio di oltre 180.000 euro. Difficile dire di cosa sia ricco, in media, chi abita una casa di proprietà rispetto a chi potrebbe abitarne una in affitto, se la corsa alla casa di proprietà non avesse fatto impazzire anche il mercato dei fitti. Di certo c’è solo che la rincorsa al modello della casa di proprietà ha portato una gran parte degli italiani alla dipendenza dal blocco di potere bancario, con quanto ne deriva sul piano del condizionamento della vita economica, sociale e politica. Né si può dire che tale modello sia mai stato in grado di metterci al riparo dalle emergenze in ambito abitativo, soprattutto da quando l’opzione del tasso variabile ha cominciato a illudere i più sprovveduti. “Con quello che pago di mutuo e di tasse sul possesso non mi converrebbe abitare in affitto?”: non lo sentiamo dire, perché la casa di proprietà è diventata un bene che va al di là del suo valore, ma soprattutto perché i fitti rimangono alti ed è difficile possano scendere. E tuttavia, facendo uno sforzo per liberarci dal luogo comune che traslocare è un po’ morire, sarebbe poi tanto più povera un’Italia nella quale i possessori di case fossero solo il 55% come in Germania o il 40% come nel Regno Unito? Lasciate stare, non provate a liberarvi del luogo comune: continuate a fare una vita di stenti per poter avere 50 metri quadrati tutti vostri. Ma non lamentatevi se chi fa una manovra finanziaria basata più sulla tassazione che sui tagli debba giocoforza reintrodurre l’Ici sulla prima casa: volevate una patrimoniale, era indispensabile, e questa è una patrimoniale. D’altra parte, lo sappiamo, detassare la prima casa era cosa possibile solo nel lucido delirio di un demagogo.
L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, infatti, è il più illuminante esempio di cosa sia stato il populismo berlusconiano, perché ne condensa i fini e i mezzi meglio di ogni altra sua espressione. Con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, Silvio Berlusconi è arrivato alla pancia di quel 74% di italiani che vivono in una casa di proprietà, per dir loro che quel bene diventava formalmente intangibile, inviolabile, sacro, sicuro di trovare pieno consenso, anche quando non dichiarato: un’operazione della quale ha scaricato gli oneri sui Comuni e quindi sugli stessi contribuenti che sulla carta venivano a godere della detassazione, ma incassando almeno sul piano umorale, che non è mai poco, un credito di riconoscenza trasversale e di notevole ampiezza, ben oltre ogni calcolo di convenienza reale. Quanto agli italiani veniva risparmiato con l’abolizione dell’Ici veniva tolto loro in altro modo, questo era evidente a tutti, ma l’esattore non era più lo Stato, che da sempre in Italia, e quasi mai a torto, è considerato un mostro odioso. Ciò che più conta, inoltre, veniva detassato almeno formalmente il simbolo vivo della fatica del lavoro e degli affetti della famiglia, cifra esistenziale ancor prima che economica. In ciò, con mirabile circolarità di coincidenze, il berlusconismo ha dato il tocco finale a quanto aveva avuto avvio col fascismo, ma con una parodia di liberismo, e soprattutto con un occhio di riguardo a uno dei luoghi comuni più cari agli italiani. Carissimo in tutti in sensi.
lunedì 5 dicembre 2011
Stasera, che sera
Stasera, che sera. Fiorello, Benigni e Baudo, e tutti insieme. Fremo nell’attesa, chissà cosa combineranno. Fiorello e Benigni strizzeranno una palla di Baudo cadauno o sarà Baudo che strizzerà le palle a entrambi?
domenica 4 dicembre 2011
Benedetto Croce puzza
Mi arriva una lunga lettera (11.093 battute) da un tale che mi dà il permesso di citarne i passi ch’io possa ritenere utile riportare nella risposta, alla quale pare non aver dubbio io sia tenuto, d’ufficio, e che mi dice di preferire sia pubblica, pregandomi però di non rivelare il suo nome, senza darmene esplicita ragione, ma dandola per scontata, e per giunta valida. Dinanzi a una richiesta del genere sarei tentato di cestinare la lettera senza nemmeno due righe di risposta in privato, sennò con un brusco diniego, tanto più che l’argomento sul quale mi si invita alla riflessione è noiosissimo, ma si tratta – questo mi piglio il diritto di rivelarlo perché non me ne è fatto chiaro divieto – di un militante radicale, e la lettera riapre, da un verso che non era mai stato sollevato, una questione che ritenevo chiusa. In breve – con ciò sintetizzando in poche righe più dei due terzi di ciò che *** mi scrive – i motivi che mi avrebbero portato all’abbandono della setta pannelliana sarebbero, tutti in uno, nel fatto ch’io non sarei un liberale comme il faut: in altri termini, non sarei un buon crociano. Se non fosse traballante nella premessa – che cioè crociano e liberale siano concetti perfettamente sovrapponibili – la tesi avrebbe un certo interesse, perché il liberalismo della setta pannelliana deve senza dubbio molto a Benedetto Croce. Più a Benedetto Croce che qualsiasi altro pensatore che a torto o a ragione sia considerato liberale. Più a Benedetto Croce, per esempio, che a Luigi Einaudi. Il fatto è ch’io non ritengo Benedetto Croce un liberale, ma un neo-idealista, e che con lui venga fatto lo stesso errore che vien fatto con Jean-Jacques Rousseau, quando vien detto illuminista invece che pre-romantico, o con Karl Marx, che passa per marxista e invece era marxiano.
