lunedì 2 settembre 2013

Caro Alessandro


Caro Alessandro, tu scrivi: «Se verranno raccolte le firme necessarie, gli italiani potranno dire la loro su dodici questioni importantissime che riguardano i diritti civili e il funzionamento della giustizia in Italia, il che sarebbe un bene per i cittadini». È vero, ma «la loro», siamo onesti, non conta un cazzo. Lo dimostra il fatto che tra i dodici quesiti referendari per i quali voi radicali andate raccogliendo le firme ce ne sono alcuni sui quali gli italiani si sono già espressi, e proprio nel modo in cui vi auguravate, ma invano: nel 1987, per esempio, votarono in favore della responsabilità civile dei magistrati, e nel 1993 per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e per l’abrogazione della detenzione per uso personale di droghe leggere. D’altronde, votarono pure in favore della riduzione dei voti di preferenza, da tre a uno, nelle elezioni per la Camera, nel 1991, ma il Mattarellum, prima, e il Porcellum, dopo, assecondarono la loro voglia di uninominale secca? Nel 1993 dissero no al controllo dei partiti sulle nomine ai vertici delle banche pubbliche, e nel 1995 si espressero in favore della privatizzazione della Rai e per l’abrogazione della norma che impone ai lavoratori la contribuzione sindacale automatica, ma il loro volere fu rispettato? E allora, gentilmente, in cosa consisterebbe questo «bene per i cittadini»? Di fatto sta nell’illuderli, e le illusioni saranno pure un balsamo per gli idealisti, ma sono pure la materia viva della demagogia.
Scrivi, poi: «Se verranno raccolte le firme necessarie, il Pd sarà finalmente costretto a pronunciarsi su quelle questioni, cosa che finora ha accuratamente evitato di fare: il che sarebbe un bene per i cittadini e per il Pd». Analogo ragionamento per il M5S: «Se verranno raccolte le firme necessarie – scrivi – anche il M5S dovrà dire come la pensa, specie su quei quesiti che sono da sempre i suoi “cavalli di battaglia” (leggasi, ad esempio, il finanziamento pubblico ai partiti), facendoci capire una volta per tutte se le questioni gli interessano in quanto tali o solo quando le promuove lui: il che sarebbe un bene per i cittadini e per il M5S». Argomento ben costruito sul piano del piatto politicismo, dunque ottimamente spendibile da chi si ponga l’obiettivo di far esplodere le contraddizioni interne al Pd o di portare a lisi le ambiguità del M5S, ma del tutto inservibile per perorare la buona causa del referendum come momento della verità democratica. Perché voleva essere questo lo scopo del tuo post, vero? Bene, se è così, si tratta di un argomento inservibile perché viziato da almeno due fallacie retoriche, quelle che i logici di scuola anglosassone chiamano «guilt by association» e «two wrongs make a right»: nel primo caso, si rigetta un’affermazione come falsa semplicemente perché persone a noi sgradite l’accettano come vera, senza alcuna dimostrazione della falsità dell’affermazione; nel secondo, si cerca di dimostrare legittima l’azione che Tizio compie (o tenta di compiere) ai danni di Caio dando per assodato che Caio la commetterebbe senza meno ai danni di Tizio se questi non la evitasse commettendola per primo, stornando così la questione se l’azione sia in sé stessa legittima o meno. Non a caso, infatti, poni la questione per il Pd e il M5S, che sembrano non avere alcuna intenzione di appoggiare i referendum, ma non la poni per il Pdl, che pur tardivamente – chissà perché – ha deciso di appoggiarli. Ora, sul piano del piatto politicismo, non è difficile spiegarsi perché il Pdl abbia deciso di appoggiarli e perché il Pd e il M5S desistano. In un certo qual modo, sono proprio le due fallacie retoriche nelle quali sei incappato (do per scontato che tu non vi sia ricorso deliberatamente) a darne la più congrua spiegazione. Per semplificare dirò che si tratta delle stesse ragioni che portarono il Pdl a negare l’appoggio alla raccolta delle firme per i referendum sulla fecondazione assistita del 2005 e a concorrere al mancato raggiungimento del quorum invitando all’astensione: non conveniva (c’era il rischio di creare spaccature nell’elettorato del centrodestra e di guastare i rapporti con la Cei e la Santa Sede).
C’è da ritenere che Silvio Berlusconi abbia di botto trovato in sé un istintivo tavolinaro, dopo aver sempre snobbato e qualche volta boicottato tutti i referendum che gli passavano sotto il naso, tranne ovviamente i tre che nel 1995 misero in discussione il possesso di tre reti televisive, il tetto massimo di raccolta pubblicitaria delle televisioni private e la riduzione degli spot in un film? Può darsi. Può darsi che Marco Pannella l’abbia convertito e l’abbia fatto diventare un vero liberale. Sembrava che l’avesse convertito già nel 1994, ma i segni della conversione furono un pochetto deludenti. Così, quando scrivi che «la firma di Berlusconi, e il conseguente impegno nella raccolta delle firme da parte del Pdl, potrebbe fare in modo che l’obiettivo dei referendum venga raggiunto, e comunque potrebbe innescare il dibattito di cui sopra anche prima di quel momento», e aggiungi che anche questo «sarebbe un bene per il paese», a me viene spontaneo domandarmi, scusa, se ci fai o ci sei. L’operazione Berlusconi-Pannella, infatti, è stata tenuta a battesimo da Il Foglio, che in quanto a qualità del dibattito non offre alcuna garanzia.
Qui, caro Alessandro, non è discussione la buona o la cattiva fede di chi vuol dibattere sui temi proposti dai radicali, ma la natura tutta strumentale della discussione. Superfluo aggiungere che, da insuperabile opportunista, Pannella si presti alla manovra per uscire dal vicolo cieco in cui si era andato a ficcare, e già mostra come un trofeo il consenso ad un’amnistia che vanta di aver ottenuto da un Berlusconi condannato in via definitiva, come se avesse strappato le corna al toro. Anche qui scopriamo un Berlusconi che di colpo è sensibile al sovraffollamento delle patrie galere, che ha riempito lui, con leggi come la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, che neppure pare aver intenzione di rinnegare. Però dice che un’amnistia non gli dispiacerebbe. E grazie al cazzo. Sicché, caro Alessandro, quando scrivi che «chi afferma che Berlusconi ha firmato i referendum per salvarsi dalle condanne dovrebbe spiegare con una certa precisione quale dei dodici quesiti radicali è tale da garantirgli questo risultato, il che sarebbe un’impresa complicata, visto che quel quesito non esiste», mi cadono le braccia.
Fino a quando Berlusconi ha potuto, si è confezionato leggi che gli stavano a pennello, e dalle condanne si salvava depenalizzando il reato. Ora non può più farlo ed è costretto a fare quel che può: mettere in discussione la costituzionalità di una norma che ha votato pure lui, come la legge Severino, e tentare la destabilizzazione del quadro politico cercando di rimanere attore in scena, possibilmente nel ruolo di ricattatore, sennò di avvelenatore di pozzi. I referendum gli servono a questo, e chi gli ha consigliato di appoggiarli ha dovuto pure fare una certa fatica a fargli capire come potevano tornargli utili: «La forza di Berlusconi – dice Ferrara – è nel fatto che un conservatorismo divenuto liberalismo di massa può esprimersi nei termini di un radicalismo assoluto» (Il Foglio, 2.9.2013). Non farti intimorire dai paroloni: dice che servendosi anche stavolta di Pannella, come nel 1994, può fottere qualche cretino che già c’è cascato allora e che è tanto cretino da essere disposto a ricascarci ancora.
Io, caro Alessandro, non «reput[o] ridicolo il fatto che Berlusconi abbia firmato per presentare dei quesiti che si propongono di abrogare leggi approvate dal suo stesso governo (leggasi immigrazione o droga)»: reputo sia prova che è disposto a tutto pur di restare a galla, d’altronde sbattere in galera un Cucchi, internare in veri e propri lager dei disperati appena buttati in mare dagli scafisti e augurare alla Englaro lunga vita e figli maschi non erano espressioni di una Weltanschauung, l’ometto non ha alcuna Weltanschauung, ha solo cangianti proiezioni di una fenomenologia che si condensa nei lerci cazzi suoi. E dunque, sì, non mi sfugge che «i referendum veng[a]no indetti affinché i cittadini si pronuncino sul loro contenuto, non necessariamente perché si è d’accordo con quello che chiedono», ma mi è altrettanto chiaro che spaccano trasversalmente i partiti di massa e quelli che hanno vocazione di forte impronta identitaria (tutt’altra cosa, poi, se a vocazione riesca a corrispondere). Non dev’essere un mistero neppure per te, che infatti scrivi: «Chi afferma che in realtà Berlusconi ha firmato i referendum in modo strumentale, al solo scopo di tornare ad “esistere” politicamente in un momento nel quale i suoi guai personali lo stanno sommergendo, probabilmente (molto probabilmente) ha ragione». Proprio perciò trasecolo quando aggiungi: «Ciò non toglie che in ragione della sua firma le positive conseguenze politiche di cui ai primi quattro punti potrebbero prodursi lo stesso, il che equivale a dire che le intenzioni di Berlusconi sono assai meno importanti degli esiti che potrebbero determinare». Importanti per chi, caro Alessandro? Solo per chi ha fede nel referendum come strumento di democrazia diretta in grado di correggere i guasti della democrazia rappresentativa. E qui, con quanto aggiungi al punto successivo, veniamo alla quaestio dolens.
Tu scrivi: «Chi afferma che Pannella, a sua volta, ha “accolto” la firma di Berlusconi in modo strumentale, al solo scopo di tornare ad “esistere” politicamente in un momento in cui il suo partito è ai minimi storici, probabilmente ha ragione anche lui, ma ciò non toglie che i radicali quei referendum li stiano presentando e sono gli unici che continuano a sollecitare un dibattito pubblico su quei temi, dibattito che tutti gli altri si guardano bene dal sollevare, il che vuol dire che quell’esistenza, Berlusconi o non Berlusconi, se la meritano tutta». Qui, consentimi la franchezza, puoi convincere solo chi non sappia le ragioni che hanno portato i radicali alla decisione di presentare questi quesiti referendari, e soprattutto ignori il perché e il come da sei sono diventati dodici. Vabbe’ che non significa niente sul piano delle decisioni, e nemmeno su quello della conoscenza, ma in fondo sei dirigente di un soggetto della «galassia radicale», bazzichi in via di Torre Argentina, non ti manca naso per fiutare e capire: può darsi tu non sia arrivato ancora al disgusto per quel monumento di ipocrisia, cinismo, ambiguità e opportunismo che comanda la baracca, e può darsi non ci arriverai mai perché di animo buono, ma so che sei dotato dell’intelligenza e dell’onestà intellettuale che sono sufficienti a sgombrare il campo dalla retorica. E allora dimmi: ma tu davvero credi che i sei quesiti sulla «giustizia giusta» siano stati concepiti per aprire un dibattito? Sarò ancora più brutale: ma tu pensi che in via della Panetteria scenda ogni volta lo Spirito Santo per dettare le priorità tra le iniziative politiche che mirano ad alleviare le sofferenze che affliggono lumanità? Non saresti il primo radicale ad ignorare la storia del partito radicale da quando è diventato proprietà privata di Pannella, ma non puoi aver dimenticato che, quando qualche temerario gli faceva presente, non più di qualche mese fa, che l’amnistia non bastasse a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, e che si dovesse fare qualcosa per mettere in discussione la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, il vecchiaccio gli zompava addosso e lo sbranava, lasciano i resti ai suoi leccaculo.
«Chi sostiene che i radicali sono dei “voltagabbana” e dei “venduti” perché “parlano” con Berlusconi – scrivi – muove da presupposti che a mio parere sono inappropriati per analizzare la politica». Io penso di no. Penso che chi ha ingannato mezza Italia con la sua truffa della «rivoluzione liberale» deve essere isolato, prima di tutto dai veri liberali, altro che bersi la panzana che spacciava l’altrieri in Largo di Torre Argentina («avrei voluto, avrei voluto tanto, giuro sulla buonanima della mia mammina, ma non avevo il 51%»: ma va’ a cagare, ché hai avuto le più ampie maggioranze parlamentari della storia repubblicana e sei stato capace solo di scrivere leggi clerico-fasciste o tardo-dorotee).
Su una cosa, però, devo darti ragione, caro Alessandro: «Chi ritiene che il Pd faccia bene a non promuovere i referendum per “non mischiarsi” con Berlusconi – scrivi – muove da presupposti che a mio parere sono ancora più inappropriati per analizzare la politica». È vero, ma questo non è argomento, se non fallace («guilt by association», dicevamo). «Chi, infine, afferma che i referendum siano uno strumento logoro, sopravvalutato, inutile, e quindi che la loro “strumentalizzazione” non sia l’effetto collaterale di un obiettivo politico, ma l’unico obiettivo, pone invece un problema del quale credo sia interessante e utile discutere»: così concludi, e può darsi che tu faccia riferimento ai post coi quali ho messo in discussione la natura stessa della consultazione referendaria, ma ho i miei dubbi, perché tra i commenti non ho letto alcuna tua obiezione, e poi sarai troppo occupato a raccogliere firme per perdere tempo su queste pagine. Fatto sta che scrivi: «Sulla questione la penso diversamente», ma non aggiungi altro. Non sono uno strumento inutile? Perché? O meglio: spiegami a cosa sono utili, però produci numeri, portami fatti. A cosa servono, oggi, se sono mai serviti a qualcosa, i referendum? A creare lo scompiglio dal quale Berlusconi pensa di poter trarre vantaggio, hai detto no, o non solo, o comunque – ritieni – senza effetto rilevante. A dare un po’ di ossigeno all’asfissiata cosuccia radicale, abbiamo detto sì, può darsi, ma – tieni a precisare – non è quello l’importante. E allora? A cosa? 