So bene, caro ***, che l’affermazione ti suonerà stridula, ma il fatto che Benedetto Croce sia definito liberale in ogni garzantina e in ogni bignamino sarà prova del fatto che fondò il Partito Liberale Italiano, e su questo non ci piove, non già che il suo pensiero possa dirsi liberale. Non propriamente, almeno. Per dirla in due parole, direi che Benedetto Croce è più hegeliano che kantiano. Ma direi anche di più: molte posizioni politiche del nostro furono compatibili con quelle di altri liberali italiani, ma rimangono espressione di quei limiti che il liberalismo italiano ha mostrato verso la storia e che ne hanno decretato il fallimento. Potrei essere ancora più rozzo: Benedetto Croce è uno dei responsabili del fallimento del liberalismo in Italia, insieme ai tanti liberali che come lui hanno tradito la lezione del liberalismo di scuola anglosassone, mettendo la persona al posto dell’individuo e sporcando di metafisica il concetto di libertà. Ancora più rozzamente, quasi bestialmente: io non ritengo possibile dare la qualifica di liberale a chi non abbia l’immanentismo per Stella Polare.
Sì, caro ***, Benedetto Croce è un idealista e la mia critica al suo pensiero risente pesantemente di quella che gli venne da Antonio Gramsci, lo riconosco. Ora, sì, l’idealismo dichiara l’uomo creatore della propria storia, ma rinchiude le sue potenzialità nell’ambito del pensiero, sicché a fare la storia non è lui, ma qualcosa che sopra di lui: Io trascendente, Idea, Ragione, Natura, tutta roba con la maiuscola. La libertà dell’idealista è teoretica e costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, che insieme all’intuizione sarebbe espressione di uno Spirito. Un’altra maiuscola, un’altra scoreggia metafisica.
Benedetto Croce è il filosofo di una borghesia che ormai non ha più niente da dire e che soprattutto non sa trovare nessuna risposta credibile al proletariato. Io ritengo che non sia un caso che il nostro diventi schietto antifascista solo dopo il 1924 e che prima, come tanti, abbia pensato che il fascismo fosse buono almeno a mettere un argine al pericolo rosso. Come i preti, che però lo pensarono almeno fino al 1938. Poi ci sarebbe il fatto che nel 1946 il nostro votò per la monarchia… ma sono già pentito di essermi spinto fin qui e chiudo dicendo che Benedetto Croce puzza.
venerdì 2 dicembre 2011
Eminenza, io tifo per lei
Una volta scrive che l’ha presa “da uno dei racconti del suo libro La caduta” (Avvenire, 29.8.2002) e un’altra che l’ha “tratta dal romanzo La caduta” (Parola & parole, 2.12.2011). Passi che La caduta non sia né una raccolta di racconti, né un romanzo, ma Sua Eminenza ha poi letto il récit di Albert Camus? E come l’ha letto? La citazione che piglia a occasione per le sue due riflessioni sul martirio, che poi sono l’una la scopiazzatura dell’altra, è riportata in entrambi i casi come segue: “Martiri, amici miei, dovete scegliere fra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto a essere capiti: questo mai”. Il fatto è Albert Camus scrive:
“Mariti”, non “martiri”: lei cita a cazzo di cane, Eminenza. Dovesse diventare papa, c’è da divertirsi. Io tifo per lei.
[...]
Chiedo scusa, Eminenza, ho dato affidamento a una versione infedele (Bompiani, 2000), stavolta ha ragione lei: “ Les martyrs, cher ami, doivent choisir d’être oubliés, raillés ou utilisés. Quant à être compris, jamais”.
[...]
Chiedo scusa, Eminenza, ho dato affidamento a una versione infedele (Bompiani, 2000), stavolta ha ragione lei: “ Les martyrs, cher ami, doivent choisir d’être oubliés, raillés ou utilisés. Quant à être compris, jamais”.
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