«... la seconda come farsa» («Strumento di democrazia diretta» / 4)

Dal 1974 al 2011, in Italia, si sono tenute 66 consultazioni referendarie abrogative in 16 tornate elettorali fino a un massimo di 12 quesiti per ciascuna: in 27 casi non si è raggiunto il quorum e nei casi in cui lo si è raggiunto si è avuto un progressivo calo dellaffluenza alle urne dall’87,7% del 1974 al 54,8% del 2011; in 36 casi dei rimanenti 59, la proposta di abrogazione è stata respinta; in almeno 18 dei 23 casi in cui il risultato ha premiato l’iniziativa dei promotori della campagna referendaria, il volere espresso dalla maggioranza degli elettori è stato sostanzialmente disatteso. Ancor più degli argomenti d’ordine teorico e pratico da lui esposti in Contro il referendum (Biblioteca della Critica Sociale, 1897) e che abbiamo già illustrato (1, 2, 3), sono questi numeri a dar ragione ad Arturo Labriola: «Passato il referendum, o tutto resta come prima o il suo risultato è assorbito dalla classe dirigente. […] È ritenuta manifestazione di radicale democrazia eppure è soltanto una pericolosa illusione ed uno strumento di conservatorismo». Ad oltre un secolo dalla sua lezione, tuttavia, c’è chi continua a credere nel referendum come strumento di democrazia diretta in grado di correggere i guasti della democrazia rappresentativa, o a fingere di crederlo. In buona o in cattiva fede, dunque. Nel primo caso, quasi certamente pesa la retorica che si è sviluppata attorno ai due referendum sul divorzio e sull’aborto, e che troppo spesso sembra in grado di far dimenticare che quelle due leggi furono approvate dal Parlamento, e che le urne si limitarono a confermarle respingendo la proposta di abrogazione. Nel secondo caso, basta pensare a Silvio Berlusconi che su consiglio di Giuliano Ferrara firma i referendum promossi da Marco Pannella e si ha la rappresentazione plastica dell’uso al quale la democrazia diretta si presta quando si fa strumento di quei loschi figuri che eccellono in cialtroneria e in mascalzonaggine.


venerdì 23 agosto 2013

Ci siamo capiti

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.
Premessa che sarebbe superflua, questa, se il paese, questo, non fosse quello che è. Paese che da settimane discute su come si possa venir meno al rispetto di una sentenza della Corte di Cassazione, quella che condanna un potente a un annetto di galera, mentre un indulto gliene ha già abbuonati altri tre, e pare che non ci sia altro su cui discutere. Capirete, visto che ci siamo capiti, che si tratta di un paese in cui le sentenze, anche quelle definitive, non sono mai abbastanza definitive: fino a quella della Corte di Cassazione, come è giusto, il condannato in primo e in secondo grado è sempre virtualmente innocente, ma pure dopo, quando la sua colpevolezza è certa, c’è sempre modo di evitare che la condanna sia applicata, ovviamente se il condannato è un potente, perché, se non è un potente, si fotte, e si fa il suo annetto e più di galera, anche solo in attesa del processo di primo grado. Quale migliore definizione per un paese in cui da semplice imputato ti tocca stare in galera, e star zitto, e da condannato in via definitiva è tutto da stabilire se puoi startene a casa due o tre mesi in attesa della grazia o scansare pure quello, e dintanto puoi sbraitare che neanche così ti sta bene? Evitiamola, ci siamo capiti.

mercoledì 21 agosto 2013

[...]




«Ogni frase del tipo “la decostruzione è X” o “la decostruzione non è X” è a priori priva di pertinenza: è a dir poco falsa»
Jacques Derrida, Lettre à un ami japonaise (1983)


«La decostruzione è la giustizia»
Jacques Derrida, Deconstruction and the Possibility of Justice (1989)

martedì 20 agosto 2013

Segnalibro

Fossero, non dico intelligenti (Rap)



Fossero, non dico intelligenti, ma almeno astuti, e non dico astutissimi, ma dotati almeno di due once di furbizia, si potrebbe ipotizzare che i dirigenti del Pd non assumano posizione netta e inflessibile sull’anno di reclusione che tocca a Silvio Berlusconi per il timore di ritrovarselo tra i piedi, fra un anno, con l’aureola del martire che esca da San Vittore per essere portato in spalla direttamente a Palazzo Chigi. Si potrebbe ipotizzare che al pensiero delle sue Lettere dal carcere pubblicate ogni giorno sui giornali del centrodestra, e lette quotidianamente da Remo Girone su tutte le reti Mediaset, per essere poi raccolte in un volume della Mondadori ed essere inviato a venti milioni di famiglie, abbiano fatto due più due, e deciso di non ficcargli addosso i panni del perseguitato politico.
Il fatto è che invece sono, non dico stupidi, ma irrimediabilmente cretini, e non di quella candida cretinaggine che è dei poveri di spirito, che qui in terra sono destinati a pigliarlo in culo, ma almeno poi andranno dritti dritti in paradiso, no, piuttosto della patetica fessaggine di chi si pensa furbo di sei spanne sopra ai più furbi. Basta guardarli, non ce nè uno che a levargli spocchia e stipendio sappia pisciare a un palmo dalla punta dei propri mocassini.
La legge è uguale per tutti, ci mancherebbe altro, ma pensano che il concetto debba essere spiegato al condannato con delicatezza, sennò quello s’incazza e fa cadere il governo. In galera, no, ci mancherebbe altro, può starsene in uno dei suoi villoni, sennò può optare per i servizi sociali, chessò potrebbe fare l’archivista della Fondazione Magna Carta, giusto il tempo di dar modo al Quirinale di esaminare la domanda di grazia, mentre d’intanto il governo lima del necessario la legge Severino, ma poi non è detto che unamnistia... Le carceri sono già sovraffollate, vorremmo mica ficcarci dentro pure uno tanto ingombrante?
Cretini, irrimediabilmente cretini: è da vent’anni che li fotte coi suoi bluff, e ancora non hanno capito con chi hanno a che fare, ancora pensano che lo si possa logorare, ancora non hanno capito che se li metterà in saccoccia pure dopo che sarà morto. 

domenica 18 agosto 2013

I referendum «initially sponsored by Radical party» («Strumento di democrazia diretta» / 3)

Oltre a quelli già presi in considerazione (1, 2), Arturo Labriola ha un ultimo argomento contro l’istituto referendario, che, se sul piano teorico è assai meno forte rispetto agli altri, ha unindubbia efficacia su quello pratico, traendola dall’evidenza piana, sulla quale d’altronde ci siamo già soffermati, che nella singola consultazione referendaria «ogni giudizio di insieme sfugge», e non può che sfuggire, perché l’elettore «non esamina i motivi che hanno determinato la proposta» o, per meglio dire, su essi non può esprimere un parere che connoti il valore della scelta nell’ambito in cui essa è agita, ma neanche – abbiamo visto – nell’ambito in cui essa è agente: di là dal quesito posto e dall’esito della consultazione, sostiene Labriola, un referendum trascende sempre il contesto generale entro il quale la questione che solleva si è venuta a porre, quindi non si fa carico delle questioni di opportunità che sono implicitate dal quadro politico generale, e che ne connotano i tratti.
In altri termini – e qui mi auguro di non complicare troppo le cose nel tentativo di semplificarle – la questione sollevata dal referendum ha sempre, almeno in potenza, i caratteri di un segmento disarticolato rispetto al progetto che si presume lo includa: di là dal quesito posto e dall’esito della consultazione, gli effetti generati da una consultazione referendaria, talvolta ben prima che sia dato il risultato, sfuggono ai fini posti. Non solo, si badi bene, perché Labriola ritiene «inutile o dannoso» quanto è prodotto da un qualsivoglia strumento di democrazia diretta, ma anche perché sostiene che, quando «la mozione presentata si giudica per ciò che appare»leterogenesi dei fini è la regola.

Se anche così le ragioni di Labriola rimangono poco chiare o comunque poco convincenti, non resta che ricorrere a un esempio. Suppongo sappiate che i radicali stanno raccogliendo le firme per dodici referendum. Si tratta di due pacchetti tematici (Cambiamo noi e Giustizia giusta) di sei quesiti ciascuno. Abrogazione del reato di clandestinità, divorzio breve, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alla normativa sugli stupefacenti e abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici sono i sei quesiti del primo pacchetto, promosso da un comitato che ha trovato impulso dall’iniziativa politica di Radicali italiani, uno dei soggetti della cosiddetta «galassia». Il percorso che ha portato alla decisione di indire questi sei referendum è estremamente complicato, come d’altronde lo è tutto ciò che riguarda i radicali. Possiamo risparmiarci i dettagli, ma è importante rimarcare un dato: Marco Pannella non li voleva, e per molteplici ragioni.
In primo luogo, perché desiderava che le già esigue forze dell’area non fossero disperse per altri fini che la battaglia per l’amnistia: in pratica, temeva – e a ragione, come al momento dimostrano i risultati parziali della raccolta delle firme – che l’impresa corresse il rischio di andare incontro a un fallimento, con ovvie ripercussioni negative in termini di immagine del movimento, già ampiamente logorata dalle scelte ambigue e contraddittorie che ne hanno segnato il percorso negli ultimi vent’anni.
In secondo luogo, le questioni sollevate da questi sei referendum «guardano a sinistra», e Pannella sa bene che una qualsiasi intesa dell’area radicale con la sinistra, di cui la campagna referendaria Cambiamo noi possa essere occasione, non può realizzarsi senza un drastico ridimensionamento della sua leadership, per lasciar spazio – anche solo un po’ di spazio – a chi da anni, contro la sua volontà, lavora in questo senso.
Visto che i sei referendum prendevano la loro via, la sua contromossa è stata la presentazione degli altri sei quesiti referendari (separazione delle carriere in magistratura, abolizione dell’ergastolo, limiti all’istituto della custodia cautelare, responsabilità civile dei magistrati e rientro di quelli fuori ruolo nelle loro funzioni). Temi che «guardano a destra», bilanciando gli altri sei, e dunque neutralizzandone i potenziali «effetti indesiderati» sul piano della costruzione di eventuali alleanze politiche a sinistra. Di fatto, l’appoggio che poteva venire dalla sinistra al primo pacchetto referendario è andato riducendosi via via che a destra andava maturando, anche se in modo surrettizio e con evidenti fini strumentali, l’appoggio al secondo. È così che per un osservatore neutro come il Financial Times i referendum «initially sponsored by Radical party» sono diventati i punti di una «reform of the Italian justice system» voluta dal Pdl.

È che, nel loro insieme, i dodici quesiti sono coerenti solo al di fuori di ogni logica di opportunità che sinistra e destra sono tenute a osservare nella corrente serie di contingenze che caratterizzano l’attuale quadro politico: se mai si riuscisse a raccogliere per tutti e dodici le firme necessarie, se tutti e dodici superassero il vaglio della Corte Costituzionale, se per tutti e dodici si avesse un responso positivo dalle urne e se quanto abrogano delle vigenti normative non trovasse modo di rientrare dalla finestra dopo essere uscito dalla porta – ipotesi del tutto aleatorie, anche senza voler recepire gli argomenti di Labriola, che peraltro trovano rispondenza in ciò che è accaduto per tanti esiti referendari in Italia – ci troveremmo dinanzi a dodici segmenti di un programma liberale. Continuerebbero a non avere l’articolazione che è propria di un programma, ma non perderebbero coerenza. Di fatto, sono nati per opportunità incoerenti tra di loro e ne pagano le conseguenze sul piano delle opposte opportunità che incontrano nellodierno quadro politico italiano.
Conviene firmarli? Se si è ingenui, sì, tutti. Se si è cinici, solo alcuni. In entrambi i casi, si sarà data ragione a Labriola. Anche senza averne coscienza.    

sabato 10 agosto 2013

Mario Rossi? Giuseppe Verdi?


Tommaso Labate ci offre l’occasione di affrontare una questione assai delicata sul piano morale, per certi versi affine a quella che si pone quando muore un pezzo di merda: rimane il pezzo di merda che era o si deve chiudere un occhio, cioè una narice? Se in quel caso pare debba prevalere il «nisi bonum de mortuis», qui Labate sembra voglia consigliarci la solidarietà umana nei confronti del condannato, anche quando la condanna sia per reati abietti. E non si limita a dissuaderci dal maramaldeggiare, sia chiaro, ci suggerisce proprio la solidarietà umana o, in subordine, un po’ d’indulgenza alla sua solidarietà umana nei confronti del pezzo di merda.
«Dalle parti mie – scrive – c’era tanti anni fa un uomo molto potente e in odore di massoneria. Un uomo perennemente circondato da un inimmaginabile codazzo di gente, gente povera e gente ricchissima, a cui verosimilmente elargiva nel primo caso elemosine, nel secondo favori un po’ più consistenti». Qui è opportuno fermarci un attimo per cercare di dare contorni più netti a questo personaggio. Labate è nato nel 1979 a Marina di Gioiosa Jonica, un paesino di poco più di 6.000 anime, in provincia di Reggio Calabria, che da almeno 40 anni è in mano a due ’ndrine, quella dei Mazzaferro e quella degli Aquino, che si contendono da sempre, a suon di morti ammazzati, un imponente giro di malaffare (estorsione, usura e traffico di stupefacenti) con tentacoli ben radicati in Lombardia, in Liguria, in Germania e in Belgio. Che tipo di profilo assume, in un contesto del genere, un personaggio descritto come «un uomo molto potente»? È azzardato dedurre che si trattasse di Vincenzo Mazzaferro o di Salvatore Aquino? E perché Labate dice che era «in odore di massoneria» e non fa alcun cenno alla ’ndrangheta? Una mezza idea ce l’ho, ma la esporrò alla fine, d’intanto chiariamo che tra esponenti della famiglia Mazzaferro e la massoneria deviata sono documentati legami tra gli ultimi anni ’80 e gran parte degli anni ’90.
«Ero bambino – prosegue Labate – ma ricordo come se fosse oggi il disprezzo, il distacco umano e la profonda antipatia che mio padre nutriva nei confronti di questa persona. Come a dire, “neanche un caffè”. Una volta, però, questo signore finì in una clamorosa inchiesta della magistratura che ne azzerò in un colpo solo la mastodontica corte di leccapiedi e pure il potere». Si tratta dell’operazione «Leopardo» (1992) o dell’operazione «Fiori della notte di San Vito» (1994)? Non ha importanza, in fondo. Proseguiamo nel racconto di Labate: «La sera della prima vigilia di Natale da quel tracollo, ma questo l’avrei saputo dopo, mio papà – che con lui, prima, “neanche un caffè” – comprò una bottiglia di champagne e andò a trovarlo per gli auguri. Immaginava una scena, mio papà. E infatti se la ritrovò davanti proprio come l’aveva pensata. Di fronte a quel portone in cui nelle precedenti vigilie di Natale la gente s’accalcava, non c’era più nessuno. Manco un’anima. Nessuno. Solo mio papà. E la sua bottiglia di champagne. Su quella persona mio papà non ha mai cambiato il suo giudizio precedente. E penso che, dopo quella volta, non si rividero più».
Qui, alla luce di ciò che Labate ha omesso, è superfluo ogni commento. «Non c’era più nessuno», ma in causa si deve chiamare solo l’umana ingratitudine? Nessuna attenuante per l’«inimmaginabile codazzo di gente» che prima circondava l’«uomo molto potente»? Diamo per scontato che tutti sapessero da sempre chi fosse, che genere di affari trattasse, e che solo «mio papà» fosse da sempre riuscito ad avere nei suoi confronti un atteggiamento moralmente ineccepibile: ma fu solo l’umana ingratitudine a fare il deserto «di fronte a quel portone»? Sul piano morale possiamo condannare un cliens che abbia paura di essere considerato socius dalle forze dell’ordine che sorvegliano l’abitazione dell’indagato? Chi può permettersi di andare a stappare una bottiglia di champagne con lui? Solo chi non è mai stato cliens, è evidente. Rimane tuttavia da stabilire se un tal gesto di solidarietà con chi sia caduto in disgrazia possa essere giustificato di là dai motivi che hanno provocato la caduta. «In odore di massoneria», forse. Ma reo di crimini odiosi?
Labate scrive: «Io so che a tutti quelli che certe volte sbarrano gli occhi e mi chiedono “come c...o sei fatto?” e “che cos’hai nella testa?” vorrei raccontare questa storia. Quest’insegnamento che ho preso e che non dimenticherò mai. Questa cosa di mio padre che avrei fatto nello stesso identico modo. E che rifarei di fronte a un portone deserto davanti a cui prima si accalcavano le masse, che rifarei alla vigilia di Natale, che rifarei comprando una bottiglia di champagne, che rifarei pur conservando intatto il giudizio precedente sul Re corrotto e osannato, poi caduto e abbandonato. Che rifarei si chiami esso Mario Rossi, Giuseppe Verdi o Silvio Berlusconi».
Non avevate immaginato dove volesse andare a parare? Siete degli ingenui, bastava sentire come montava il climax. Via, tutti a Palazzo Grazioli, a Natale. Tutti con una bottiglia di champagne. In cambio, poi, Labate ci fa il favore di dirci nome e cognome del tizio col quale brindò suo papà. Era Mario Rossi? Era Giuseppe Verdi? 

venerdì 9 agosto 2013

Antonio Esposito, napoletano

La bassezza morale e intellettuale dei servi di Berlusconi ci offre orrori sempre nuovi. Li abbiamo visti darsi a crisi isteriche ogni volta che veniva resa pubblica una telefonata del loro padrone a questa o a quella mignotta, a questo o a quel magnaccia: si trattava di intercettazioni ordinate dalla magistratura e rese pubbliche dopo essere state messe agli atti, ma il vulnus alla privacy li faceva andare in convulsioni. Fanculo alla privacy, ora. Ora, hanno la registrazione della telefonata intercorsa tra un cronista de Il Mattino e il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva il loro padrone, ed è gara a chi sa spremerne di più.
Registrazione effettuata dal primo ad insaputa del secondo, e della quale è stata resa pubblica solo una parte, quella che avrebbe dovuto dimostrare la fedeltà al testo pubblicato dal giornale di Caltagirone, e che invece ha dimostrato quasi da subito che si era in presenza di una palese manipolazione. Un trappolone nel quale il giudice è caduto assai ingenuamente, niente di più, niente di meno. Ed essendoci davvero poco, praticamente niente, per inficiare la sentenza del 1° agosto, eccoli affannarsi, i servi, sul dialetto di Antonio Esposito, come sul colore dei calzini di Raimondo Mesiano: il giudice e il giornalista si conoscono da oltre trent’anni, sono entrambi di Napoli, ma il fatto che la telefonata sia in napoletano è occasione di un vero e proprio processo pubblico.
«Non badiamo ai contenuti, teniamoci alla forma», scrive Annalisa Chirico in una lettera a Il Foglio, con ciò palesando che la telefonata può al massimo tornare utile per una character assassination. «La forma è francamente imbarazzante», scrive la Chirico. Scrive che «quella cadenza va ben olre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana» e che «in quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico». Chissà come può esserne così sicura, visto il Filangieri e il Vico non ci hanno lasciato neanche un file audio. Ma è che stigmatizzare l’uso del dialetto senza salvare il dialetto in sé le avrebbe fatto correre il rischio di sembrare un tantinello razzista, e non sia mai, meglio arrampicarsi sul ridicolo: la signorina ha prova che il Filangieri e il Vico avevano tuttaltro accento, informatene lAccademia di Glottologia.
Il dialetto di Antonio Esposito, al parere della improvvisata linguista (sia detto senza doppio senso), somiglia piuttosto a quello di Felice Caccamo, la celebre maschera napoletana interpretata da Teo Teocoli. È chiaro che a condannare in via definitiva il datore di lavoro della Chirico, che per inciso lavora per Panorama ed è stata la starlette dell’happening fogliante «Siamo tutti puttane», non è stato un giudice, ma una macchietta.
Sedicente liberale, la Chirico, ma Gaetano Salvemini ci ha avvisati: «A chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte» (Italia scombinata, Einaudi 1959). 

martedì 6 agosto 2013

[...]

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla legittimità e non sul merito di una sentenza. Silvio Berlusconi «sapeva» o «non poteva non sapere»? È questione che attiene al merito e le motivazioni della sentenza di primo grado, del tutto recepite da quelle della condanna in appello, dicono: «Sapeva». Pag. 91, 2° capoverso: «Vi è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito, ecc.». Stessa pagina, dal 6° all’8° capoverso: «Berlusconi rimane al vertice della gestione dei diritti, posto che, come ha dichiarato il teste Tatò, Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il C.d.A. e nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa e la c.d. “discesa in campo” di Berlusconi. Lo stesso ha dichiarato il teste Tronconi. Inoltre Berlusconi aveva rapporti diretti con Lorenzano, che operava a fianco di Agrama e Cuomo, come risulta dalla deposizione di vari testi che hanno riferito di incontri tra i due che non potevano che riguardare questioni attinenti ai diritti». Tizio, Caio, Sempronio… Ben più che prova logica, dunque. Ma tutto questo, dicevamo, attiene al merito.
È del tutto pacifico, dunque, che, quando il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi si intrattiene al telefono col giornalista de Il Mattino sul merito, non sta parlando della sentenza che ha pronunciato il 1° agosto, ma delle due che l’hanno preceduta in primo e in secondo grado: in pratica, non c’è neppure la possibilità che in qualche modo la infici palesando un qualche vizio di pregiudiziale parzialità. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non concedere l’intervista per non prestarsi alle polemiche, che non era difficile prevedere sarebbero esplose comunque, qualunque cosa avesse detto, ma il tono colloquiale e assai poco formale col quale si intrattiene con chi lo intervista è prova che sul punto sia stato guidato con malizia.  


La supercazzola del katechon

Krisis, Dallo Steinhof, Feuerbach contro Agostino d’Ippona, Icone della legge, L’Angelo necessario, Dell’Inizio, L’Arcipelago, Della cosa ultima… Ho letto una dozzina di volumi di Massimo Cacciari, senza però mai trovarci niente di speciale, null’altro che glosse di glosse, ma questo probabilmente è dovuto solo ai miei limiti, e mi sono fermato a Tre icone, che è del 2007, abbandonato ogni volta che provavo a riaprirlo, ogni volta dopo poche pagine: non riuscivo a concentrarmi sul filosofo, mi era impossibile prescindere dalle sue comparsate televisive, di regola degeneranti in risse. Leggevo, ma mi tornava in mente «quella volta che a Ottoemezzo…», «quella volta che a Servizio pubblico…», e mi veniva da ridere, e non riuscivo a proseguire: mi sembrava più serio il Massimo Cacciari di Maurizio Blondet che quello originale. È così che qualche mese fa, in un momento di uggia, ho deciso di comprare il suo ultimo volume, Il potere che frena (Adelphi 2013), giusto per tirarmi un po’ su. Sarà che l’uggia era leggera, ma ho cominciato a ridere da subito, appena ho letto il titolo del primo capitolo: Il problema della teologia politica.
Ora, se il mio lettore è del tutto a digiuno sulla questione, converrà dire che di teologia politica si parla da un bel po’ di tempo, ma senza che si sia mai trovato accordo su cosa sia esattamente. Politica della teologia? Teologia della politica? Né l’una, né l’altra cosa, né entrambe. Cioè, per meglio dire, entrambe, forse sì, ma in misura anche sensibilmente diversa da autore ad autore: una storia semasiologica, quella della teologia politica, che sembra fatta apposta per tenderci tranelli ad ogni passo. Parliamo della possibilità di trattare razionalmente il fondamento trascendente della relazione che in senso lato chiameremmo politica, e senza il quale la relazione stessa è persa? O piuttosto parliamo della cogenza che fa del numinoso un evento necessariamente immanente, sennò insignificante per pletora di significati? Non si sa. Koselleck non si sbilancia, Ritter dice e non dice, Metz non nega e non afferma. Certo, per teologia politica non è da intendersi la theologia politike di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, e tuttavia è proprio da lì che prende inizio la discussione intorno al katechon, che sembra stare al centro della questione, almeno per come è stata riformulata ai nostri giorni, meno di cent’anni fa, da Carl Schmitt (Nomos der Erde).
Nell’illustrarla torna utile Roberto Esposito: sei o sette paginette (Due, Einaudi 2013 – pagg. 83-89) che valgono assai più delle 217 di Massimo Cacciari, 70 delle quali, però, sono preziose, perché raccolgono i commenti, da Ireneo a Calvino, sull’enigmatico riferimento di Paolo (2 Ts 2, 1-12) al «potere che frena». Rovello di titani, non è per dire, ma in tutti viene meno la più banale delle considerazioni: le lettere di Paolo erano indirizzate a illetterati, erano bollettini propagandistici nei quali un termine oscuro o ambiguo poteva tornare buono proprio perché oscuro o ambiguo. La comunità cristiana di Tessalonica smaniava perché sentiva prossima la fine dei tempi, che ovviamente era destinata a farsi attendere, e voilà, da genio, Paolo se ne esce con la supercazzola della dilazione che verrà meno «a suo tempo», e che accadrà ognun lo dice, ma cosa sia nessun lo sa. Si dirà che è l’impero romano, che poi cade, ma l’Anticristo non arriva. E allora unaltra supercazzola: il katechon è la Chiesa. Ma poi la secolarizzazione fa alla Chiesa più di quanto Odoacre riesca a fare all’impero romano, e allora c’è bisogno di un’altra supercazzola: il katechon è l’amministrazione corrente, lo Stato laico. Sempre katechon rimane, ma con scappellamento a destra.    

«Guerra civile»



«Ne cherchez jamais à faire autre chose que l’opéra buffa, ce serait forcer votre destinée que de voulir réussir dans un autre genre… L’opéra seria, cela n’est pas la nature des Italiens». Non è certo che Beethoven abbia detto proprio così a Rossini (pare che le memorie di Edmond Michotte siano un po’ romanzate), ma ogni volta che sento parlare di «guerra civile» in Italia – e ultimamente se ne riparla, anche con qualche compiaciuta insistenza – penso che le cose stiano proprio a questo modo: il dramma non è categoria che si attaglia a les Italiens, siamo plebe che dà il meglio di sé quasi esclusivamente nella farsa.
Sarà che hanno tutte carattere esogeno, le «guerre civili» che si sono combattute in Italia, almeno così dice Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione editrice 2001), e argomenta in modo convincente. D’altra parte non è fine darne una ragione appellandosi al «carattere nazionale», o comunque non è scientifico (se vogliamo difendere la dignità di scienza che in tanti negano alla storia), peggio ancora tirare in ballo la «destinée» (il revival spengleriano si è esaurito già da anni).
Niente, siamo costretti a sentirci dire che c’è in atto una «guerra civile» – la recrudescenza di una antica «guerra civile», per meglio dire – e in scena sfilano solo maschere grottesche, caricature belliche, grugni feroci che vorrei vederli a tentare quello che minacciano: un ceffone, e Brunetta comincia a strepitare «mamma, mammina, m’han fatto la bua!»; alla prima raffica di mitra al polpastrello della Santanché viene la vescichetta, se non si spezza l’unghia o l’intonaco del soffito non la seppellisce; Verdini e Capezzone si arrendono al primo attacco; Schifani sviene prima; Cicchitto somatizza e corre al cesso; finisce che il vero eroe sarà il barboncino, che abbaierà fino alla fine (sull’elicottero non c’era posto, e pure la Pascale l’ha trovato a stento, ché come fidanzata del satiro che è riuscito a mettere la testa a posto già non serviva più da mesi).
Non che nel campo avverso spicchi un Cuordileone. Ma ve lo immaginate Civati sulle barricate? E Scalfarotto? Roba di carta, la «guerra civile».

[...]    

«Non è un addio», ho scritto al cosiddetto «passo indietro» che Berlusconi fece il 25 ottobre dell’anno scorso. «Non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership, ma solo l’annuncio che la eserciterà in modo obliquo, perciò ancor più spregiudicatamente, se possibile»; e concludevo: «Rimango dell’idea che ho ripetutamente espresso su queste pagine: era necessaria la sua eliminazione fisica, ora è troppo tardi». Nel caso ci fosse stato un rischio reale di «guerra civile», ovviamente, ma non c’è mai stato, dunque non è mai stato necessario toglierlo di mezzo. Un treppiede, una statuina del Duomo di Milano, ma in fondo erano gesti di affetto. Era in programma la farsa, l’opera buffa che va in scena in questi giorni, non potevamo perdere un protagonista, il protagonista. Ma dobbiamo crederci: dobbiamo credere che questa sia davvero una cruenta faida fratricida, sennò ci scapperebbe da ridere.  

mercoledì 31 luglio 2013

venerdì 26 luglio 2013

«Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»

Albert Willem de Groot ha segnalato una cinquantina di significati diversi del termine «ritmo» (Der Rhythmus) ed Edgar Willems è arrivato a contarne ben quattrocento (Le rythme musical). E dunque a cosa fa riferimento, Giovanni Allevi, quando afferma: «Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Parla della strutturazione, dello sviluppo o della periodicità? Fa forse riferimento al «metro», che però è solo uno degli elementi dell’organizzazione della durata? «Il ritmo non è un concetto univoco, ma un termine generico – scrive Paul Fraisse (Le structures rythmiques) – sicché solo l’analisi del testo musicale può individuarne le componenti dando ad esse unità gerarchica», e Allevi non cita una composizione in particolare, dice «in Beethoven», come se la mancanza di «ritmo» sia una caratteristica di tutta la sua produzione: forse vuol dire che in lui non riesce ad individuare equivalenza di durata tra le parti che confluiscono nella linea melodica? Può darsi, perché aggiunge che «il ritmo è elemento che manca [anche] nella tradizione classica [complessivamente presa in considerazione(?)]» e che ha pienamente afferrato cosa sia, il «ritmo», solo dopo aver lavorato con Jovanotti. L’avesse detto Guia Soncini, la questione non si porrebbe, ma Allevi ha studiato in conservatorio e dovrebbe sapere che quel dum-dum che amplifica il tic-tac del metronomo è peculiarità di certa musica – volendola considerare tale – ma che ce n’è altra che il battito, il respiro, l’onda di vita che l’attraversa e la muove, l’ha dentro, e da lì dentro le dà forma e andamento, anche facendo a meno di una linea di bass & drum. E allora che cazzo significa – esattamente – «mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Domande che nessuno gli ha rivolto. D’altronde la sua uscita fa il paio con le reazioni che ha suscitato in chi di Beethoven conosce tutt’al più le prime cinque battute della V Sinfonia, l’An die Freude della IX nell’arrangiamento di Wendy Carlos per Clockwork Orange (Stanley Kubrick, 1971) e forse – dico forse – l’attacco di Für Elise e qualche passaggio della Mondscheinsonate. Il tutto s’incastona a meraviglia in un’Italia in cui solo l’analfabetismo musicale è più diffuso della propensione a polemizzare senza argomentare: solo in Italia un compositore come Giovanni Allevi poteva essere dapprima salutato come un genio, e poi trattato peggio di un cane rognoso, per essere eventualmente riconsiderato un genio dopo la morte, se mai morisse presto, meglio se per leucemia o per overdose; e solo in Italia l’ignoranza riesce a farsi così bene scudo dei luoghi comuni, dichiarandoli territori sacri, intangibili e dunque impenetrabili, perciò da rispettare, ma tenendosene alla larga. Avesse detto che in Hummel manchi il ritmo, affermazione assai più temeraria di quella analoga che Allevi ha fatto per Beethoven, chi lo avrebbe contestato? Ma Beethoven è Beethoven: per la plebe cui da almeno vent’anni la scuola d’obbligo non dà più alcun rudimento di educazione musicale, Beethoven è intoccabile. Nessuno che abbia chiesto ad Allevi di spiegare cosa intendesse per ritmo, visto che si tratta di uno dei concetti più controversi e dibattuti nella storia della musica: tutti a saltargli addosso come furie, come se di Beethoven fossero consumatori a colazione, a pranzo e a cena. Peggio, come se fossero sentinelle di guardia al suo mausoleo. Il punto più basso, poi, si è toccato col video che il maestro Giuseppe Maiorca ha dedicato, in mutandoni da combattimento, «a tutti quei cretini che pensano che Beethoven non abbia ritmo»: un’esecuzione del quarto movimento della Sonata n. 18 che per svergognare Allevi sembrava suonata da Jovanotti. Roba che avrebbe fatto esclamare a Richter: «Basta! Questo Beethoven ha troppo ritmo!».  

giovedì 25 luglio 2013

[...]

Perdenti, dunque vincitori



Vent’anni fa veniva dato alle stampe The Culture of Complaint, che l’anno dopo arrivava in Italia, per i tipi di Adelphi, con un titolo che già dava un’idea del tipo di fortuna che cercava qui da noi, e che in sostanza prefigurava la differenza di stile tra la polemica mossa al «politicamente corretto» di qua e di là dall’Atlantico. Non che «piagnisteo» tradisse il senso di «compliant», infatti, ma dava una connotazione caricaturale a «lamentela», cercando – per trovarla con facilità – una legittimità alla «scorrettezza» come arma polemica.
I risultati sono nei fatti: mentre negli Stati Uniti la critica al «politicamente corretto» ha prodotto una riflessione seria anche laddove si limitasse a usare i mezzi della satira di costume, qui da noi è diventato un esercizio coatto, spesso becero, anche quando ad applicarvisi erano nomi d’un qualche peso. In tal senso potremmo dire che con la morte di Giorgio Gaber, che d’altronde aveva anticipato di almeno due o tre lustri le riflessioni di Robert Hughes, peraltro con intuizioni che restano folgoranti anche a così lunga distanza, l’Italia ha perso il solo critico del «politicamente corretto» che abbia mai avuto, per lasciare il campo a incursioni squalliducce, velleitariamente provocatorie, quasi sempre volgari, che si sono pressoché esaurite nel dare del «frocio» a un omosessuale, nel mugugnare per l’odore di kebab nei nostri centri storici e nel dichiararsi felicemente incompetenti dinanzi all’arte contemporanea.
Se la critica al «politicamente corretto», insomma, era una buona occasione per il pensiero conservatore, in Italia è stata sprecata riducendola ad una forma intrattenimento che tradiva perfino il movente liberatorio per insterilirsi in tic nevrotico. Questo, quando si trattava de Il Foglio, per buttare un occhio alla stampa, perché con il Giornale o con Libero, si riusciva a scendere anche più in basso. D’altra parte accade sempre così con quello che arriva dall’altra sponda dell’oceano: si copia, ma male. E basta rileggere La cultura del piagnisteo vent’anni dopo per fare una scoperta che tutto sommato è sconvolgente: se «la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime» (pag. 23), il ruolo spetta di diritto agli eroicomici disadattati alla modernità, che dopo aver tentato invano la via del politically uncorrect come momento di resistenza e di ribellione, possono dichiararsi perdenti, dunque vincitori.       

venerdì 19 luglio 2013

Consigli a Pippo


«Ti vergogni se ti chiamo Pippo?»
Massimo Troisi

Per avere un’idea plastica del degrado in cui versa la politica in Italia basta pensare al fatto che il meno peggio sulla piazza è quello schifo del Pd nel quale quello che fa meno schifo è Pippo Civati. Dico: Pippo Civati. Ecco, dunque, che a voler chiacchierare di politica senza essere aggrediti dalla nausea mi tocca parlare di lui.
A pelle mi è simpatico, Pippo, molto simpatico. Anzi, direi di più, ha quasi un che di familiare, sarà che mi rammenta quel fessacchione di Mimmo Miragliuolo al quale in prima media avevamo fatto credere che normalmente il cazzo avesse l’unghia, godendo come pazzi a vederlo seriamente preoccupato che il suo non l’avesse, ma a millantarne una bella grossa, quasi un artiglio. Bene, oggi su Sette c’era un’intervista a Pippo, e su quella mi intratterrò. Non per fargli le pulci, però, piuttosto per dargli dei consigli. Come a prenderlo in disparte per dirgli: «Stai tranquillo, Mimmo, si scherzava: normalmente il cazzo non ha l’unghia».
In primis, dire sì a Vittorio Zincone: grosso errore, Pippo, Zincone è cattivo come un ragazzino delle medie. E infatti, non so se te ne sei accorto, l’intervista aveva il chiaro scopo di ridurti a macchietta. C’è riuscito solo a metà, perché tu hai tirato fuori l’artiglio, ma «i suoi miti giovanili?», «il film preferito?», «il libro?», «la canzone?» - non ti sei accorto che ti trattava da adolescente al quale si chiede: «Mi fai sfogliare la tua Smemoranda?». Mai più, Pippo, sennò ti veltronizzeranno per l’eternità.
In secondo luogo, la foto che corredava l’intervista. Cazzarola, Pippo, non sei di primo pelo, dovresti sapere che, quando il fotografo si china per scattare una foto dal basso verso l’alto, sorridere e incrociare le braccia fa salumiere sulla soglia del negozio.
Il sorriso, poi. Non che un politico non debba sorridere, per carità di Dio, ma c’è sorriso e sorriso. Hai labbro inferiore carnoso e commissure labiali accentuate: stira di più quel cazzo di orbicolare, quando sorridi, altrimenti sembri Winni the Pooh.
La frangetta, poi, vogliamo finalmente parlare di quella stracazzo di frangetta? A parte il fatto che ti si confonde con la Serracchiani, ma hai l’arcata sovraorbitaria molto accentuata e  le sopracciglia chiare, non ti accorgi che il tutto ti dà facies da microcefalo? Via la frangetta, Pippo, fronte libera, taglio severo e basetta alta.
Per finire: le camicie a righini sono d’un triste…     

giovedì 18 luglio 2013

Varie


Non so se sia ancora in catalogo, ad ogni buon modo ve lo consiglio perché si tratta di un libro eccezionale. Parlo de Il cono d’ombra di Franco Bandini (SugarCo, 1990), una minuziosa disamina dell’intricatissimo groviglio dei servizi segreti italiani, sovietici, tedeschi, inglesi e francesi nel quale venne a incastrarsi l’assassinio dei fratelli Rosselli, nel 1937. Per chi ha letto Vita di Carlo Rosselli di Aldo Garosci (Vallecchi, 1973) sarà un duro colpo sollevare il velo della leggenda e Il conformista di Moravia sembrerà d’un tratto un manualetto di disinformazione sul fascismo.

Un’altra lettura che consiglio è quella di un libricino che raccoglie i contributi di Donatella Di Cesare, Fabio Milazzo, Laura Cervellione, Corrado Ocone, Lorenzo Magnani e Simone Regazzoni sul Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris: Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo, 2013). Una stroncatura senza possibilità di appello. Bene, fanculo a Ferraris.

La rivolta del vescovo Lefebvre di Ugo Ronfani (Pan Ed., 1977) contiene in versione pressoché integrale il discorso che l’«antipapa di Ecône» tenne l’anno prima nel Palazzo dello Sport di Lilla e che segnò la rottura con Roma. È un riandare alla fonte primigenia di una querelle che si è trascinata per decenni e che ora pare segnare una rottura definitiva tra la Santa Sede e la Comunità Sacerdotale S. Pio X. Ho più volte scritto su queste pagine che le basi del dissenso fossero insanabili e che il tentativo di ricomposizione dello scisma voluto da Joseph Ratzinger fosse disperato: il discorso di Lefebvre, che fin qui conoscevo solo in stralci, avrebbe dovuto scoraggiare chiunque. 

Dopo aver chiuso un post nel quale ho espresso un’opinione divergente dal comune sentire, per quanto possa essere sereno riguardo a ciò che ho scritto, torno spesso ad approfondire. Così è stato per ciò che ho scritto riguardo alla Liberazione di San Pietro di Raffaello e così sono arrivato alla monografia di Luigi Serra (Utet, 1941), che, anche se non tocca il punto relativo alla velatura in calce sulla quale mi sono intrattenuto, conferma l’impressione irriverente da me confessata: l’arte di Raffaello è innanzitutto artigianato. Serra non si è esprime proprio in questi termini, ma – come per il Caravaggio di Bernard Berenson – fa piacere accostarsi a un critico che guarda l’opera senza farsi accecare dalla fama dell’autore.

Mi scrive monsignor *** chiedendomi la rimozione di un post del 2007. Senza arroganza, senza neppure un’ombra di minaccia. Sua Eccellenza si era dichiarato gay ai microfoni di un cronista de La7, per fare repentina marcia indietro: «Sono stato un grande ingenuo – disse allora – forse ho peccato di superficialità. Il ragazzo di La7 è veramente entrato nel mio studio, il personaggio ripreso sono io. Non contesto le riprese e le evidenze, è tutto vero. Ma io non sono gay, volevo scrivere un libro, una ricerca sul problema dell’omosessualità tra i preti, dunque mi sono messo su Internet e ho cercato siti gay, ho contattato quel ragazzo ed è venuto da me. Fatto sta che la televisione ha carpito la mia buona fede: in sostanza era solo un esperimento, uno studio sul tema, e io sono caduto, ma spiegherò tutto ai miei superiori». Non dev’esserci riuscito e ora cerca di cancellare sul web le tracce di quella vicenda. Mi ha fatto una così struggente tenerezza che l’ho accontentato.

Come tutti i bimbi della sua età, anche il mio Michele adora l’effetto che fa una cosa che cadendo si rompe. Ovviamente gli si fa presente che «non si fa», ma non ha trovato difficoltà ad escogitare uno stratagemma che a me pare si offra come un esemplare filogenesi della morale. Aspetta che ti volti, si assicura che non stai guardando, getta a terra la cosa e, appena ti rigiri per constatare il danno, si mette le mani in testa e cominciare a camminare avanti e indietro lamentando: «Oooooh!». Come a dire: che peccato, che disgrazia, che guaio, che sventura. Lui non c’entra, tutta fatalità.

Ho sentito Roberto Calderoli al Senato. Di gran lunga più dignitoso di chi ne ha preso le difese. 

Prezioso volumetto, quello di Gennaro Cesaro (Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore - Bastogi, 2012). Raccoglie testimonianze coeve e postume, anche prossime al pettegolezzo, che illustrano a meraviglia la personalità del «Padre Pio di Palazzo Filomarino» e dicono del crocianesimo più di quanto ne dica l’opera di Croce.